PROLOGO
Alleghe è un comune di 1.300 anime in provincia di Belluno. È una località splendida, meta per appassionati di montagna, un vero paradiso tra le Dolomiti. La “parete delle pareti” e il “regno del sesto grado”, sono due espressioni che usano gli alpinisti per indicare il versante nord del Monte Civetta, gruppo montagnoso che s’erge sopra Alleghe, come una corona maestosa. Un gigante di pietra ripido, che si specchia nel lago.
“La muraglia di roccia più bella delle Alpi”, la definì Dino Buzzati.
Il Monte Civetta è così chiamato perché un tempo era ritenuto maledetto. Nella tradizione popolare la civetta porta sfortuna, nessuno vuole che si metta a cantare di notte sotto le proprie finestre: la superstizione ci tramanda che i suoi concerti annunciano disgrazie.
Prendiamo la macchina del tempo, raggiungiamo la notte dell’11 gennaio 1771. Tutto tace nel borgo di montagna, tutto è congelato ed avvolto da metri di neve. Silenzio nelle tenebre, l’unico rumore è quello del vento di ghiaccio.
Gli abitanti del borgo dormono, barricati nel tepore delle baite. La notte è immobile, calma, ovattata.
La montagna si desta all’improvviso! Ruggisce, la montagna!
Un rombo scuote la terra. Una frana di proporzioni spaventose crolla sui tetti delle case; i villaggi di Riete, Marin, Fusine sono travolti da una massa di pietre, neve, alberi. Quarantanove anime vengono seppellite. Il panorama cambia in poche ore, quello che si vedeva il giorno prima aprendo le finestre alla mattina, non esiste più.
I superstiti sono come teletrasportati in un altro luogo, geograficamente diverso.
I detriti ostruiscono il torrente Cordevole che ora ha smesso di scorrere e un nuovo lago incomincia a formarsi. I vicoli e le vecchie case sono sommersi, inghiottiti dal bacino.
Nulla si può recuperare. Ma la sventura per gli abitanti del luogo, dopo quel terribile inverno di distruzione, morte e ricoveri di fortuna assediati dal freddo, non è finita. In primavera piove troppo. La pioggia fitta e incessante stacca un’altra frana che precipita nel lago. È un pugno di gigante che alza un’onda micidiale, uno tsunami d’acqua dolce. Lo tsunami dà uno schiaffo d’immane violenza alla costa di Alleghe, prendendosi la canonica, alcune case scampate alla prima frana, la chiesa, tre esseri umani.
Nasce così, nella tragedia, il lago di Alleghe.
PARTE PRIMA: LA LEGGENDA NERA DEL LAGO DI ALLEGHE
Le campane della chiesa sono finite in fondo al bacino. Dicono che nelle notti agitate da forti temporali, si sentano i rintocchi delle campane giungere dalle profondità nere del lago.
Solo una leggenda, per carità ... ma proviamo ad immaginarci noi, al buio, in un bosco sulle sponde, non lontano dal centro abitato, tra tuoni e fulmini e lampi e bagliori che illuminano in flash improvvisi il Monte Civetta che si mostra ad intermittenza severo e ripido, poi la pioggia fredda e i lamenti del vento, ed udire il suono agghiacciante di campane a morto; una nenia spettrale, il canto di anime senza pace che gela il sangue ai vivi.
Dicono che chi ha la sfortuna di sentire i rintocchi morirà dopo pochi giorni. I morti della vecchia Alleghe chiamano a sè i vivi della nuova Alleghe.
“Morto chiama vivo.” Dicono, ma è solo una leggenda ...
PARTE SECONDA: LA FAMIGLIA DA TOS E L'ALBERGO CENTRALE
Primo decennio del novecento. Elvira Riva è la figlia dei proprietari dell’Albergo Centrale di Alleghe. Elvira pecca in gioventù, fa l’amore senza essere sposata. È solo una diceria di paese o aspetta un figlio da una relazione proibita? Bisbigli, battute, sorrisetti.
I vicini di casa godono nell’additare i peccati altrui, si sentono moralmente superiori, e si divertono. È normale nei piccoli paesi, è così. La famiglia Riva corre ai ripari, la loro Elvira sposerà immediatamente Fiore Da Tos, un contadino (foto a destra). Matrimonio riparatore, scandalo aggiustato, almeno in parte.
Fiore però è un uomo rigido, autoritario, prepotente. È il padre di famiglia, il capo-clan, sovrano indiscusso di quel minuscolo ma torbido regno del Centrale di Alleghe. Non perdonerà mai a Elvira quel bastardo che porta in grembo...
La coppia ha due figli. Nascono Adelina e Aldo Da Tos.
La prima si sposa con Pietro De Biasio, un figuro scaltro, violento, cospiratore, capace nel suo microcosmo a dominare gli altri con la menzogna, e la minaccia.
Aldo, che manda avanti la macelleria di famiglia limitrofa all’albergo, si fidanza con Carolina Finazzer, una brava ragazza, tutta casa e chiesa, e vuole chiederle la mano. Aldo non è una cima, è influenzato in tutto per tutto dal resto della famiglia, è un debole.
I Da Tos sono benestanti, i Da Tos sono conosciuti, i Da Tos più che rispettati, son temuti.
PARTE TERZA: LA CAMERA NUMERO 6
La sera dell’8 maggio 1933, Emma De Ventura, la giovane cameriera dell’Albergo Centrale, è in camera sua. Scrive al fidanzato: “Mentre guardavo dalla finestra,vidi arrivare una macchina, ed io vidi subito che si trattava...” La lettera s’interrompe così.
Fuori, rintocchi di campana.
La mattina seguente, per Emma (foto a sinistra) è una giornata come tante. S’incontra con il fidanzato e prendono un caffè insieme nella sala da pranzo dell’hotel.
È sempre di buon umore la ragazza, chi la conosce sa che conduce una vita semplice ma felice, spensierata. Mentre rifà le camere, con le finestre aperte sul paese, chi passeggia di sotto la sente cantare. Una ragazza serena, pare.
E allora perché?
Stanza numero 6.
Adelina Da Tos corre giù dalle scale quasi a rompersi l’osso del collo, ha le mani nei capelli, è terrorizzata, esce in strada, grida.
“Aiuto! Presto! S’è uccisa! S’è uccisa!”.
Nella stanza numero 6 entrano il maresciallo, il medico condotto, il segretario del fascio Cavalier Rainero Massi, il parroco Don Marcon. In terra, con la gola squarciata, c’è Emma De Ventura.
Ricostruzione secondo quegli uomini: la ragazza, triste per problemi sentimentali con il suo fidanzato, ha deciso di farla finita. Prima ha tentato il suicidio con un boccetta di tintura di iodio, ingerendone più di un sorso, poi, sopraffatta da dolori lancinanti che il veleno le ha provocato, s’è data il colpo di grazia aprendosi la gola con la lama di un rasoio per poi stramazzare a terra.
La tintura di iodio è sì un medicinale che se ingerito può essere fatale, ma ha la controindicazione per l’apprendista suicida di essere ustionante per l’esofago e corrosivo per le budella, provoca cioè dolori atroci, estremi. L’utilizzo del rasoio è dunque plausibile per cercare una morte più veloce, seppur con un gesto davvero truce, da chi è in balia di una disperazione immane.
Ma la boccetta non è in terra rovesciata come la logica ci farebbe suppore. È stata riposta da Emma su una mensola, con il tappo infilato nel collo.
Pure il rasoio insanguinato non è vicino al cadavere ma appoggiato su un tavolino. Il corpo è sul pavimento, al centro della stanza; da una parte c’è il flacone e distante qualche metro, la lama. La cameriera era una giovane donna ordinata, ma è assurdo pensare che abbia avuto certe premure negli ultimi istanti della sua vita, con lo stomaco in fiamme e la gola aperta.
Facciamoci coraggio e chiniamoci su Emma. Ha macchie di tintura agli angoli della bocca e sulle guance. Un secondo sorriso le corre sul collo; è un squarcio letale che l’ha dissanguata, il sangue si è sparso in una larga pozzanghera.
Gli occhi, signori miei. Sbarrati. L’epressione del terrore. Quegli occhi hanno impresso gli ultimi istanti di Emma De Ventura e la verità su quanto è accaduto all’Albergo Centrale nella camera numero 6.
Edgard Allan Poe prende un tè in sala da pranzo.
PARTE QUARTA: SONNAMBULA
Dicembre, 1933. Aldo Da Tos (foto a sinistra) e Carolina Finazzer si sono appena sposati con il beneplacito del clan. Sono a Venezia, in viaggio di nozze.
In uno degli unici momenti in cui è distante dalla famiglia, il ragazzo si sfoga con sua moglie, le racconta i segreti dell’Albergo Centrale, casa sua.
La luna di miele diviene un confessionale di angosce e di orrori. Carolina ha paura, e fa bene ad averne.
Quando la coppia rientra in paese, la donna scrive subito all’amica Giuseppina De Plan:“Vieni subito ad Alleghe, devo raccontarti delle cose tremende”.
Non riesce a rimanere più in quel posto, telefona alla madre: “Mamma ho paura, voglio tornare a casa”.
A casa però, non ci tornerà più. Un’eco di suono di campane si diffonde sotto il Civetta.
La gelida notte del 4 dicembre, una donna in camicia da notte s’aggira sulle sponde del lago, sotto la luce pallida della luna. Sembra uno spettro, ma è solo una ragazza che soffre di sonnambulismo.
Poveretta, è in uno stato di così profonda incoscienza, di sonno-motorio, che finisce nel lago, in un angolo di acqua che non si è ancora ghiacciata.
L’indomani due ragazzini giocano vicino all’imbarcadero. Tra due barche c’è qualcosa che galleggia, sembra una matassa di alghe nere. I marmocchi toccano quella strana cosa con un bastone, l’avvicinano alla riva.
I bambini scappano scioccati. Le alghe nere sono una chioma di donna. Hanno appena scoperto un cadavere.
Ipotermia, dice la veloce autopsia.
Strano, non c’è acqua nei suoi polmoni, è come se fosse entrata in acqua già morta. E cosa sono quei brutti lividi sul collo? Non sono nulla.
I Da Tos confermano il disturbo del sonno di Carolina, aggiungono che era anima fragile e depressa; è stata una tragica fatalità, non ci deve essere spazio per alcuna illazione.
Incidente. Il Cavalier Rainero Massi e il medico archiviano. La notte del 4 dicembre però, qualcuno ha visto. Qualcuno sa, ma tace.
Sir Conan Doyle pattina sul lago ghiacciato di Alleghe.
PARTE QUINTA: IL VICOLO BUIO
Tredici anni più tardi. Luigi e Luigia Del Monego, il Gigio e la Gigia, sono i gestori del circolo Enail del paese. La sera del 18 novembre 1946 sono gli ultimi ad uscire dal locale, tirano giù le serrande, lei custodisce l’incasso.
Alla coppia pare di udire in lontananza rintocchi di campane. Scherzi della stanchezza e del vino.
Tredici anni prima, in una fredda notte di dicembre del 1933, la Gigia aveva visto ombre inquietanti aggirarsi per Alleghe. Le ombre sanno di esser state viste.
Il paese è deserto, i due rientrano verso casa, camminano tra viuzze e vicoli, accompagnati solo dal rumore dei propri passi sulle pietre del selciato e dai latrati di cani distanti.
Si fermano in un vicolo, lui deve far sosta in un orinatoio pubblico.
La luce del lampione, che solitamente è accesa in quell’angolo tra le case, è quella sera spenta, il vetro è rotto. Magari è l’opera di qualche piccolo vandalo annoiato. Buio.
Una mano esce dal nero delle tenebre, la mano ha un revolver.
Uno sparo.
Luigia Del Monego detta “la balena” crolla a terra, ammazzata. Luigi esce con un balzo dal vespasiano. Eccole di fronte a lui, le ombre tornate dal passato remoto.
Un’altra ombra scivola felpata alle sue spalle, sbuca dalla notte di Alleghe. La vittima è in piedi, pietrificata sul suo patibolo, non si accorge che il boia gli è dietro.
Un secondo sparo.
Un proiettile calibro 9 gli buca il cranio.
Nei letti delle case, gli abitanti aprono gli occhi, destati dagli spari. Nessuno si alza, quello è il 1946, la guerra è finita da poco, le armi in giro sono ancora tante e chi non sa come passare il tempo talvolta sparacchia alla luna, per gioco.
Non è un rumore così inconsueto. Tutti richiudono gli occhi. Anzi, quasi tutti, perché qualcuno da una finestra vede. Quel qualcuno è terrorizzato e tace.
Le autorità indagano, ma male, frettolose. Vogliono chiudere anche quel nuovo fattaccio con rapidità, stroncando sul nascere dubbi e congetture. I due cadaveri che giacciono a pochi metri l’uno dall’altra - lui ancora con la cicca spenta in bocca, lei a faccia nel suo stesso sangue congelato – sono le vittime di una rapina senza colpevoli.
Nemmeno quelle tracce sulla prima neve di novembre che mostrano impronte di suole con gomma liscia sembrano interessare i carabinieri. Ad Alleghe, le persone che si son fatte fare scarpe del genere dal calzolaio, si contano sulle dita di una mano.
Agatha Christie passeggia nei vicoli del borgo.
PARTE SESTA: UN GIORNALISTA COCCIUTO
Sergio Saviane, classe 1923, conosce bene Alleghe, ci va spesso in villeggiatura e stringe amicizia con gente del posto. Scrive, è un giornalista in erba, curioso.
Il Gigio e la Gigia Del Monego erano suoi amici e vuole vederci chiaro in quella tetra vicenda, il cui occultamento è lampante.
Chiede, ficca il naso, invèstiga. Dalle sue indagini emerge un ritratto del luogo che non è da cartolina. La bellezza del posto cela sospetti, minacce, menzogne. C’è un male strisciante tra le vecchie abitazioni, i boschi, le acque del lago e le pendici della montagna. L’omertà si nutre della paura degli abitanti.
Le dicerie vengono bisbigliate in sussurri guardinghi, leggende nere si mischiano a verità incoffessabili. Si pensano alcune cose, ma non si dicono; si incrociano per la strada i soggetti su cui si fanno delle voci ma si saluta e si tira dritto come se nulla fosse. Alleghe come Montelepre in Sicilia, scrive impietoso Saviane (Montelepre è il comune siciliano che fu terra di scorribande del bandito Salvatore Giuliano e che possiamo immaginare come habitat ideale di omertà e timore).
Un suo articolo (che si riporta alla fine di questo racconto nella sezione "Per approfondire") gli causa una brutta denuncia per diffamazione con successiva condanna a otto mesi di reclusione, con la condizionale.
Chi sporge denuncia sono i Da Tos, che si sentono chiamati in causa dall’articolo. Coda di paglia? Coda di diavolo.
Sergio Saviane, che da tutta la vicenda trarrà un libro di successo, ha il merito di aver lanciato il sasso dentro lo stagno, anzi dentro il lago, le cui acque, immobili come incantate da un sortilegio malefico, ora si agitano.
PARTE SETTIMA: UN CARABINIERE OSTINATO
Il vice-brigadiere Ezio Cesca è un giovane investigatore dal fiuto non comune. S’interessa ai misteri di Alleghe, si ossessiona perché sa che un assassino o degli assassini sono a piede libero, impuniti.
Ezio vuole giustizia per quei morti, vuole la verità. Il suo diretto superiore, il maresciallo della stazione di Agordo, Domenico Uda, sa di avere tra i suoi uomini un segugio d’eccellenza, gli dà carta bianca nelle indagini.
Il vice-brigadiere pulisce la lente d’ingrandimento.
Nell’anno 1956 comincia a frequentare Alleghe e i suoi personaggi, sotto mentite spoglie; oltre ad esser un buon carabiniere è anche un bravo attore.
Lavora come manovale nei cantieri della zona, stringe amicizia con Giuseppe - “Bepin Boa” - Gasperin, avanzo d’osteria, ex-partigiano, perdigiorno, avvinazzato, sbandato. Annusa, il segugio, ascolta i mormorii e li mette assieme come pezzi di puzzle.
È sicuro che i coniugi Del Monego siano stati fatti fuori perché conoscevano gli autori di un altro delitto, avvenuto tempo addietro, prima della guerra. Dopo tredici anni il Gigio e la Gigia, s’erano forse decisi a parlare.
Ezio cerca di buttare giù il muro di silenzio che c’è in paese: son montanari diffidenti, esageratamente discreti, famiglie che si fanno gli affari propri e a cui interessa campare in pace. Alleghe pare il villaggio degli sguardi dietro le tende o delle teste basse.
Il carabiniere però è ostinato, aggira il senso di paura collettivo con un espediente un po' infingardo ma fondamentale per tutta l’indagine. Seduce una giovane paesana che è la nipote di Corona Valt, un’anziana che abita proprio nel vicolo dove si è consumato il duplice omicidio, tanti anni prima.
Ezio si fidanza con la nipote e le chiede la mano, così facendo riesce ad entrare in confidenza anche con la vecchia, che infine, parla. La notte del 18 novembre 1946, due spari a pochi metri dai muri di casa sua la svegliano. Corona sbircia dalla finestra; nel vicolo è più scuro del solito, il lampione non funziona, ma lei riesce a distinguere lo stesso i lineamenti di un giovinastro che conosce bene: Bepin Boa! È lui il rapinatore! Giuseppe Gasperin ha ucciso i Del Monego!
Il vice brigadiere organizza la trappola anche se non deve darsi troppa pena con sofisticate strategie sbirre, Bepin Boa è un assassino ma è anche un coglione. Lo invita in osteria, luogo dove si sente subito a suo agio.
Bevono, sopratutto il Gasperin. Tra un litro e l’altro, Ezio gli propone un malaffare farlocco, gli chiede se è disposto a guadagnare dei soldi illeciti, pero c’è da usare le pistole. Bepin Boa le sa usare le armi? Sì, conferma Gasperin, altroché. Le ha già usate altre volte, quando era partigiano e poi una sera ... tanti anni prima ... non ha paura Bepin di ottenere ciò che vuole, conferma la volpe nel sacco.
Benissimo, allora d’accordo, i due s’incontreranno l’indomani per discutere nei dettagli il piano. La mattina dopo, all’appuntamento, oltre ad Ezio, Bepin incontra altri carabinieri.
Le manette gli chiudono i polsi.
In caserma la luce della lampada lo acceca. Giuseppe Gasperin crolla.
PARTE OTTAVA: I MISTERI SVELATI
Il potere del clan Da Tos è finito, la loro perfida influenza su Alleghe, durata oltre un quarto di secolo di silenziosa oppressione, svanisce.
Al ritorno dalla Persia, Pietro ha al polso un nuovo orologio, assomiglia molto a quello che indossava Adamo.
1933, maggio. La cameriera Emma De Ventura, non si è suicidata. Quella mattina siamo anche noi con lei nella camera numero 6, e da un angolo della stanza, guardiamo la verità.
Emma sta rassettando e canta. A passi decisi entra un’altra donna. Adelina Da Tos, indemoniata, cammina così veloce che la ragazza non fa tempo a capire. Adelina ha un rasoio in mano. Afferra per i capelli la cameriera, le tira giù la testa, le squarcia la gola senza esitazione. Molla la presa, Emma De Ventura s’affloscia sul parquet rantolando. Adelina Da Tos le sorride e abbandona la lama sul tavolino della camera numero 6. La famiglia la protegge, le autorità del luogo anche.
1933, dicembre. Carolina Finazzer, la moglie di Aldo Da Tos, ha le ore contate. Aldo è stato uno stupido, ha la lingua lunga quell’idiota, ora la famiglia deve porre rimedio al suo guaio.
I Da Tos sono a cena, tutti assieme. È una scena da incubo, Carolina sa di essere al centro del sospetto. La scrutano severi. La sposa di Aldo si ritira in camera sua prima degli altri, domani scapperà da quel covo di serpi. Via, lontano.
Il clan invece, rimane a tavola e la processa.
A capotavola, siede il giudice, Fiore da Tos, il capo tribù. Non si può indugiare, il pericolo per il gruppo è grave. Fiore sa cosa si deve fare, Pietro e Adelina sono d’accordo, la madre Elvira se ne rimane in silenzio a guardarsi le ginocchia, Aldo balbetta scuse e soluzioni irrealizzabili.
La sentenza è definitiva, senza appello: morte.
E noi, ancora una volta presenti sulla scena, zitti ad osservare seduti su quella panca di legno al primo piano, sentiamo le scale scricchiolare sotto i passi di più persone. La luce è fioca ma vediamo salire in colonna e a passi lenti Pietro, Adelina, Aldo.
Zitti e crudeli.
Aprono la porta della stanza da letto degli sposini, Carolina è a letto e Dio solo sa il terrore assoluto che prova mentre i tre s’avvicinano passo dopo passo al letto matrimoniale, in silenzio.
“Voi! Che volete?! No!”.
Suo cognato, Pietro De Biasio, marito di Adelina, le stringe le mani attorno al collo, è lui che compie il sacrificio umano in nome dei Da Tos. Il bene della famiglia prima di tutto.
Il delitto degenera in toni grotteschi, Adelina si mette in camicia da notte, esce al gelo inscenando una passeggiata sonnambula della cognata, con le braccia protese in avanti e tutto lo stupido cliché. Sarebbe da ridere, se non fosse invece l’orrore. Il diavolo sa esser anche buffo, talvolta.
Ad Aldo viene comandato di gettare il cadavere di sua moglie – la sposa cadavere, decisamente ante litteram – dentro le acque ghiacciate del lago di Alleghe.
Il bifolco cattivo viene visto dal Gigio e la Gigia: è la loro condanna, e una nuova sentenza viene emessa tredici anni dopo.
1946, novembre. Anche noi, appostati dietro una finestra come Corona Valt, siamo testimoni oculari dell’agguato nel vicolo. La trappola è stata organizzata dal clan Da Tos e partecipano al delitto Aldo Da Tos, Pietro de Biasio, e un altro ventenne arruolato per l’occasione come sicario prezzolato: Giuseppe Gasperin alias Bepin Boa.
I tre sono acquattati in angoli bui, serpeni velenosi che attendono le prede; tapperanno la bocca ai Del Monego per sempre. Due spari rimbombano tra le case di Alleghe addormentata.
Per lungo tempo la famiglia dell’Albergo Centrale, diventato l’inquietante epicentro della storia, è stata intoccata ed intoccabile. Il Cav. Rainero Massi, segretario locale del fascio e uomo potente in zona, è loro importante alleato. Li protegge, custodisce i loro peccati calcolando furbesco il suo tornaconto.
A guerra quasi finita, viene sequestrato da una banda partigiana che vuole accopparlo contro un muro com’è la prassi in quei tempi di regolamenti di conti.
Il cavaliere caduto da cavallo però, ha il suo asso nella manica. Ha depositato, la scaltra faina, una dichiarazione importante presso un notaio di sua fiducia. In quel documento, c’è tutta la trama ordita dai Da Tos per uccidere e per proteggersi. Nomi, fatti, prove. Se qualcuno gli torcerà un capello, il notaio aprirà il cassetto.
Interviene allora Pietro De Biasio, anche lui partigiano e con qualche posizione di comando, ed intercede per salvare la vita al cavalier Massi. Do ut des.
Fino all’arrivo del giornalista e del carabiniere, il covo di serpi del Centrale è al sicuro, le vipere possono strisciare libere.
PARTE NONA: IL PROCESSO
1960, processo di primo grado. Giuseppe Gasperin svuota il sacco per aver sconti di pena e dichiara:
“Pietro De Biasio mi ha costretto ad uccidere Luigi Del Monego la sera del 18 novembre 1946, mentre egli si riservava il compito di assassinargli la moglie che aveva raccontato di aver veduto, la notte del 4 dicembre 1933, Aldo Da Tos trasportare sulle spalle il cadavere della moglie Carolina Finazzer per gettarlo poi nel lago, in modo da far credere che quella sventurata si fosse tolta la vita”.
“È falso, è falso, è falso”, controbatte De Biasio.
Sentenze di primo grado, confermate poi nei successivi gradi di giudizio:
- Pietro De Biasio, ergastolo.
- Aldo Da Tos, ergastolo.
- Adelina Da Tos, ergastolo.
- Giuseppe Gasperin, anni trenta di reclusione.
PARTE DECIMA: IL MOVENTE UFFICIALE
In sede processuale, si ritiene che il movente del primo omicidio del ’33, sia dovuto ad un raptus di gelosia di Adelina che avrebbe scoperto una tresca tra la cameriera del Centrale e Pietro, suo marito.
Le morti successive sarebbero la conseguenza della prima, provocate per nascondere la verità sul finto suicidio di Emma De Ventura.
Un diabolico effetto domino, dove le tessere che cadono una dietro l’altra sono esseri umani ammazzati.
PARTE UNDICESIMA: IL MOVENTE HORROR
Ma c’è anche un’altra possibilità macabra, non confutata da prove ma solo da voci e ipotesi. La storia thriller, già fino ad ora a tinte fosche, si colora di rosso horror.
Riprendiamo pure noi la strada per Alleghe, nascondiamoci nelle stanze dell’Albergo Centrale. Un tardo pomeriggio della primavera del 1933, un ragazzo di nome Umberto si presenta a Elvira Riva Da Tos. “Sono Umberto, tuo figlio”.
Umberto è quel figlio illegittimo, mai riconosciuto dalla donna e allontanato subito dopo il parto, frutto del peccato di gioventù e concepito prima che la donna mettesse su famiglia con Fiore Da Tos, il contadino arrampicatore, il padrone assoluto.
Il ragazzo è impudente, come osa quel piccolo bastardo reclamare parte del patrimonio dei Riva-Da Tos? I figli di Fiore, aiutati da Pietro, risolvono la questione. Lo uccidono. Poi, lo fanno a pezzi. Aldo, che manda avanti la macelleria di famiglia, ci sa fare con la mannaia.
Emma la cameriera, sarebbe stata fatta fuori perché in cantina trovò il cadavere dell’incauto bastardo.
Due donne asseriscono di aver visto, nella bottega di Aldo, una mano spuntare da un cesto colmo di carne e frattaglie. Se volessimo dar adito alla leggenda truculenta, la giusta insegna del negozio potrebbe essere: MACELLERIA UMANA DA TOS – DAL 1933 CARNI FRESCHE.
Piatto tipico del bellunese è il pastin, rondella speziata simile ad un hamburger fatta con carne di manzo, di maiale o di bovino. Ogni vallata della provincia di Belluno ha la sua ricetta segreta.
Stephen King scende in paese a fare la spesa.
EPILOGO
L’autunno è freddo ad Alleghe e il lago si sta per ghiacciare. Guardate: laggiù, dove l’ombra del Monte Civetta copre l’acqua, c’è una barca con alcune figure vestite di nero.
Ascoltate: alcuni rintocchi di campana a morto risuonano nell’aria.
“Morto chiama vivo”. Dicono, ma è solo una leggenda.
Howard Phillips Lovercraft cammina nei boschi.
Federico Mosso
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Per approfondire:
- Sergio Saviane, “I misteri del lago di Alleghe” – Ed. Pilotto.
- “La Montelepre del Nord”, articolo del 1952 apparso sulla rivista Il Lavoro illustrato a firma di Sergio Saviane, qua riportato dal sito misteriditalia.it. L’articolo in questione causò a Saviane un risarcimento molto salato e una condanna ad 8 mesi di reclusione.
- Pietro Ruo, “I segreti del lago” – Editrice Santi Quaranta. Il libro tenta di capovolgere la tesi di Saviane e del tribunale sulla colpevolezza della famiglia Da Tos.
- Documentario RAI “Blu Notte - I misteri del lago di Alleghe” di Carlo Lucarelli.
- Scene tratte dal film “Segui le ombre”, ispirato ai fatti di Alleghe ma ambientato al Sud. Regia di Lucio Gaudino, Italia 2004: le trovate nella colonna a destra dell'articolo, sezione "Galleria video".