Il colonialismo degli italiani brava gente
«La storia» scriveva Marc Bloch «nasce dalle domande che il presente rivolge al passato». L’Italia repubblicana ha lungamente interrogato il 1943-45, ha prodotto decine di migliaia di titoli sulla Resistenza partigiana (volumi, saggi, articoli, ricerche locali, memorie individuali), ha commemorato i partigiani caduti con monumenti diffusi in gran parte delle città italiane; ma ha fatto di tutto per dimenticare l’Italia “imperiale”, quella che ha deportato circa 100 mila senussi della Cirenaica in campi di concentramento[1], che ha commesso crimini atroci in Etiopia, che all’ombra del Reich ha attaccato la Francia, trasformato la Slovenia in provincia e la Dalmazia in governatorato, occupato il Montenegro, la Grecia, le Isole ionie ed egee; della campagna di Russia è stata ampiamente “interrogata” l’odissea dell’ARMIR in rotta, dimenticando che la ritirata da un paese nemico presuppone una precedente avanzata e quindi un’occupazione.
A rimuovere le colpe è intervenuto il meccanismo rassicurante e autoassolutorio degli “italiani brava gente”, un’auto-rappresentazione collettiva già sedimentata da molto tempo nella coscienza nazionale e che il fascismo considerava segno di fiacchezza di spirito, da sostituire con il culto della romanità e della guerra, ma che esso stesso aveva in parte alimentato con l’immagine del colonialismo in Africa, presentato come una opera laboriosa e pacifica di civilizzazione. Ancora oggi è diffusissima tra gli italiani la convinzione di aver fatto un colonialismo “buono”, di essere andati in Africa per costruire strade e ospedali, in contrapposizione al colonialismo degli altri paesi, in particolare inglese, fatto solo di furbo e calcolato sfruttamento[2]. Secondo questo modello il soldato italiano è fondamentalmente buono, ancorato ai valori della propria terra e della propria famiglia, incapace di violenza contro gli inermi, spara e uccide solo perché obbedisce agli ordini dei superiori: incapace di odio, egli non è a sua volta odiato e per questo fraternizza con le popolazioni civili, siano quelle della steppa russa o quelle dei Balcani o della Grecia.
Questo stereotipo si è anche alimentato nel confronto con la violenza germanica. Le stragi compiute dal nazismo hanno permesso infatti di relativizzare le nostre colpe: di fronte ad Auschwitz scompaiono le colpe dei campi di concentramento italiani in Libia, così come di fronte alle Fosse Ardeatine scompaiono i villaggi di Vrebac, di Mikignar, di Podgreben, di Benkovac, di Kastoria, di Trikaba, messi a ferro e fuoco dalle nostre truppe[3].
Sul piano militare, ad onor del vero, bisogna riconoscere una sostanziale differenza fra la Wehrmacht e il Regio Esercito. Per gli occupanti tedeschi il terrore sistematico era strumento centrale della politica di occupazione: l’efferatezza della repressione, la spettacolarizzazione delle esecuzioni, le devastazioni su vasta scala erano viste come strumento essenziale per indebolire la popolazione e spezzarne così i legami con la resistenza armata; è questo il modello che vediamo attuato nei Balcani, in Polonia, in Russia e, con alcune differenze [4], in Francia e In Italia dopo l’8 settembre. La violenza dell’esercito italiano, all’opposto e almeno nei Balcani, appare generalmente come una reazione difensiva di fronte agli attacchi delle formazioni partigiane e all’ostilità dei civili: non tanto una manifestazione di autorità e potere, quanto una reazione, spesso scomposta, sintomo di debolezza. L’equiparazione con la brutalità tedesca è dunque improponibile, sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo [5]: questo però non può trasformare l’efferatezza nazista in un alibi assolutorio.
1. La vergogna della memoria.
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Anche se fuorvianti per comprendere il passato, i miti e gli stereotipi sono un mezzo utilissimo per capire l’epoca nella quale sono stati prodotti.
Se una memoria comune è uno degli attributi fondamentali del concetto di nazione, quella italiana durante un momento critico della storia, come la Seconda guerra mondiale, è più che mai frammentata in esperienze diverse, persino opposte: i fronti di guerra nel 1940-43 (Africa, Grecia, Russia), la prigionia nei campi (degli alleati, dei russi, dei nazisti), la Resistenza.
Il secondo conflitto mondiale è stato per l’Italia a tutti gli effetti una guerra nazionale. Il suo ricordo però non poteva avere un ruolo di coesione, a causa della diversità dei destini degli attori coinvolti e della “memoria divisa” lasciata in eredità al paese. I sentimenti d’identità di un popolo si formano a partire da una memoria comune: se la memoria è divisa, l’identità e l’idea stessa di nazione entrano in crisi.
Per questo, terminato il conflitto, fu necessaria da parte dell’Italia repubblicana un’azione selettiva sulla quale fondare la propria legittimazione: la vera Italia era stata quella della Resistenza partigiana, che ha garantito il riscatto storico e morale di tutto il paese; con la liberazione del 25 aprile l’Italia entrava a pieno titolo nel novero delle nazioni vincitrici della seconda guerra mondiale e riprendeva il cammino di democrazia interrotto nel 1922 dalla marcia su Roma. Attraverso questa interpretazione il fascismo diventa solo una parentesi della storia patria, una camicia di forza imposta agli italiani con la complicità di Vittorio Emanuele III, così come imposte sono state l’alleanza con la Germania, le leggi razziali, e la guerra di aggressione iniziata nel ’40. La seconda guerra mondiale, con annessi i suoi fallimenti e le sue umiliazioni, è stata quindi una guerra fascista, imposta da Mussolini su un popolo che non la voleva e che fascista non lo era mai stato. Il consenso che Mussolini aveva avuto, e il grande entusiasmo che gli italiani avevano mostrato al momento della fondazione dell’Impero nel ’36 o all’entrata in guerra il 10 giugno del 1940 era come se non fossero mai esistiti.
A questo proposito Sebastiano Vassalli in L’oro del mondo, scrisse che erano esistite due guerre:
[...] quella piccola e gloriosa dei trentamila partigiani che diventarono trecentomila
il giorno della liberazione d’Italia. [...] quella grossa e insensata che coinvolse
quarantacinque milioni di Italiani e che, non appena finì, fu immediatamente
dimenticata da tutti: in blocco, con la sconfitta chiamata “armistizio” e con
l’occupazione militare chiamata “alleanza”. [...]. Nessuno fu veramente fascista,
nessuno ebbe responsabilità della guerra, nessuno, o quasi, combatté [6].
Per questo motivo i caduti, i reduci e soprattutto i prigionieri (ben un milione e trecentomila [7]) della guerra del 1940-43, non ricevettero quella glorificazione e quel rispetto con i quali vennero accolti i loro padri di ritorno dalla Guerra del ’15, ma anzi incontrarono diffidenza, se non un vago rancore.
Assieme alla memoria della guerra del 1940-43, a maggior ragione venne sepolto il ricordo dell’occupazione di territori stranieri e dei crimini ivi commessi.
L’unico governo che richiese l’estradizione di criminali di guerra italiani fu quello di Belgrado. Alle prime richieste di estradizione la preoccupazione del governo di Roma fu subito evidente. Per esso il problema non era accertare se le accuse fossero fondate o meno: si trattava, al contrario, di evitare ad ogni costo le estradizioni, perché solo i vinti vengono processati per le atrocità commesse mentre l’Italia si considerava un paese vincitore. A questo si aggiungeva il fatto che alcuni degli uomini richiesti dal governo di Belgrado avevano assunto incarichi politici rilevanti all’interno nel nuovo stato italiano [8].
Negando la possibilità al governo jugoslavo di processare i criminali di guerra italiani, fu giocoforza necessario rinunciare a richiedere da parte del governo italiano l’estradizione dei criminali tedeschi dalla Germania. L’opinione pubblica italiana, che sperava di veder giudicati i responsabili delle stragi naziste, vedeva quindi deluse le proprie legittime aspettative.
2. Il recupero della memoria e la rielaborazione della guerra del 1940-43.
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Il momento di recuperare la memoria del 1940-43 arrivò negli anni ’60. Momento rilevante fu quello dalla breve esperienza del governo Tambroni, appoggiato dal MSI. Forti proteste dell’opinione pubblica e grandi manifestazioni antifasciste obbligarono Tambroni a dimettersi, ed in quel clima di rinnovato odio verso il fascismo certi reduci sentirono la necessità di parlare, di rompere il silenzio per evitare che le responsabilità della guerra “fascista” cadessero esclusivamente sulla generazione che l’aveva fatta. Da queste testimonianze cominciarono a fiorire un gran numero di produzioni letterarie e cinematografiche che hanno molte caratteristiche in comune nel modo di raccontare gli avvenimenti bellici, e nelle quali possiamo individuare alcuni temi ricorrenti.
Il sacrificio, la morte e la sofferenza dei militari erano temi ricorrenti già nei film sulla Prima Guerra mondiale, nella quale i soldati erano solitamente giustificati ad uccidere perché coscienti di stare lottando per la propria patria. La maggioranza dei soldati italiani della Seconda Guerra mondiale sapeva di stare portando avanti una guerra di aggressione, assolutamente ingiustificabile al di fuori dell’ottica imperialista fascista. Per questo i film ed i libri di testimonianze relativi alla guerra fascista hanno in comune una depoliticizzazione: i narratori e i personaggi non sviluppano mai all’interno dell’opera un discorso critico sulla guerra in atto, che viene svuotata di ogni connotazione ideologica. La guerra c’è perché è stata voluta dall’alto, ed i soldati fanno il loro dovere, sparando, uccidendo e facendosi uccidere per senso del dovere e per i valori interni all’istituzione militare, come lo spirito di corpo e l’onore.
Italiani brava gente di Giuseppe De Santis (1964)
Un esempio importante ci è dato dal film del 1964, Italiani, brava gente di Giuseppe de Santis, coprodotto dall’URSS. Il film segue le vicissitudini dell’VIII Armata in Russia, che si batte con valore, ma non si mostra mai mossa da volontà di conquista, né tanto meno mostra simpatie per il fascismo. I soldati italiani non si abbandonano mai ad efferatezze: l’unica fucilazione che viene fatta a danno di civili russi, colpevoli di aver fatto saltare in aria una fabbrica, è eseguita per volontà di un generale tedesco. Il ruolo dei cattivi è infatti completamente in mano a questi ultimi, e ad uno sparuto gruppo di italiani radicalmente fascisti: i Superarditi. Troviamo quindi nel film due tipi di italiani diametralmente opposti: il soldato italiano del Regio esercito, numericamente preponderante, rispettoso dei russi, e da questi a sua volta rispettato, se non addirittura amato dai civili, ma allo stesso tempo pronto a fare fino in fondo il proprio dovere di militare; ed i fascisti Superarditi, con il loro comandante in testa, imboscati, vigliacchi, pronti a darsi al saccheggio e allo stupro, e disprezzati dagli stessi soldati italiani.
Altri esempi di film di guerra completamente depoliticizzati sono Mediterraneo di Salvatores, del 1991, in cui si viene ad affermare «col fascismo, tutte le cose buone sono proibite», ed il relativamente recente El Alamein, la linea del fuoco (2002), nel quale vengono dei presentati militari che non si definiscono mai “fascisti”, ma al contempo sono ligi al dovere, anche se si sentono abbandonati dalle alte sfere delle forze armate e si trovano nella più totale disorganizzazione (ad esempio, ai soldati al fronte viene inviata acqua trasportata in fusti che prima trasportavano benzina, e quindi praticamente imbevibile, ed un carico di lucido da scarpe in luogo di viveri e rifornimenti).
Colonna sonora del film di De Santis
Altro tema ricorrente nella filmografia sulla Seconda Guerra mondiale è quello dell’incapacità degli alti comandanti, le carenze negli armamenti, l’insufficiente equipaggiamento dei soldati, la mancanza di comunicazioni. Nel film Tutti a casa di Luigi Comencini (1960), ambientato nell’Italia post-8 settembre, un manipolo di soldati italiani non informato dell’armistizio viene improvvisamente attaccato dai tedeschi: il colonnello italiano, interpretato da Alberto Sordi, non riuscendo a spiegarsi la cosa, crederà inizialmente che i tedeschi si siano alleati con gli americani. Nel Libro Centomila gavette di ghiaccio, un reggimento di alpini, logicamente addestrato al combattimento di montagna, viene inspiegabilmente mandato nella sterminata steppa russa [9].
Quindi, pur appartenendo ad una armata di invasione, i soldati italiani appaiono dunque come delle vittime: non vogliono la guerra, sono mal equipaggiati, e vengono strappati dalla propria famiglia e dalla propria terra (la nostalgia per la propria città, per il proprio campo, è un altro tema ricorrente). In Mediterraneo, ad esempio, due fratelli pastori si offrono volontari per montare la guardia in cima ad una collina perché il paesaggio ricorda loro quello della loro casa.
I soldati italiani non odiano il nemico: lo combattono per senso del dovere, ma non lo odiano. In Italiani brava gente un colonnello italiano fa operare un partigiano russo ferito e gli salva la vita. Con la popolazione civile l’italiano è un soldato benevolo, il miglior invasore possibile: sempre nel film di De Santis l’italiano è affascinato dai russi e dal loro sterminato e fertile territorio (il tema delle radici rurali è una parte importante dell’identità nazionale italiana); ricorrono continuamente immagini di sconfinati campi di girasoli ed un soldato italiano di estrazione contadina, in una drammatica sequenza, vi troverà la morte. Nel film Mediterraneo i soldati italiani finiscono per integrarsi completamente con la popolazione dell’isoletta greca che sono andati ad occupare: ballano e giocano con i greci e vestono gli abiti locali, si innamorano, addirittura, restaurano una chiesa ortodossa (altro elemento fondante l’identità italiana: l’amore per l’arte). Anche il titolo del film, il nome del mare che bagna entrambi i paesi, pone l’accento su questa comunanza di razza e di cultura [10]. La realtà in Grecia fu purtroppo ben diversa rispetto a quello che emerge da questi film: in Grecia infatti l’occupazione militare causò una gravissima carestia e nell’inverno del ’41-42 il tasso di mortalità della popolazione greca aumentò di sette-dieci volte [11]. La resistenza dei partigiani greci contro l’occupante italiano e tedesco fu sempre molto intensa, ed a questa i nostri soldati risposero con efferatezze a volte non inferiori a quelle dei tedeschi: tra quelle più gravi possiamo ricordare la strage di Domenikon [12]. Il film del 2001 Il Mandolino del Capitano Corelli, di produzione statunitense, propone lo stesso contesto di guerra edulcorato (nonostante il tragico epilogo della vicenda): gli italiani, a differenza dei tedeschi, si integrano perfettamente con la popolazione locale ed a poco a poco si guadagnano la loro fiducia, tanto che all’annuncio dell’armistizio italiano i partigiani greci chiederanno a questi aiuto per scacciare l’ormai comune nemico tedesco.
Il desiderio di rimarcare la differenza dai tedeschi è un’altra costante di queste opere, spesso espresso attraverso la voce delle popolazioni occupate: «Italianski koroscii» (italiani brava gente) si sente dire spesso dai russi nell’omonimo film.
In sostanza il soldato italiano, pur essendo attore attivo in una guerra illegittima è meritevole di una riabilitazione: non nella dimensione militare o ideologica, ma nella sua dimensione umana. Questa interpretazione permette ad una generazione, quella formatasi durante il ventennio fascista, di riconquistare la sua dignità, e permette di far riemergere gli anni del 1940-’43 dall’oblio in cui erano rimasti per più di dieci anni.
Sacrificio, sofferenze estreme, simpatia per i popoli aggrediti, reciprocità di sentimenti, comunanza di valori nonostante la guerra sono i punti forti che emergono da queste opere, parte della memoria che il popolo italiano ha di se stesso. Il fascismo, una parentesi buia della storia italiana, rimane una parentesi, e venti anni di retorica militarista non sembrano essere riusciti a cancellare i valori italiani di pacifismo e di umanità, che sono parte dell’identità nazionale, e che nonostante tutto riuscirono ad emergere anche durante i terribili anni del 1940-43.
Le stragi e le efferatezze compiute dagli italiani durante la guerra, e quelle compiute precedentemente durante l’espansione coloniale, rimasero perciò condannate a rimanere nell’oblio, almeno nella storia ufficiale, non solo perché vergognose in sé, ma anche e soprattutto, perché in aperto conflitto con il mito consolatorio dell’italiano che era stato capace di mantenere la propria umanità in ogni circostanza, a dispetto del Fascismo, a dispetto di Mussolini, a dispetto della guerra da lui (e solo da lui) voluta.
3. Le censure.
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Il leone del deserto di Moustapha Akkad (1981)
Per alimentare il mito degli “italiani brava gente” è stato anche necessario zittire alcune voci. Un primo esempio lo si può ritrovare già nel 1953, quando la guerra era un’esperienza ancora fresca e tutta da rielaborare. Su una rivista quindicinale di cultura, Cinema Nuovo, apparve una proposta per un film di Renzo Renzi, dal titolo L’armata s’agapò. Secondo Renzi era arrivata l’ora di un film capace di rileggere la storia da un diverso punto di vista e che potesse essere insieme un esame di coscienza nazionale, una condanna dei conflitti, e un messaggio di fratellanza tra i popoli. Il film sarebbe dovuto essere una commedia, ambientata durante la campagna di Grecia, con una chiave di lettura netta: di fronte ad una guerra che non capiscono, nella grottesca situazione di falsi vincitori, comandati da ufficiali imbevuti di retorica nazionalista che li accusano di non essere all’altezza della “missione imperiale”, i militari italiani reagiscono sfogando i propri istinti sessuali tra case di tolleranza e donne greche disposte a concedersi in cambio di un po’ di cibo. Il titolo proposto, l’armata s’agapò (che in greco significa “ti amo”), era l’espressione che gli inglesi usavano in riferimento ai nostri soldati, tutti impegnati a sedurre le donne del luogo. Renzi, che aveva partecipato alla campagna di Grecia, corredò il suo articolo con vari episodi di cui era stato testimone diretto: “la passione amorosa” che toccava anche gli alti comandi, i greci e gli inglesi che sfruttavano la situazione per spiare gli italiani attraverso un gran numero di spie donna, la fucilazione di ostaggi.
L’articolo finì per attirarsi le ire degli ambienti dell’esercito che chiesero ed ottennero l’arresto di Renzi e Aristarco, editore della rivista, anch’esso ex militare. Nel pieno della Guerra fredda le forze conservatrici non potevano accettare che venisse delegittimato un esercito della NATO, riaprendo le ferite del conflitto e cercando di rielaborarne la memoria. Renzi venne condannato a sette mesi di reclusione ed Aristarco a sei (entrambi con la condizionale), e naturalmente il progetto del film venne accantonato.
I veti del ’53 si riproposero anche ben trent’anni più tardi. Questa volta l’obiettivo fu il film Il leone del deserto di Moustapha Akkad, di produzione libico-statunitense. Il film narra le gesta del condottiero senussita Omar al-Mukhtar (interpretato da Anthony Quinn), che combatté contro gli italiani dal 1912 al 1931, anno della sua cattura ed impiccagione [13]. Nel film gli italiani sono descritti come invasori spietati, saccheggiatori senza il minimo di rispetto per le popolazioni locali: l’esatto opposto di come appaiono gli italiani nei film di guerra a cui siamo abituati. Il generale Rodolfo Graziani, che ha ricevuto l’incarico da Mussolini di reprimere una volta per tutte la ribellione senussita, è dipinto come un megalomane sanguinario, imbevuto di retorica fascista, e desideroso di essere ricordato come un nuovo Cesare (un’immagine tutt’altro che distante da quella del vero Graziani) [14]. A lui e a Mussolini si deve la decisione di deportare i Senussi in campi di concentramento, una delle pagine più nere della storia italiana, che nel film viene descritta in tutta la sua crudezza.
Il film di Akkad, pur nelle sue esagerazioni e inesattezze (non tanto nel descrivere le efferatezze italiane, quanto nel fatto che i soldati italiani appaiono come degli imbelli vigliacchi, quasi completamente incapaci di combattere se non appoggiati da carri armati e altre armi moderne) è anche un opera di pregevole fattura: le scene di battaglia sono ben fatte, la figura di al-Mukhtar, anche se probabilmente romanticizzata, è commovente e credibile, e l’ingiustizia del colonialismo è denunciata con vigore, in modo semplice e senza retorica.
Le autorità italiane vietarono la proiezione del film nelle sale perché, nelle parole dell’allora sottosegretario agli affari esteri Raffaele Costa «danneggia l’onore dell’esercito». Nel 1987 la Digos ne bloccò la proiezione ad un cinema di Trento, mandando anche a processo i responsabili del fatto. Il film riuscì infine ad essere proiettato l’11 giugno 2009 seppur solo via satellite, sulla piattaforma Sky, ponendo così fine ad un caso di censura durato quasi trent’anni (anche se il film era da anni facilmente reperibile via internet).
Analoga sorte nel 1989, toccò al documentario Fascist Legacy, sui crimini di guerra italiani in Etiopia e Jugoslavia. La sua uscita in Gran Bretagna provocò un’immediata protesta diplomatica da parte della nostra ambasciata a Londra, e il documentario riuscì ad essere trasmesso in Italia, solo nel 2003, su la7.
Nel 1992 venne invece annunciato come di imminente pubblicazione un libro sui crimini di guerra italiani, scritto dallo storico americano Michael Palumbo. Il libro invece non vedrà mai le librerie italiane, pare per l’intervento di un prefetto in pensione, Giovanni Ravalli, le cui “gesta” sono ampiamente descritte nel volume [15].
I veti e le censure quindi non hanno avuto fine neanche negli anni ’90, anche se negli ultimi tempi, grazie ad una atmosfera più rasserenata, dove è venuto meno il peso delle ideologie, e non paiono esserci più argomenti così indicibili, sono stati pubblicate molte opere sia sul colonialismo italiano, sia sulla repressione in Jugoslavia e Grecia. La strada imboccata, almeno nel mondo accademico, pare essere quella giusta. Vedremo se in futuro saremo in grado di pensare finalmente ad una rielaborazione positiva della nostra memoria nazionale capace di fare i conti col passato.
[Bibliografia]
[Filmografia]
Note (↵ returns to text)- Angelo del Boca, Italiani brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005, pp. 171-189↵
- Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 448-471↵
- Gianni Oliva, «Si ammazza troppo poco». I crimini di guerra italiani 1940-43, Mondadori, Milano 2006, p. 7↵
- Lutz Klinkhammer, Stragi naziste in Italia, Donzelli, Roma 2006, pp. 143-161↵
- Gianni Oliva, «Si ammazza troppo poco»…, op. cit., pp. 7-8↵
- Sebastiano Vassalli, L’oro del mondo, Einaudi, Milano 1987↵
- Anne Boule-Basuyau, La memoire hontouse: les Italiens en Grece et in Russie pendant la Seconde Guerre mondiale, in http://chroniquesitaliennes.univ-paris3.fr↵
- Gianni Oliva, «Si ammazza troppo poco»…, op. cit., p.13↵
- Giulio Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, Mursia, 1963↵
- Anne Boule-Basuyau, La memoire hontouse…, op. cit., p. 16↵
- Giorgio Bocca, Storia d’Italia nella Guerra fascista. 1940-1943, Laterza, Bari 1969, p. 480↵
- http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Grecia-1943:-quei-fascisti-stile-SS/1996067↵
- Nicola Labanca, Oltremare…, op. cit., pp. 174-175↵
- Angelo Del Boca, Italiani brava gente?, op. cit., pp.171-189↵
- Gianni Oliva, «Si ammazza troppo poco»…, op. cit., p. 169↵
-
- Angelo del Boca, Italiani brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005.
- Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2002.
- Gianni Oliva, «Si ammazza troppo poco». I crimini di guerra italiani 1940-43, Mondadori, Milano, 2006.
- Lutz Klinkhammer, Stragi naziste in Italia, Donzelli, Roma, 2006.
- Anne Boule-Basuyau, La memoire hontouse: les Italiens en Grece et in Russie pendant la Seconde Guerre mondiale, in http://chroniquesitaliennes.univ-paris3.fr
- Giorgio Bocca, Storia d’Italia nella Guerra fascista. 1940-1943, Milano, Mondadori, 1996.
- Giulio Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, Mursia, 1963.
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-
- Giuseppe de Santis, Italiani, brava gente, 1964
- Gabriele Salvatores, Mediterraneo, 1991
- John Madden, Il mandolino del capitano Corelli, 2001
- Luigi Comencini, Tutti a casa, 1960
- Enzo Monteleone, El Alamein, la linea del fuoco, 2002
- Moustapha Akkad, Il leone del deserto, 1981
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