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Italia: sopravviverà il sistema politico?

Creato il 20 novembre 2012 da Tabulerase

Italia: sopravviverà il sistema politico?È davvero indecente lo spettacolo che la classe politica italiana sta mostrando dinanzi ad una recessione globale dagli scenari cupi e inquietanti, che rischia di configurarsi come la tempesta perfetta dell’economia.

 Così mentre il nostro Paese sperimenta drammaticamente le conseguenze di una decrescita che, secondo i dati Istat, è pari a -2,4% su base annua, con un debito equivalente al 126,4% del PIL (quantificato dalla Banca d’Italia in 2.000 miliardi di euro) e valori di disoccupazione giovanile prossimi al 40%, con previsioni drammatiche per il 2013 (3 milioni di disoccupati), la classe politica italiana conferma tutta la propria inadeguatezza a gestire le sorti dell’Italia. Una classe politica incolta, disonesta, avvitata su se stessa e preoccupata soltanto di votare una legge elettorale capace di compensare alle prossime elezioni politiche gli effetti del crescente sentimento di indignazione collettiva. La recente dichiarazione di Pierferdinando Casini sul tema della riforma della legge elettorale, a margine del Financial Times Italy Summit tenutosi a Milano il 12 novembre scorso, ne è la testimonianza più tragica e disarmante: “… se non ci mettiamo d’accordo sulla nuova legge elettorale saremo spazzati via …”, rivelando che le sue preoccupazioni sono esclusivamente legate alla sopravvivenza di un sistema politico ormai privo di credibilità e – quello che è più grave – tutto il suo disinteresse per il Paese ed il suo futuro.

 Recessione, deficit di rappresentanza politica e crisi di legittimazione hanno contribuito alla frantumazione progressiva di quel modello di crescita emerso durante la ricostruzione post-bellica che ha contemperato le esigenze del capitalismo economico con la garanzia del lavoro e i diritti di cittadinanza ricomprendendoli in una visione d’insieme rappresentata dal Welfare. Quel modello di Stato sociale che ha garantito la piena affermazione dei diritti sociali, civili e politici in Europa e in Italia, dal ‘46 ad oggi. Si pensi a Paesi come la Germania, l’Austria, l’Olanda, la Svizzera, la Svezia, la Norvegia, la Finlandia e la Danimarca che rappresentano veri e propri modelli virtuosi di comunità su cui domina il principio indiscutibile dell’intervento statale e che sono fondati sui criteri imprescindibili della giustizia sociale e della qualità della scuola pubblica, della protezione del lavoro e della tutela dell’ambiente.

Al di là dell’Atlantico da anni il dibattito sul fiscal cliff, e sui nuovi modelli di crescita si caratterizza per una grande ricchezza di posizioni e opinioni progressiste che propongono un nuovo New Deal orientato verso un modello di “governo di responsabilità sociale”. Nello specifico, si tratta di un modello di crescita, di verso opposto all’attuale capitalismo fiscale, che attraverso l’intervento dello Stato libera risorse, promuove energie e crea nuove linee di sviluppo, sostenuto dai premi Nobel per l’economia Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Michael Spence o Paul Samuelson, da economisti come Jeffrey Sachs e Nouriel Roubini, sociologi come Martha Nussbaum.

 In Europa e segnatamente in Italia (a parte rare eccezioni come quella degli economisti Tito Boeri e Paul Fitoussi, di sociologi come Ulrich Beck, Anthony Giddens e Chiara Saraceno o storici come Eric J. Hobsbawm) il dibattito si è incancrenito sulla filosofia dell’austerity. Proprio quella filosofia liberista teorizzata da Friedrich Hayek e Milton Friedman e pienamente attuata da Ronald Reagan e Margaret Thatcher negli anni ’80 che – ampliando progressivamente gli ambiti di influenza delle grandi società e delle banche nelle decisioni pubbliche – ha creato le condizioni dell’attuale crisi globale, dominata dall’estremismo libertarian (primato indiscutibile del mercato e great deregulation e restrizione della sfera di intervento dello Stato al solo mantenimento dell’ordine e della giustizia) spostando il luogo delle decisioni pubbliche dalle assemblee parlamentari ai consigli d’amministrazione delle grandi società finanziarie e delle banche mondiali che da qualche anno ormai, dopo essersi rese responsabili del default mondiale, dettano l’agenda ai governi.

 Come racconta Federico Rampini in Non ci possiamo più permettere uno stato sociale. Falso! (2012), il New York Times già nel 2010 con un’ampia inchiesta aveva svelato che “… gli stessi metodi utilizzati da Wall Street per creare la bolla speculativa dei mutui subprime sono stati replicati con le finanze pubbliche della Grecia e di altri Paesi europei, compresa l’Italia … Grecia e Italia sono tra quei governi che hanno fatto ricorso alla consulenza delle grandi banche americane (Goldman Sachs e JP Morgan Chase) per effettuare operazioni di “chirurgia estetica” che hanno dissimulato la vera entità dei deficit pubblici … gli strumenti finanziari elaborati da Goldman Sachs, JP Morgan Chase ed altre banche, hanno consentito ai leader politici di mascherare l’indebitamento aggiuntivo in Grecia e in Italia dal 1996”. Proprio la Grecia e l’Italia che “… entrarono nell’Unione monetaria con un deficit superiore ai livelli consentiti dal Trattato di Maastricht. Anziché ridurre la spesa, però, i governi tagliarono artificialmente i deficit con l’uso di derivati. E i derivati che non appaiono ufficialmente nei bilanci creano un’ulteriore incertezza”.

 La collusione tra i governi e le banche ha raggiunto, dunque, dimensioni e caratteristiche che restituiscono la desolante sensazione dell’impotenza dei cittadini illusoriamente convinti per anni che qualcuno stesse governando per tutelare e promuovere interessi e benessere collettivo. Invece, quell’élite che rappresenta l’1% della popolazione e che detiene il 60% della ricchezza complessiva, e che controlla consorterie politiche, governa di fatto attraverso politiche fiscali e di spesa pubblica ingannevoli e criminali, producendo nuove disuguaglianze e acuendo le preesistenti, cancellando la middle class e creando nuovi poveri.

 Come afferma Richard Sennet in Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione (2012), quell’élite vive “… in un empireo globale, svincolata dalle responsabilità nei confronti dei comuni mortali …”, ma definendo le coordinate del capitalismo finanziario e le politiche di governo, così come confermato anche da Gary Gensler, il quale, messo a capo della Commodity Futures Trading Commission da Barack Obama per rimettere ordine in un mercato fortemente speculativo, ha raccontato di una vera e propria cupola, un potente comitato d’affari (i cosiddetti “Padroni dell’Universo”) che “… protegge gli interessi delle grandi banche che ne fanno parte, perpetua il loro dominio, contrasta ogni forzo per rendere trasparenti prezzi e commissioni”.

 La stessa Letter by 15 financial CEOs del 18 ottobre 2012 al Presidente americano e al Congresso, acuisce ulteriormente quella sensazione desolante di impotenza. La missiva che i CEO facenti parte tutti del Financial Service Forum hanno inviato ai decisori pubblici per esortarli ad un accordo bipartisan per recuperare le sorti degli USA, appare quantomeno ambigua, non fosse altro che per il tentativo di celare dietro un buonismo umanitario l’intenzione più autentica, ossia la pretesa di  dettare l’agenda di politica economica per il breve-medio periodo.

 Ecco perché il movimentismo di protesta che sta attraversando l’intero pianeta non può e non deve essere sottovalutato, perché rivendica istanze di equità e giustizia sociale fino ad oggi mortificate da politiche miopi e scellerate ispirate solo dagli interessi del mercato. Una vera e propria filosofia libertaria, crudele e selvaggia, rispetto alla quale – come sostengono Eric J. Hobsbawm in Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo (2011) e Reinhard Marx, vescovo di Monaco e Freising, in Das Kapital. Eine sozialethische Streitschrift (2009) – il contributo di Karl Marx ad un’idea di società più equa e giusta merita una attenta rilettura senza pregiudizi e svincolandolo dalla declinazione tragica dei regimi comunisti.

 Così come il contributo di blog come Project syndicate, New deal 2.0, The daily beast, o il blog dello stesso Paul Krugman meritano grande attenzione perché rappresentano il grande incubatore di quel dibattito entro cui abbiamo la responsabilità di stare, per tentare di incanalare l’indignazione generale entro forme accettabili e civili di manifestazione politica, per fare scelte sostenibili e consapevoli, per affermare l’autonomia della coscienza e il primato della conoscenza, per esercitare la libertà del pensiero.

 È il caso di ricordare che lo scorso anno il movimento Zeitgeist ha diffuso tramite il proprio sito un film reality, di stile pop-new age, dal titolo Zeitgeist moving forward che definisce il frame entro cui si è consumata la crisi contemporanea ad opera delle grandi lobbies economico-finanziarie. Ma il messaggio più significativo resta quello di Charles Ferguson che nel 2011 ha vinto l’Oscar per il suo docu-film sulle cause della recessione globale dal titolo Inside job, in cui agli scenari devastanti che si prospettano alla comunità globale fa seguire un’esortazione semplice e romantica, ma di grande valore civile e sociale: “… ci sono battaglie per le quali vale la pena di combattere”.


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