Anna Lombroso per il Simplicissimus
Il solito marziano che, a cavalcioni di Curiosity come il Barone di Münchhausen, sbarcasse tra noi non potrebbe non stupirsi di quale aberrante trasformazione abbia subito l’attività che dovrebbe garantire la nostra emancipazione dallo stato ferino, il nostro affrancamento dall’egoismo che sconfina nel cupio dissolvi dell’umanità.
Sarebbe sorpreso che qui si chiami politica qualcosa che stravolge e contraddice continuamente capisaldi etici e costituzionali, qualcosa che può collocarsi legittimamente al di qua o al di là della Costituzione, sopra o sotto all’interesse generale, al di là o al di qua della legalità, sopra o sotto la giustizia. Così che chi si richiama a valori morali – come denunciava Bobbio – non ottiene il plauso delle genti, ma per lo più viene considerato un “guastafeste”, se non un ipocrita che può coltivare in segreto i vizi che pubblicamente condanna. O, perché no? un invidioso che vorrebbe ma non può godere dello stesso sistema di licenze e privilegi, prima tra tutti la prerogativa di trasgredire.
Ieri a proposito delle candidature siciliane e oggi in merito al deforme ibrido elettorale, del quale appunto le primarie siciliane si presentano come un’anteprima se non un laboratorio sperimentale, il Simplicissimus si è accollato l’onere di guastare la festa di quella politica. Quella che mette al centro non il tornaconto di un ceto, ma la sua miserabile sopravvivenza, le sue mediocri rendite di posizione, i meschini benefici di pochi che ledono i diritti dei molti.
Ma il marziano non potrebbe non stupirsi anche di noi, che, occultamente o esplicitamente persuasi, proditoriamente o apertamente manipolati, magicamente o brutalmente incantati, ci siamo fatti convincere che sia accettabile se non desiderabile valicare il confine della legalità.
Nella pratica quotidiana, nell’accesso ai servizi offerti come concessioni, nel lavoro soggetto ad azioni arbitrarie, nel godimento del paesaggio e della bellezza abbiamo raggiunto, come fosse una comoda conquista, l’accidiosa acquiescenza, la bonaria tolleranza che fa credere che la mano della provvidenza, quella che dovrebbe premiarci con le diffuse ricadute del profitto di pochi, ci benefichi con il contagio del potere, con l’influenza del vantaggio, con la grazia dell’impunità, con la concessione favorevole dell’ingiustizia.
“Quando la giustizia viene meno, non ha più valore la vita degli individui”: secondo Kant, se la bellezza è l’aspetto visibile della giustizia – cioè l’ordine del cosmo come riflesso dell’ordine della società – allora nel catalogare il brutto e l’osceno che hanno caratterizzato lo sconcio del nostro Paese, l’oltraggio alla nostra cultura, lo sfregio del nostro paesaggio, la svendita di pezzi di patrimonio dell’umanità a interessi locali e particolari, in barba a leggi, regole, buonsenso, cui abbiamo concorso non fosse altro che con nostra neghittosa apatia, dobbiamo ammettere correità e partecipazione a questa nuova banalità del male. Quella della diffusione apparentemente universale dell’atteggiamento di conformità all’illegalità, di accettazione dell’anormalità come fosse legge naturale, chè così fan tutti.
Qualcuno ha chiamato tutto questo la “consorteria italiana”, un conformismo appiattito su una visione del mondo che coincide con la legge del più forte: è giusto perché è naturale che il lupo mangi l’agnello, è normale che chi sta sopra pesi su chi sta sotto, è fisiologico che chi ha il potere ne goda i frutti togliendo diritti a chi ne è escluso.
Banalità del male è un’espressione coniata per il male assoluto del Novecento, per definire l’uniformarsi di interi popoli a una norma moralmente inaccettabile come quella dei totalitarismi. La contemporanea banalità del male è solo apparentemente meno sanguinaria e cruenta, ma è altrettanto dirompente per quanto riguarda la destituzione della democrazia insieme a quella del giudizio morale, a quella della dignità, a quella della responsabilità, a quella della libertà.
Il vero male non è il male assoluto, nitido, identificabile: è la mescolanza, il groviglio infine indistinguibile dei due. Non può esserci politica, né “cosa” onesta, civile, democratica che non sappia e voglia discernere il bene dal male, che accetti quell’impasto come normale.
Si certo l’Italia è la patria del diritto ma non ha saputo essere la patria della giustizia e comunque il “diritto non permette di economizzare l’etica”. Ma nella commistione di leggi per tutti e misure su misura per pochi, nella pratica di licenze, condoni, sanatorie, scudi, nell’esercizio di forme sempre più inique di disuguaglianze si perpetua quello che sembra essere il marchio della classe dirigente e dei sacerdoti della teologia del mercato, l’imporci scelte infami e ricatti crudeli: occupazione o cancro, mercato o ambiente.
Berlusconi voleva far sembrare auspicabile la festosa e profittevole licenziosità, la creativa e dissipata irregolarità, l’informalità utile per affermazioni personali, per il coronamento di ambizioni private e familiari, per promuovere consumi futili e effimeri di oggetti, corpi e stagioni. Le ricchezze clamorosamente illegittime venivano clamorosamente esibite. Erano segni del potere, e non dell’impudenza: e dunque suscitavano non ripulsa, ma ammirazione e, soprattutto, accettazione. Non si assisteva soltanto alle gesta di quei potenti. Si voleva imitarli, ed essi spingevano all’emulazione perché così cresceva il consenso sociale alla corruzione e alla rete di complicità.
Ora la scelta intimidatoria è tra la “salvezza” e la giustizia, tra la sopravvivenza e la legalità: in modo da darci l’illusione di decidere se non sia meglio tenersi la febbre manomettendo il termometro, se non sia preferibile zittire investigatori e magistrati manomettendo la verità, se non sia augurabile una condizione di schiavi manomettendo i diritti.
Tra i tanti sacrifici che ci impongono quello che preferiscono per noi è la rinuncia alla dignità, alla giustizia, alla libertà, dalle quali dovremmo recedere per garantirci la permanenza in una imitazione della vita. Per la loro pedagogia la nostra critica, già inaccettabile, diventerà fuori legge, il nostro voto, inutile, diventerà fastidioso, il nostro consenso, sopportato, diventerà molesto. E le elezioni saranno una ludica liturgia officiata per ammansire i pochi non ancora addormentati, che già erano viziate da trattamenti e processi ineguali e discriminatori.
Fino a non molto tempo fa la volontà popolare funzionava a intermittenza, e valeva solo quando produceva risultati congeniali ai desideri dei governanti, ora ladisuguaglianza e la separatezza tra loro e noi è stata codificata da molte leggi, è penetrata profondamente nella società, innerva l’organismo del Paese, è regime totalitario. Non accettare più è il nostro obbligo e deve diventare il nostro orgoglio.
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