IS e profili di diritto internazionale

Creato il 14 novembre 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Gianluigi Mastandrea Bonaviri - a cura di Francesco Minici

I recenti avvenimenti in Iraq e Siria hanno richiamato l’attenzione della comunità internazionale sull’Islamic State (IS) in Iraq e in Siria, il cui progressivo e inedito rafforzamento ha destato un’ondata di forte preoccupazione tra tutti i principali attori dello scenario internazionale. L’azione sempre più risoluta del gruppo, infatti, costituisce una minaccia non solo per la stabilità dello scacchiere mediorientale ma anche per la pace e per la sicurezza internazionale. Considerata da una prospettiva giuridica, la questione risulta complessa e articolata, coinvolgendo diversi profili di diritto internazionale. Da un lato, è necessario condurre un’attenta analisi sullo status giuridico dell’IS valutando se ricorrano i presupposti per poterlo qualificare come governo insurrezionale e stabilendo se la sua matrice terroristica possa o meno incidere su tale qualificazione. Dall’altro lato, non può trascurarsi il dibattito attinente alla legittimità dell’intervento recentemente condotto dall’amministrazione statunitense in Iraq e Siria al fine di contrastare l’avanzata dell’IS.

L’IS: gruppo terroristico o governo insurrezionale? – Non possono sollevarsi dubbi in merito alla matrice terroristica dell’IS che è chiara sia dagli atti recentemente commessi (e qualificati dal Consiglio di Sicurezza come “terroristici” nella risoluzione 2170/2014) [1], sia dall’origine stessa del gruppo. L’IS, già Islamic State di Iraq e Siria, è oggi meglio noto con il nome sedicente di Stato Islamico. Una scelta terminologica, questa, non casuale che denota una natura politica e giuridica transnazionale che richiamano direttamente il Califfato del profeta Maometto, istituito alla sua morte nel 632. L’IS nasce, come spinoff di al-Qaeda in Iraq (AQI), l’organizzazione fondata nel 2003 dal giordano Abu Musab al-Zarqawi, il quale aveva alle sue spalle un passato terroristico molto importante essendo stato attivo negli anni Ottanta e Novanta in Afghanistan, insieme ad Osama bin Laden, e tra Giordania e Iraq nelle file della Jamat al-Tawhid wa-l-Jihad, quest’ultimo primo embrione di AQI. Gli obiettivi del gruppo sono stati chiari fin da subito, quando l’organizzazione e il suo leader Abu Bakr al-Baghdadi hanno espresso un progetto politico-militare mirato alla creazione di un’entità statale che si estendesse dall’Iraq fino alle coste del Levante arabo al cui vertice si ergeva un Califfo, dominus dell’intera comunità islamica. Un percorso che ha trovato poi il suo coronamento nella proclamazione del Califfato da parte dello stesso al-Baghdadi a Mosul, il 29 giugno 2014.

L’indiscussa matrice terroristica del gruppo, tuttavia, non incide e non ha alcuna rilevanza giuridica sull’eventuale qualificazione dell’IS a rango di governo insurrezionale. Al fine di valutare se esso possa essere considerato tale e stabilire, quindi, il regime giuridico applicabile alla guerra civile in corso, l’unico criterio cui fare costante riferimento è il livello di effettività conseguito dal gruppo (ovvero la sua capacità di esercitare un controllo effettivo su una porzione rilevante di territorio). I fenomeni insurrezionali, infatti, nascono e rinvengono la loro disciplina in un epoca in cui il diritto internazionale risultava completamente improntato al principio di effettività: nella “comunità internazionale classica”, di cui gli insorti sono esempio paradigmatico, solo le situazioni fortemente incardinate nella realtà andavano ad assumere rilievo giuridico. Il grado di effettività conseguito dall’IS è dunque l’unico fattore da considerare, essendo gli atti terroristici da esso condotti giuridicamente irrilevanti al fine di qualificarlo o meno come governo insurrezionale. A tal riguardo, l’attuale controllo della città di Raqqa in Siria, nonché di importanti zone dell’Iraq Centro-Settentrionale (tra cui le fondamentali città di Tikrit, Falluja e Mosul), rappresenta un chiaro indice dell’effettività attualmente acquisita dall’IS che risulta, inoltre, fortemente organizzato e posto sotto un “comando responsabile”. Sono quindi evidentemente riscontrabili tutti i tratti tipici che permettono di considerarlo un governo insurrezionale, seppur con una non trascurabile peculiarità: si tratta di un fenomeno insurrezionale che nasce e si sviluppa all’interno di due entità statali, al contrario delle insurrezioni “tradizionali” che si originano all’interno di un solo Stato [2].

Regime giuridico applicabile alla guerra civile in corso – da quanto detto in merito allo status dell’IS derivano importanti risvolti attinenti al regime giuridico applicabile alla guerra civile in corso. L’alto livello di effettività conseguito dall’IS rende infatti applicabile il diritto internazionale umanitario e, in particolare, iI II Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 1949 (Protocollo sui Conflitti Armati non Internazionali del 1977). L’ambito di applicazione del documento esclude le ipotesi di tensione e di turbamento interno. In virtù dell’articolo 1, il Protocollo trova applicazione soltanto qualora la soglia del conflitto raggiunga un’intensità particolarmente elevata e tale conflitto possa perciò essere equiparato ad uno scontro tra due eserciti convenzionali. I gruppi ribelli, in lotta contro le forze militari del governo legittimo, devono essere posti sotto un comando organizzato, esercitare un controllo su una parte del territorio, essere in grado di condurre operazioni militari concertate e protratte nel tempo ed avere la capacità decisionale di applicare il II Protocollo. Le condizioni previste risultano chiaramente soddisfatte nel caso considerato.

La legittimità dell’intervento USA contro l’IS in Iraq – L’amministrazione statunitense ha condotto, a partire dall’8 agosto scorso, raid sul territorio iracheno diretti contro le forze IS e finalizzati a sostenere le operazioni delle forze di sicurezza irachene e curde, proteggere le infrastrutture ritenute strategiche, il personale americano e sostenere gli aiuti umanitari. Sono stati in seguito inviati 130 consiglieri militari con il compito di sovrintendere le operazioni di assistenza umanitaria e di aiutare i combattenti curdi (rimane, tuttavia, loro preclusa la possibilità di ricorrere alla forza armata). L’intervento statunitense in Iraq appare giuridicamente legittimo: seppur condotto al di fuori del sistema di sicurezza collettivo delle Nazioni Unite e in mancanza di un’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, è stato infatti attuato in seguito ad un’esplicita richiesta di cooperazione da parte dello Stato iracheno. Esso rientra, perciò, nell’ipotesi del “consenso” prevista e disciplinata dall’articolo 21 del Progetto di Articoli sulla Responsabilità dello Stato (2001), conformemente al quale il consenso validamente prestato da uno Stato alla commissione di un atto illecito da parte di un altro Stato esclude l’illiceità di tale atto, sempre che l’atto medesimo resti nei limiti del consenso. Si viene così a configurare una sostanziale possibilità di intervento in un altro Stato che perde il suo carattere d’illiceità in virtù del principio volenti non fit iniuriae e che deve comunque conformarsi ad alcune condizioni [3].

Dibattito sulla legittimità dell’intervento statunitense in Siria e posizione del CdS La legittimità dell’intervento statunitense in Siria sembra, al contrario, sollevare innumerevoli dubbi e perplessità. Il governo di Assad ha, infatti, rifiutato la collaborazione degli USA contro l’IS a meno che questa non sia concordata, di volta in volta, con il governo siriano stesso (proposta seccamente rifiutata dall’amministrazione statunitense). L’intervento si colloca quindi al di fuori della sopra indicata ipotesi di “consenso”, non essendo allo stesso tempo riconducibile nel quadro del sistema di sicurezza collettivo delle Nazioni Unite. Appare necessario, in tale ambito, porre in rilievo la Risoluzione 2170, approvata dal Consiglio di Sicurezza il 15 agosto 2014. Quest’ultimo ha innanzitutto qualificato il terrorismo, in tutte le sue forme e manifestazioni, come una delle più gravi minacce alla pace e alla sicurezza internazionale (par 1). Ha conseguentemente riaffermato la sua condanna all’IS, a Jabaht al-Nusra nonché a tutti gli organismi associati ad al-Qaeda per aver commesso atti di terrorismo e perpetrato gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario (par 3). È inoltre giunto a profilare la possibilità di considerare i ripetuti attacchi contro la popolazione civile condotti dall’IS quali “crimini contro l’umanità”. Il Consiglio, tuttavia, non ha rilasciato alcuna autorizzazione per un intervento militare, limitandosi ad imporre l’adozione di sanzioni individuali sulla base dell’art. 41, capitolo VII della Carta. È stata infatti elaborata una lista di individui affiliati all’IS da aggiungere al Comitato 1267 (Comitato delle sanzioni, istituito dalla risoluzione 1267/1999) [4] al fine di procedere al congelamento dei loro fondi. Il Consiglio di Sicurezza ha infine raccomandato agli Stati di impedire la fornitura e la vendita di armi o altro materiale bellico a coloro che risultano affiliati all’IS. La risoluzione, per quanto incisiva e significativa, non sembra così adombrare alcuna possibilità di ricorrere alla forza armata, il cui uso rimane perciò esterno al sistema di sicurezza collettivo e contrastante con l’art. 2.4 della Carta (divieto dell’uso e della minaccia della forza).

Responsabilità di proteggere? — Non può tuttavia ignorarsi l’acceso dibattito attinente alla possibilità di fare ricorso alla forza armata, pur in assenza di un’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, con il fine di salvaguardare e proteggere i diritti umani. Questi costituiscono un valore ormai fondamentale ed essenziale nella comunità internazionale che non può mai restare privo di tutela. Secondo parte della dottrina, si imporrebbe conseguentemente un’interpretazione nuova e più flessibile dell’art. 2.4 della Carta al fine di aprire la strada ad un “uso qualificato” della forza armata per reagire ad illeciti particolarmente gravi (quali le violazioni massicce e sistematiche dei diritti umani). Sebbene gli Stati abbiano conferito al Consiglio di Sicurezza la responsabilità principale nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale (art. 24), nel caso in cui quest’ultimo risulti bloccato è fisiologico che, in un sistema come quello internazionale, non dotato di altri meccanismi coercitivi istituzionalizzati, il “vuoto” così determinatosi finisca con l’essere colmato dagli Stati stessi. Il dibattito ha avuto origine e si è sviluppato con riferimento a gross violations perpetrate da Stati e non da attori non statali. Una sua estensione al caso di specie appare tuttavia più che legittima ove si consideri che l’importanza dei diritti umani prescinde ed esula dalle caratteristiche di colui che li viola (nell’ipotesi in questione, dunque, un attore non statale quale l’IS). Risulta necessario, a tal riguardo, richiamare la nozione di Responsabilità di Proteggere International Commission on Intervention and State Sovereignty,ICISS, 2001) [5] che delinea un nuovo concetto di sovranità: sovranità intesa non soltanto come diritto dello Stato di esercitare la propria giurisdizione sugli individui stanziati sul territorio ma anche e soprattutto come dovere dello Stato di assicurare loro adeguata ed efficace protezione. È ovvio, quindi, che se viene meno la responsabilità principale dello Stato interviene, a titolo suppletivo e complementare, la responsabilità della comunità internazionale. Nel caso in questione, l’Iraq non sembra più in grado di fronteggiare l’azione dell’IS e di offrire una tutela appropriata agli individui che si trovano sul suo territorio: sarebbe perciò legittimo un intervento di altri Stati in loro difesa. Pur volendo accogliere quanto previsto dal Rapporto del 2001 sulla Responsabilità di Proteggere e applicarlo al caso di specie, non può ignorarsi che, conformemente al Rapporto stesso, l’intervento armato dovrebbe rispettare alcuni principi precauzionali (giusto intento, ultima possibilità, ragionevoli prospettive, proporzionalità dei mezzi) ed essere, inoltre, riportato in ambito multilaterale. Nel caso di inazione del Consiglio di Sicurezza, il Rapporto propone infatti due soluzioni alternative: il ricorso all’Assemblea Generale attraverso una sessione speciale d’emergenza oppure l’azione di Organizzazioni regionali che sarebbero comunque soggette all’approvazione, anche successiva, del CdS (delega ex post). Ciò non è avvenuto nel caso dei raid statunitensi in Siria che restano quindi illegittimi e condotti in violazione del diritto internazionale.

Consiglio di Sicurezza, IS e Corte Penale Internazionale – Si sta attualmente considerando la possibilità che il Consiglio di Sicurezza adisca la Corte Penale Internazionale con riferimento ai crimini commessi dall’IS in Iraq e Siria (si tratterebbe, dato il paragrafo 3 della RIS 2170 sopra esaminata, di crimini contro l’umanità). Conformemente all’art. 12 del suo Statuto, la Corte Penale Internazionale può esercitare la sua giurisdizione qualora questa sia stata accettata dallo Stato sul cui territorio è stato commesso l’atto o l’omissione oppure dallo Stato di cui l’individuo accusato ha la cittadinanza (non possono perciò esservi ricompresi né l’Iraq né la Siria, non essendo quest’ultimi membri della Corte). La disposizione, tuttavia, si applica solo qualora sia uno Stato a segnalare al Procuratore una situazione in cui uno o più crimini appaiono essere stati commessi (art. 13, a) oppure qualora sia il Procuratore stesso ad aprire un’indagine (art. 13, c). Nel caso in cui la Corte venga attivata dal Consiglio di Sicurezza (art. 13, b), invece, la sua giurisdizione diviene potenzialmente universale ed esercitabile a prescindere dai criteri di collegamento sopra indicati. Alla luce di ciò, appare perciò chiara la possibilità per il Consiglio di Sicurezza di adire la Corte in riferimento ai crimini commessi dall’IS in territorio siriano ed iracheno, sebbene né la Siria né l’Iraq abbiano ratificato lo Statuto di Roma (non avendo perciò accettato la competenza della Corte).

In conclusione Risulta chiaro che non solo dal punto di vista politico ma anche da quello giuridico il caso dell’ISIS rappresenta una novità alquanto magmatica. I profili critici posti in rilievo condensano ambiti nuovi del Diritto Internazionale e spesso non sorretti da una prassi consistente che possa pacificare i dibattiti dottrinari (si pensi alla Responsabilità di Proteggere). Allo stesso tempo però la necessità di accountability che la nuova comunità internazionale richiede in maniera sempre più vocale per responsabilità dello stato ed individuali a seguito di gravi violazioni dei diritti umani hanno imposto una cornice d’ interpretazione degli eventi in corso in cui l’etica e l’alta politica si fondono nel diritto.

* Gianluigi Mastandrea Bonaviri è Dottore in Relazioni Internazionali (Università La Sapienza di Roma)

[1] Per una versione integrale si consulti: http://www.un.org/press/en/2014/sc11520.doc.htm; (ult. Vis. 3 Novembre, 2014).

[2] La dottrina è pacifica nel ritenere che i movimenti insurrezionali rappresentino un tentativo di frattura all’interno dello Stato che è libero di agire a sua difesa. Come noto, il diritto internazionale costruito da e per lo Stato, non manca di proteggerne la sua integrità e conservarne la continuità. La disciplina che governa la materia dei movimenti insurrezionali non manca di privilegiare una prospettiva centrica che si stempera soltanto nella materia dei diritti umani.  Le norme consuetudinarie applicabili agli insorti sono quantomeno scarse dal momento che presentano caratteristiche simili a quelle degli Stati, ma si presume abbiamo una natura transitoria e dunque una capacità internazionale limitata. Diverso è il fenomeno delle guerre di liberazione nazionale, caratteristiche del secondo dopoguerra, soprattutto nell’area africana. Rispetto ai movimenti insurrezionali, questi sono garantiti dal diritto internazionale poiché seguono il principio dell’autodeterminazione dei popoli che fa parte dello scarno ventaglio di norme che ad oggi hanno rango di jus cogens.

[3] Il consenso deve essere esplicito, validamente prestato (provenire cioè da un ente la cui espressione di volontà sia idonea ad impegnare lo Stato), valido (non affetto da vizi della volontà quali la coercizione) e deve infine essere precedente o quantomeno contemporaneo all’intervento. Nel caso in questione, tali condizioni risultano soddisfatte appieno ove si consideri che la richiesta di collaborazione è stata rilasciata precedentemente all’intervento USA e dallo stesso governo iracheno.

[4] http://en.wikipedia.org/wiki/United_Nations_Security_Council_Resolution_1267

[5] http://responsibilitytoprotect.org/ICISS%20Report.pdf. La teoria della responsabilità di proteggere, responsibility to protect ha ricevuto particolare attenzione specialmente dal 2005, l’anno del World Summit; per esaminarla bisogna però partire dal lavoro dell’ICISS, International Commission on Intervention and State Sovereignty. L’istituzione di questa Commissione è annunciata dal Canada all’Assemblea generale dell’Onu a settembre 2000. Il lavoro dell’ICISS termina con un rapporto finale presentato il 30 settembre 2011. Per ulteriori info si consulti: L. Biada, “La Responsabilità di Proteggere”  (Ult. Acc. 06/11/2014)

Photo credits: Amira Taylor/Press TV

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