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Islamofobia, virus mortale

Creato il 16 settembre 2013 da Istanbulavrupa

Istanbul - Pluralismo, tolleranza, rispetto. Giovedì 12 e venerdì 13 settembre si è tenuta a Tarabya, rilassante località sul Bosforo, una conferenza internazionale sull'islamofobia voluta dal governo turco e dall'Organizzazione per la conferenza islamica (Oic): definizioni, cause, soprattutto rimedi. I personaggi di spicco intervenuti: il vice premier Bülent Arınç, il segretario generale dell'OicEkmeleddin Ihsanoğlu, il professor John Esposito della Georgetown University (dove dirige il Center for Muslim-Christian Understanding), il consigliere del primo ministro Ibrahim Kalın; lo stesso Erdoğan, impegnato altrove, ha inviato un appassionato messaggio augurale: «l'islamofobia è una forma di razzismo e in quanto tale è un crimine contro l'umanità», il succo del testo.

La conferenza di Istanbul non è stata un evento episodico: ma un punto di passaggio – valutazioni e rilancio – su di un cammino già avviato. Dopo gli attentati alle Torri gemelle, quando nel mondo occidentale (un esempio su tutti, Oriana Fallaci) si è scatenata quella che Arınç nel corso della sessione di apertura ha definito “propaganda dell'odio, la Turchia – insieme alla Spagna di Zapatero – ha promosso come antidoto l'Alleanza delle civiltà: un progetto nato nel 2005 in seno all'Onu per contrastare le spinte più radicali attraverso il dialogo e la conoscenza reciproca, coinvolgendo soprattutto le giovani generazioni. John Esposito e Ibrahim Kalın hanno invece più recentemente curato un volume di case studies – Islamophobia. The Challenge of Pluralism in the 21st Century (Oxford University Press, 2011) – in cui vengono contestati «il modello di ordine culturale uni-polare ed eurocentrico», il secolarismo considerato «il solo potere emancipatore nel mondo moderno».

Nel suo discorso, il professor Ihsanoğlu ha invece ricordato tutte le iniziative che l'Oic ha messo in atto dal 2005, da quando ha assunto la carica di segretario generale: conferenze, seminari, iniziative legislative, una grande attenzione per il mondo della comunicazione; del resto, la due giorni di Tarabya – frutto diretto del lavoro del Dipartimento generale della stampa e dell'informazione del governo turco – è stata espressamente dedicata a due aspetti dell'islamofobia: i media e la legge. Ihsanoğlu, ricordando alcune manifestazioni eclatanti di odio e discriminazione nei confronti dei musulmani e dell'islam (le vignette anti-Maometto in Danimarca, le copie del Corano bruciate da un predicatore statunitense), ha individuato nel referendum svizzero per mettere fuori legge i minareti nel 2009 «l'esempio più visibile di xenofobia»: per mezzo del quale «l'islamofobia è stata istituzionalizzata in un paese occidentale e democratico». Rabbia e disgusto.

La risposta dell'organizzazione che raggruppa gli stati islamici è arrivata su tre piani: simposi di esperti, una strategia di contrasto mediatico per difendere l'islam e i suoi valori – con campagne di sensibilizzazione e la proposta di creare una fondazione per occuparsene a tempo pieno – avviata già nel 2006 con la creazione di un osservatorio, iniziative formali come la risoluzione non vincolante 16/18 del Consiglio per i diritti umani del 2011 che stabilisce cosa s'intende per “incitamento all'odio religioso” ed esplicita una serie di misure per punirlo (oltre ad altre indirette che puntano alla neutralizzazione degli stereotipi attraverso la formazione e il pluralismo). Il passaggio che il segretario generale dell'Oic ha riservato ai media è stato particolarmente duro: ne ha stigmatizzato l'attitudine spesso «semplicistica e riduttiva» che «rinforza gli stereotipi e dà l'impressione che l'intera comunità islamica sia predisposta alla violenza, mal disposta nei confronti delle donne, rigida e monolitica».

Anche Bülent Arınç ha sottolineato il ruolo potenzialmente positivo ma nei fatti negativo dei media, che dovrebbero «informare in modo oggettivo e affidabile»: ma che invece “generano paure” e innescano il “virus mortale” dell'islamofobia. Ha poi proposto la storia del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp), al potere in Turchia dal 2002, come esempio della compatibilità tra islam e democrazia: un partito “democratico e conservatore” che sta dando al paese – attraverso iniziative coraggiose – un sistema plurale e multi-culturale in cui «tutti i gruppi etnici e le fedi sono non ospiti ma elementi costitutivi». Ha ribadito l'impegno turco nella lotta contro le discriminazioni, internazionale e interno: l'Alleanza delle civiltà, esempio di come le religioni possono dialogare e giungere a punti d'incontro senza necessariamente scontrarsi; il nuovo “pacchetto democratico” che verrà presentato a giorni, che introduce gli “hate crimes” – crimini commessi in nome dell'odio razziale – nel codice penale, con punizioni severe.

John Esposito, da analista senza responsabilità di governo, ha individuato nel sistema mediatico – tradizionale e soprattutto online – la causa primaria dell'islamofobia, che negli Usa - in virtù di un network diffuso e ben finanziato - ha preso le mosse già negli anni '90: «dopo l'11 settembre [2001] abbiamo avuto l'esplosione di una realtà che già esisteva». Internet, Facebook, Twitter oggi aiutano a veicolare il messaggio in modo capillare, colpendo le nuove generazioni che – in assenza di contenuti solidi, di una formazione specifica sull'islam – sono facilmente influenzabili; il professore di Georgetown ha spiegato come «non è illogico temere gli estremisti che compiono atti di violenza», il fenomeno è reale: l'islamofobia è invece “la percezione dell'islam come un problema, perché incompatibile con la democrazia e la modernità”. E' necessario delegittimarla: per farlo però «non basta parlare, serve agire»; e per poter agire, oltre a progetti ben congegnati e dilatati nel tempo, servono anche fondi.All'Indro ha anticipato gli elementi di un grande progetto pluriennale per contrastare l'islamofobia, che parte da un'analisi accademica dei contenuti in rete e si propone di contrastarla – sempre online – attraverso contenuti di alto profilo: cerca partner stranieri, spera che anche in Italia enti privati o università possano farsi avanti.

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