Altre parti del trattato sono dure, ma sensate, per esempio l’obbligo al pareggio di bilancio con legge di forza costituzionale. La dottrina economica sconsiglia vincoli assoluti al bilancio pubblico, perché tolgono a
uno Stato strumenti per interventi d’emergenza. Ma bisogna considerare che una nazione con debito al 120% del Pil deve riuscire a comunicare al mercato in modo credibile che lo ripagherà, ottenendo che il mercato stesso continui a comprare i titoli, a costi sostenibili, nelle aste di rifinanziamento. E il modo migliore per comunicarlo è rendere certo che il debito non aumenterà più nel futuro impedendo il deficit annuo nel bilancio.
Ma proprio per questo motivo non ha senso rendere rigido e depressivo il calendario di riduzione del debito. Un debito “inscatolato” si riduce ogni anno del 2-3% per effetto dell’inflazione. Il fatto di non farne più, se combinato con una riforma di efficienza economica che aumenta il potenziale di crescita, aumenta la credibilità sul fatto che lo ripagheremo, rendendo così sostenibile il rifinanziamento delle obbligazioni residue.
L’Italia ha interesse a ridurre il debito per riportare il costo degli interessi - dai 70 ai 90 miliardi annui, ora, per l’Italia - al servizio di politiche stimolative, o investimenti pubblici oppure, meglio, detassazione, ma deve trovare tempi e modi, cioè consenso, per poterlo fare. In particolare, se la riduzione del debito deve essere attuata attraverso finanziarizzazione e vendita del patrimonio, soluzione che nel caso italiano è possibile per ben 800 miliardi, ci deve essere la possibilità di scegliere il momento giusto di mercato per le operazioni.
In sintesi, la riduzione del debito richiede flessibilità. Ma, il punto, è che la Germania non vuole darla all’Italia perché non crede che i nostri governi saranno capaci di fare né le riforme di crescita, né operazioni patrimonio contro debito. Ha qualche ragione, in base ai fatti: la casta non molla il bottino del patrimonio, la politica di efficienza è bloccata da veti corporativi e da poteri oligarchici oscuri e sindacati cavernicoli.
Ma pur avendo qualche ragione, la soluzione non è quella di costringere l’Italia a trovare ogni anno 40-45 miliardi per abbattere debito in modi forzati. Perché la reazione sarà o un movimento populista che chiederà l’uscita dall’euro per evitare l’impoverimento o la depressione irreversibile della nazione, per esempio a causa di strette fiscali continue per rispettare il trattato in un contesto dove la politica mantiene il modello statalista e non vuole mollare il patrimonio.
di Carlo Pelanda..(professore di Politica ed Economia internazionale nell'Università della Georgia, Athens, Usa)