Con la sua riconferma alle urne elettorali di Israele di martedì 17 Marzo, Benjamin Netanyhau è l’uomo politico del mese di Marzo.
Vittorioso con la rimonta finale sul rivale Isaac Herzog e il ribaltamento degli exit poll della vigilia, il Likud di Netanyhau ha mantenuto la leadership parlamentare conquistando 30 seggi su 120 alla Knesset (Parlamento israeliano). La vittoria ha di fatto affossato quanto auspicato dalla Casa Bianca, ovvero la speranza di un successo meno netto che potesse evitare un governo guidato solamente dalla destra del paese e coinvolgere anche altre forze politiche, principalmente di centro, attraverso un governo di coalizione. Ora, Netanhyau può vantare al Parlamento 67 dei 120 seggi a disposizione: la maggioranza assoluta. Resta dunque da chiedersi adesso, oltre alla questione Iran-nucleare (per la quale le divergenze Israele-Usa sono note) e sulla quale Israele già ipotizza un pericolo grave per la sicurezza dell’umanità a causa di un possibile asse Iran-Yemen, cosa succederà con la questione palestinese, strumentalizzata da “Bibi” in una campagna elettorale nella quale è stata promessa per la sicurezza di Israele la non costituzione di uno Stato Palestinese e la costruzione di nuovi insediamenti a Gerusalemme Est.Il rischio concreto è che, con la riconferma della destra al potere, possa profilarsi un nuovo scontro con Hamas, così come accaduto negli ultimi tre anni. Ciò che fa discutere non è tanto la riconferma del primo ministro, quanto la strumentalizzazione di una questione interminabile, che muove le sue coordinate storiche a partire addirittura dal primo conflitto mondiale. Questione che peraltro, non può più attendere l’immobilismo politico della comunità europea ed internazionale né l’ingiustificato attendismo di Netanyahu, il quale si protrae dal 2009 e muove in senso contrario alla soluzione dei due stati prospettata nella conferenza di Annapolis del 2007. Nel 2009, invece, le intimazioni di Usa e Ue alla risoluzione della questione attraverso la formazione dei due stati e il riconoscimento di uno Stato autonomo per la Palestina. Approvazione sostenuta solo apparentemente, mascherata da un protagonismo politico finalizzato alla cultura della ricerca del nemico, in nome della sicurezza di Israele. Tutto questo rischia di aggravare un processo di pace già troppo fragile e che ha visto il dissolversi nel tempo di accordi come quello di Oslo 1993 (Rabin-Arafat).
Una questione secolare: Dal Mandato Britannico all’avvento dell’Onu.
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Dal Mandato Britannico del 1916, che portò la Gran Bretagna al controllo della Palestina tra il 1920 e il 1948, la questione relativa al fenomeno della numerosissima espansione dell’immigrazione ebraica pose nuove possibili prospettive circa il futuro del territorio, a partire dal primo Libro Bianco di Churcill (1922) sino al terzo del 1939. Dal punto di vista storico quest’ultimo è sicuramente il più importante, frutto soprattutto della precedente Grande Rivolta Araba in Palestina. L’immigrazione ebraica venne limitata alle 75.000 persone per una durata di cinque anni; alla Palestina veniva promesso, nel giro di 10 anni, la costituzione di uno Stato Palestinese unitario a maggioranza araba. La seconda guerra mondiale e la persecuzione razziale della Germania nazista aggravò la problematica, che finirà nelle mani dell’Onu nel 1947, con la formazione di un Comitato speciale per la Palestina (UNSCOP). Vennero presentate due proposte, una maggioritaria, favorevole ad una soluzione a due stati con Gerusalemme sotto il controllo internazionale e l’altra fondata sulla soluzione di un unico Stato. Alcuni gruppi estremisti di Israele, si mostrarono contrari al riconoscimento della Palestina. Tra questi Menachen Begin (comandante Irgun, tra i maggiori gruppi estremisti) e che fu poi Primo Ministro e futuro fondatore del Likud: si, lo stesso Likud che avrà l’incarico di formare un nuovo governo e di rispettare il riconoscimento palestinese offrendo una soluzione pacifica e diplomatica in Medio Oriente. Nel 1948 lo Stato di Israele è costituito, mentre le nazioni arabe faranno ricorso, poi respinto, alla Corte Internazionale di Giustizia. Cominciò definitivamente il conflitto tra Israele e la popolazione araba.
I conflitti del 1948, La guerra del ’67 con l’occupazione israeliana e gli accordi di Camp David
Il conflitto tra la componente ebraica e quella araba della Palestina si protrasse all’indomani della risoluzione Onu e andò avanti fino al 1949. La Gran Bretagna aveva dunque fallito, colpevole di promesse sterili e mai mantenute, e condizionata dal delicatissimo scenario mondiale di quel tempo. A sostenere le rivendicazioni arabe e l’ingresso delle nazioni in Palestina vi fu la Cina, mentre la comunità internazionale ne condannò l’azione. Al termine del conflitto, Israele (uscito vittorioso) firmò armistizi separati nel 1949, con Egitto, Libano, Transgiordania e Siria. Il leggero clima di distensione(più che altro apparente) dopo quei due orribili anni pose una problematica di entità non indifferente: la questione dei rifugiati palestinesi. Metà della popolazione araba della Palestina, secondo le Nazioni Unite, fu costretta ad un esodo di massa, non solo per scelta personale ma per le espulsioni ordinate da Israele. Se non erano espulsioni, l’obiettivo era comunque legato all’annientamento dei villaggi. Gran parte della popolazione emigrò proprio in Israele (oltre che in Francia)e non ebbe la possibilità di tornare nella terra d’origine nemmeno dopo la fine del conflitto. Tale estromissione passò alla storia con il termine di Nakba ed è considerato dalla nuova storiografia israeliana come atto di pulizia etnica. La ricorrenza corre in data 15 maggio ma nel 2010, la Knesset, ha varato una legge che vieta manifestazioni pubbliche in Israele sull’accaduto. Israele “pulirà” le sue frontiere nei successivi anni a venire, sino al 1950. Il secondo conflitto tra le compagini, con la componente araba ormai ridotta a minoranza, è datato 1956 e venne interrotto da Usa e Urss. Ma la data più calda dal punto di vista storico può essere considerata quella del 1967. Il terzo conflitto arabo israeliano, a tre anni dalla nascita dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), la quale riunì i maggiori gruppi nazionalisti palestinesi, vide la sottrazione da parte di Israele di territori quali Gerusalemme Est, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Una sanguinosissima guerra che portò alla creazione della questione di quelli che oggi sono definiti Territori Occupati. Gli arabi avranno nuovamente la peggio nella Guerra del Kippur del 1973 mentre alcune situazioni interne si aggravarono pesantemente; emblematica è la Guerra civile in Libano del ’75. Gli anni ’90 vedranno invece i primi tentativi di una risoluzione pacifica del conflitto dopo gli accordi di Camp David del 1978 firmati dal presidente egiziano al-Sadat e dal primo ministro israeliano Menachen Begin. Tali accordi portarono al Trattato di Pace israelo-egiziano del 1979, a Washington e videro il riconoscimento di Israele da parte dell’Egitto: fu il primo paese arabo a farlo.
Dagli anni ’90 ad oggi: Guerre di Intifada, Oslo e Striscia di Gaza
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Gli anni ’90 portarono con sé il peso di un nuovo conflitto e di quella che venne definita Guerra dell’intifada. Si trattò della storica protesta palestinese contro il dominio israeliano nelle delicatissime zone che interessarono il conflitto del 1967: Gaza, Gerusalemme Est e la Cisgiordania. Vessazioni continue tra cui esecuzioni, demolizioni e deportazioni. Questo è quanto sostenuto dai Palestinesi, delusi e frustrati per la mancata concretizzazione di una soluzione a vent’anni di distanza dalla Guerra dei sei giorni. Critiche furono rivolte nei confronti dell’Olp e del suo leader storico, Yasser Arafat. La stessa Olp affermò poi di avere organizzato l’intifada. Il 1993 sarà la data storica che porterà alla fine della rivolta e agli accordi di Oslo, con il riconoscimento reciproco dei due stati. Dopo una serie di negoziati e incontri riservati, che mossero dalla Conferenza di Madrid del 1991, lo Stato di Israele e l’Olp siglarono una serie di accordi a carattere pacifico. Gli accordi furono visti di buon occhio solo dalla sinistra israeliana, che li appoggiò mentre la destra continuò ad osteggiarli. Sul fronte Palestina il sostegno ad Olp non venne fornito da Hamas, mentre Al-Fath accettò gli accordi. Tuttavia, la diffidenza reciproca, dovuta soprattutto ai dubbi di Israele sulle intenzioni dell’Olp e all’accrescimento di insediamenti in zone che riguardavano, e dunque indebolirono gli accordi, portarono ad una rottura insanabile. Israele continuava a costruire accrescendo la povertà del popolo palestinese. Nel 1995, peraltro, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, dopo essere stato insignito del Premio Nobel per la pace l’anno precedente, a seguito della stipulazione degli accordi norvegesi, venne assassinato da un estremista ebreo contrario all’esistenza di una Palestina libera. Il processo di pace era fallito e gli estremismi cominciarono a dilagare: venne meno l’ambizioso progetto di autogoverno attraverso un’autorità palestinese. Gli anni 2000 subirono inevitabilmente una nuova intifada, storicamente collocata sino al 2005 e che vide la forte espansione dell’organizzazione terroristica di Hamas sino alla vittoria parlamentare del 2006, la quale raccolse un elevato numero di consensi dalla Striscia di Gaza. L’obiettivo di Hamas, tuttavia, divergerebbe dalla soluzione a due stati in quanto mira alla creazione di uno stato islamico palestinese. A seguito della battaglia di Gaza del Giugno 2007, Hamas detiene l’intera zona ed è stata accusata di violazione della legge umanitaria internazionale così come del resto l’altra fazione del conflitto di al-Fath. Il presidente Olp, Abu Mazen, decise di dissociarsi dal governo unitario decretando la presenza di due governi: Hamas a Gaza e l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) in Cisgiordania. Solo così Israele, Usa e Ue hanno così deciso di riconoscere l’amministrazione palestinese senza la presenza di Hamas e di ripristinare gli aiuti alla Palestina. La situazione attuale, nonostante lo storico recente accordo congiunto tra Hamas e al-Fatah per un governo di unità nazionale affidato ad Abbas (settembre 2014, patto che ha fatto infuriare Israele), non fa altro che acuire le difficoltà di uno Stato, proclamato nel 1988 ed ormai riconosciuto da oltre 130 stati nazionali che non può più aspettare, come peraltro non può continuare ad essere violato un principio cardine del diritto internazionale: il diritto all’autodeterminazione. La sovranità sul proprio territorio nazionale ha le proprie basi anche nel riconoscimento dello Stato da parte dell’Onu (come osservatore non membro) e dalla risoluzione Ue del dicembre 2014 e che dunque ne forniscono una fondamentale ed ulteriore legittimazione. Perché difficilmente può ipotizzarsi una pace senza l’autonomia della Palestina. La stessa Ue, appunto, ha ribadito la necessità di una soluzione a due stati con Gerusalemme capitale. Molto meno, purtroppo, ha fatto il nostro Parlamento italiano, incapace di indirizzare il Governo verso una reale presa di posizione, e colpevole di una incoerente approvazione di due mozioni contrastanti. Il problema dei rifugiati, la questione degli insediamenti, lo status di Gerusalemme e il riconoscimento della Palestina: questo dovrebbe essere presente in agenda. D’altronde, la caduta del precedente governo e lo scioglimento del parlamento muove dal disagio di alcuni dei suoi ministri, che addebitano a Netanyhau la responsabilità politica di indebolire la posizione internazionale di Israele e di continuare a costruire insediamenti a Gerusalemme nonostante riconoscimenti nazionali ed internazionali, seppur non vincolanti giuridicamente. Ma l’indicazione è chiara: un movimento di liberazione nazionale ha pieno diritto di autodeterminarsi dal punto di vista governativo. Ecco perché non si può più strumentalizzare, temporeggiare, analizzare, accrescere macchine del fango e alimentare violenza. E’ necessario che le istituzioni, a cominciare soprattutto da Israele agiscano in maniera coerente e non più ambigua, diplomaticamente e pacificamente. Ora e subito, perchè la Palestina non potrà continuare ad osservare a lungo un simile immobilismo. Il tutto nell’attesa di comprendere la portata delle dichiarazioni post elettorali di Netanyahu, su una apertura a due stati, qualora le circostanze dovessero cambiare. Due restano i principali nodi: l’accusa ad Abbas di non voler riconoscere lo stato ebraico e la diffidenza da Hamas. Il rischio è che possa ancora trattarsi di classiche dichiarazioni di circostanza, legate ad un cambio di rotta fondato sulla ricerca di una distensione del rapporto con gli Usa e il Presidente Barack Obama.
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