Anna Lombroso per il Simplicissimus
Ve lo ricordate il premier con che aria di sfida decretò la fine del silenzio e il trionfo della verità, grazie alla desecretazione degli atti relativi alle stragi per trasferirli all’Archivio di Stato, in modo da rendere accessibili annotazioni, verbali, informazioni, veline, quelli di fonte militare e dei servizi, da Piazza Fontana a Piazza della Loggia, dalla Stazione di Bologna alle bome di mafia?
Niente paura, chi preferisce le tenebre della rimozione, il silenzio dell’oblio può stare tranquillo: con il taglio dei finanziamenti entro l’anno potrebbe chiudere l’Archivio Centrale dello Stato, l’organismo che conserva la storia del Paese attraverso milioni di documenti. “Finora”, ha dichiarato a Repubblica il sovrintendente Attanasio, “siamo sopravvissuti a questi tagli perché siamo stati pessimisti verso il futuro: abbiamo gestito all’insegna del risparmio, lasciando dei fondi a disposizione perché temevamo di andare incontro a periodi poco felici. Ma a partire dal prossimo anno, se la situazione non cambierà in modo radicale, l’Archivio Centrale dello Stato chiuderà”. Nel migliore dei casi la sede potrebbe essere trasferita a Pomezia, 30 chilometri da Roma, ma a quel punto consultare le carte diventerebbe un’impresa.
L’Archivio Centrale dello Stato, organo dotato di autonomia speciale del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (Direzione Generale per gli Archivi), è l’Istituto depositario della memoria documentale dello Stato unitario, con compiti di conservazione di consultazione e di didattica. Il 25 luglio di quest’anno ha accolto i Quaderni dal carcere di Gramsci e a ottobre dovrebbero arrivare gli atti relativi alle stragi, che possono riguardare corpi separati e che, se resi pubblici, possono contribuire a fare luce sui fatti. E proprio all’indomani del 25 luglio del ’43 si cominciò a sentire l’esigenza di assicurare la conservazione degli archivi fascisti. Ci vollero dieci anni per realizzarlo ed aprirlo agli storici e ai cittadini, con i suoi 120 chilometri di scaffali nei quali è raccolta l’autobiografia della nazione da Crispi a oggi.
Non stupisce che trascuratezza e indifferenza circondino questo luogo della memoria. Viviamo in società che si dedicano ossessivamente al ricordo, ma a quello di sé, del loro presente, impiegando gran parte del loro narcisistico impegno a fissare la loro immagine mentre sono ancora viventi. Mentre il passato anziché oggetto della storia, è diventato occasione di commemorazione, di celebrazione, per festeggiarlo, in modo che l’esecrazione di delitti, crimini, errori resti ai gufi, ai disfattisti a chi vuole alimentare irresponsabile conflitto, invece di nutrire benevola e appagante pacificazione. Che poi anche la storia, come tutto il patrimonio artistico e culturale, non produce quattrini a meno di venderla, a giornalisti in vena di scoop postumi, a divulgatori a dispense. E presto potremo assistere a una sua profittevole cancellazione dai programmi scolastici, sull’esempio degli Stati Uniti e delle loro scuole dove il suo insegnamento è marginale e dove genitori nostrani che hanno subito la fascinazione del pensiero neoliberista, mandano i loro figli per sviluppare competitività, ambizione e gioiosa superficialità.
E siccome l’America ci ha colonizzato anche l’immaginario, al tempo stesso la memoria diventa oggetto di esposizioni occasionali e effimere, di musei “dedicati” che celebrano brandelli di società, dagli spaghetti al vino, mentre un repertorio di valori e di significati che erano stati largamente condivisi attraverso i secoli è diventato, in parte, arcaico, inutile, morto.
In attesa che si faccia avanti qualche discutibile collezionista e bibliofilo privato, qualche dell’Utri appassionato dei diari del Duce, per accaparrarselo l’Archivio, come è già stato fatto con il patrimonio librario della Biblioteca dei Girolamini, questo ceto politico futurista probabilmente si chiederà se è redditizio insegnare la storia a coloro che non l’hanno chiesto e ai quali obsolete tradizioni educative richiedono che si insegni. Mentre è talmente più moderno e proficuo puntare sul presente, esaltarlo, testimoniarne tramite tweet, mentre il futuro, riservato a categorie privilegiate, è oggetto di annunci distratti e subito smentiti, di misure emergenziali che ne limitano i confini e dilatano i tempi, in modo che il domani rientri nella categoria dell’utopia criticabile in quanto poco realistica, poco pragmatica, poco moderna.
Ormai solo Google è depositario di memoria quasi indelebile e le gesta dei potenti lasciano come impronta mausolei della corruzione, piramidi dell’inutilità, tunnel in fondo ai quali è sceso il buio sulla ragione e sulla civiltà.