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Ivano Mugnaini - Il tempo salvato

Da Ellisse

Ivano Mugnanini - Il tempo salvato - Ed. Blu di Prussia 2010Ivano Mugnanini - Il tempo salvato - Ed. Blu di Prussia 2010
Quella di Ivano Mugnaini è una poesia pensosa e pensata, frutto di una evidente meditazione sui casi della vita, sull'amore, sull'eventualità di ritrovarsi sconfitti, su una probabile incapacità, laicamente consapevole, di comprendere il mondo circostante o la stessa natura, sul rischio di una qualche indeguatezza di "comprendere" quel mondo nel linguaggio e col linguaggio. Sono poesie fitte, dense, articolate spesso in lunghi periodi monologanti, come un pensiero tra sé e sé riflesso, che il poeta mette a disposizione del lettore. E il lettore deve accostarle (o sarebbe meglio che lo facesse) con una predisposizione d'animo quasi vergine, poichè si tratta di trovare all'interno di ciascun testo il giusto cammino, il giusto ritmo, il giusto fiato, quello che porta, con l'ultimo verso, al compimento, alla realizzazione di una epifania poetica. Del resto lo stesso Mugnaini ci esorta, nell'ultima poesia della silloge, "lasciamo che il testo trovi / il cammino, l'oggetto, il messaggio" (...) lasciamo che il verso trovi / per sé e per noi la sua strada, il suo senso". Che è una forma conativa, quasi di stampo anglosassone, per tirare gentilmente il lettore "dentro". Sia detto incidentalmente che nel lavoro di Mugnaini quella parola "messaggio" non ha niente di mistificante, topico o sbrigativo, poichè quel che comunemente con ciò si intende  è quanto di più lontano ci possa essere dall'essenza stessa della poesia, che non deve dare "messaggi" a nessuno. E' semmai il contrario, sembra dirci Ivano tra le righe: e cioè che non è il poeta a dettare il messaggio ma è la poesia, nel suo divenire spesso misterioso, a svelare qualcosa che l'autore stesso non sapeva. Va da sè tuttavia che il "mistero" in questi testi va di pari passo con una sicura artigianalità del verso, certo consolidata nel tempo, e che è proprio quella che permette all'autore di impegnarsi, senza mai perdersi, nei monologhi interiori di cui dicevo, e di addomesticare (forse anche in senso etimologico) proprio quel chè di misterico che ancora oggi è un alone residuale che qualcuno accosta al  concetto del fare poetico. Addomesticare, rendere domestico, è la millenaria illusione antropocentrica (e perciò biblica) che accompagna il destino dell'uomo sulla terra. Ma addomesticare che cosa? Innanzitutto, partendo dal titolo, il non domesticabile per eccellenza, il tempo. Per quanto nella comune esperienza umana sia un tentativo destinato al fallimento, il poeta sa, come Agostino, e lo sa più di tutti, che il tempo siamo noi. Tempo salvato, tempo perso...benché possa sembrare banale richiamare questa giustapposizione, vale la pena ricordare che è il tempo che salviamo in memoria a costituire quel tempo "non spazializzato", fatto di un flusso ininterrotto di momenti, che è il cardine della nostra coscienza (Bergson), ma anche del nostro "esserci", come afferma Heidegger, il nostro essere nel mondo, e perciò, in ultima istanza, la nostra identità di uomini e donne. Ma soprattutto, dice Mugnaini nel brano che dà il titolo alla silloge, il tempo salvato (quindi non perduto) è quello "strappato con la vita alla vita", compreso ovviamente quello dedicato alla poesia, quella "follia che ti spinge ad alzarti prima / della luce cercando il senso, la parola". Nel valore etico del tempo "salvato", perciò, per quanto esso possa essere "fragile, imperfetto, / regolato da cronografi tarati male", si nobilitano, anche poeticamente, le esperienze vissute, l'amore, gli eventi anche minimi ma significativi, le pulsioni primarie. La domesticazione è riportare con la poesia le cose all'interno della cerchia, non solo strettamente personale, attraverso confini sempre aperti, osmotici, tra l'oggettuale e il soggettivo. Ecco perciò che in questi testi si va dal piccolo al grande e viceversa, dall'interno all'esterno, dall'io a un noi, non sempre esplicito ma sempre presente, dalla concretezza delle cose all'animo. Un continuo attraversamento affettuato con una apparente composta serenità, o una disillusa ironia che ha anche illustri ascendenti nella poesia del Novecento, ma che dà la dimensione di un autore che si sente talvolta apolide rispetto al mondo, e nutre felicemente la sua poesia di questo sentimento. Un procedimento che è possibile cogliere in pieno, a titolo di esempio, proprio ne "Il tempo salvato", in cui si passa da una constatazione del reale anche "dura", anche arrabbiata, ad una riflessione dolente, una domanda sul senso di sè e del proprio fare, anzi sulla "ipotesi di sé, la possibilità di essere / immaginato come ente inesistente" (corsivo mio). Ossimoro, contraddizione, aporia, estremo confine tra l'essere e il mero accidente, ovvero qualcosa che - semplicemente - accade, o si lascia accadere. (g.c.)
dalla sezione “Tra la poesia e la vita”
Se questa tregua inattesa
Se questa tregua inattesa sia affanno
o euforia, lo dirà forse il respiro di carne che abita
nel buio di ossa umide, oscure come le grotte di Matera.
Se saperti distante e vicina, prossima alle braccia,
alle dita, remota come isola bianca in atolli di palme
e corallo, sia quiete o cerchio di acque infestate
da ilari squali, è corrente incerta, verdetto
inespresso del mare, capriccio di maree.
Se ascoltarti giurare che oggi più che mai mi ami
sia premio o condanna, è come cercare
nei versi un profumo di donna sincero di vita.
È assurdo, frustrante. Ma un mattino
ti svegli e assieme al passo malfermo del cuore
e alla barba da rifare, c’è un profumo che aleggia
nella stanza. Dolce da far ridere, da incutere timore.
Non è tuo, non ti appartiene. Eppure ti segue, ti alita
accanto. Dolce e tenace da fare urlare di rabbia. Dolce
e tenace da inorridire. Dolce e tenace da farti vivere.
dalla sezione “L’attrazione”
L'attrazione
Quando vacillano le fedi,
quando le speranze e le stelle
che eri certo di toccare
si spengono senza un palpito,
senza un rumore,
non c'è musica né suono,
non c'è nota
che possa entrare
in sintonia, perché è sempre
troppo allegra o troppo triste,
invita a un riso o a un pianto
che non sai accettare
senza vergogna, senza timore,
come se fosse troppa grazia
o troppa pena, come se il vizio
antico di vivere fosse una colpa
che non sai smettere di sentire.
A tratti, ti viene da pensare
di avere sbagliato direzione:
dal buio verso la luce, è esperienza
comune, è più agevole, più naturale;
più ostico per l'occhio e il corpo umano
è muoversi dalla luce verso il buio.
Forse alla nascita abbiamo sbagliato
cammino. Oppure, semplicemente,
la scommessa, il senso, il destino,
è individuare a tentoni, toccando
la calce fredda del muro,
l'interruttore. Senza paura
della mano che trema:
la fame, il bisogno, l'attrazione.
Il sole d'autunno
"Aprile è il mese più crudele, genera memoria
e desiderio". È vero, ma non meno aspro
è il vetro di questo ottobre di sole che bussa,
voce calda di amante. Invita a uscire,
riempiendo di te l'aria, cercando
nelle facce della gente il più spiazzante
sorriso; lo sguardo che ti fa uomo, fragile,
imperfetto, eppure disegno, progetto
che nutre armonia, sole d'autunno,
da cui farsi scaldare ancora,
prima che un vento buio ci trascini via.
E' meglio scrivere di riso che di lacrime.
Perché il riso è il segno dell'uomo.
            F. Rabelais

I bambini là fuori
I bambini là fuori, ridono di gioia
vedendo uno sprazzo di sole
che sbuca tra le nuvole.
Sono gli stessi con cui, tra qualche anno,
dividerai il buio degli sguardi e il silenzio
delle parole.
Sono gli stessi che sfrecceranno sulle strada
mutilando la carezza
delle foglie.
Forse lo sono, anzi, lo sono certamente.
Ma intanto ridono, e alzare la testa
per vedere il sole è anche per te, ora,
una forma vitale di follia.
VLADIMIR: Questo ci ha fatto passare il tempo
 ESTRAGON: Ma sarebbe passato in ogni caso
 VLADIMIR: Sì, ma non così velocemente
                                                                                            S. Beckett, Aspettando Godot
La speranza di settembre
Ora che sono finiti gli spunti antichi
e le idee adeguate annotate con cura
hanno ridisceso una per una scale di ferro
senza ringhiera, ora che perfino l'afa
lascia spazio alla coscienza della sera,
sarebbe tempo di scrivere solo del tempo,
come un naufrago che si innamora
dell'acqua e si abbandona
ad occhi aperti ad un abbraccio infinito.
Sarebbe tempo di percorrere le strade
dei perché lasciando a casa le borse
dei come, cercare una voce, una chiave
nelle ossa spezzate dei cani o nella carne
soffice di ghignanti puttane. Sarebbe tempo,
se il tempo non fosse fragile, imperfetto,
regolato da cronografi tarati male, ancora
soggetti a salti e arresti, orgogli e terrori,
costretti a fare algebra dell'aritmetica,
sbagliando i più elementari teoremi,
contenti, in fondo, di fallire gli schemi
essenziali, le basi, i calcoli, le proporzioni,
felici, nonostante tutto, di sprecare un'altra
estate fingendo di studiare, per poi tornare,
assetati, al primo giorno di scuola.
Il cielo raggrumato
Il cielo raggrumato al termine
del falsopiano, ti attende, come un antico
nemico, un conoscente che un tempo
fu intimo e che credevi dimenticato.
Ti obbliga a guardarlo, nel chiarore
che illumina e acceca. Per un secondo
lungo una vita: prima che la dinamica,
la forza d’inerzia, ti scagli
come un fuscello verso la curva
qualche metro più in là.
Non resta che guardare lei, provare
a individuarne la corda, la traiettoria
che compensa la spinta e l’attrito,
chiedersi solo un istante se fuori
sia troppo freddo o troppo caldo,
aprire il finestrino e tornare
a respirare; l’asfalto, la terra, un filo
di sudore sulla fronte, la certezza
della polvere, qualcosa di caldo
nella nuca, la strada che ancora
ti separa dall’orizzonte.
dalla sezione « Il tempo salvato »
Il tempo salvato
  Da luoghi di sangue senza più calore,
anime morte si affollano ai margini
di centri commerciali aperti a miraggi
di saldi all'ottanta per cento, davanti
ad un Caronte senegalese parcheggiatore
precario nella pupilla ferita di ferocia,
incerto tra il riso e la nostalgia
di una terra di bellezza
assolata. Ti chiedi, da solo, se sussiste,
se respira ancora, il tempo salvato, strappato
con la vita alla vita.
   È assurda la risposta, non la domanda,
non la follia che ti spinge ad alzarti prima
della luce cercando il senso, la parola,
scoprendo che è bello cercare di nuovo
per riuscire a vedere il troppo
che è stato tradito nell'atto sventato
del tradurre, rendendo sacra una pena
che nessun dio può amare, se non
nel silenzio insensato che nega anche
l'ipotesi di sé, la possibilità di essere
immaginato come ente inesistente.
Non c'è bellezza nel dolore, non c'è
santità. È sana la fatica, il sudore
che lava la fronte. La sola vera morte
è il soffrire. Ed è già putrefatto, dentro,
chi lo loda, da qualunque pulpito,
con qualsivoglia intenzione.
dalla sezione “Il tempo dell’attesa”
Stretta a me
Stretta a me, nella stessa linea
di fuoco, la stessa ferita, tempia
a tempia, rimbombo,
fame che strozza la gola,
miele ingoiato in mattini
d’afa e di vento, la tua pelle
seta, filo spinato, difesa
e ghigliottina in cui si immolano
gelo e sole, strade, profumi
da esplorare, sentieri
per perdersi ancora.
Ombra riflessa, follia che mima
e straluna la vita.
Finita la fuga
Finita la fuga, respirata di fretta
l’aria di altre stanze, gonne
e lenzuola di altre vite,
quadri africani appesi alle pareti,
misteri di chiodi, corrimani, polvere
e vetri non tuoi, torni, stazione
dopo stazione, ilare, lenta via Crucis,
a chiuderti da solo nella gabbia
familiare. Lo zelante carceriere
che hai provato a fregare,
che ha provato a fregarti,
ora, con puntualità,
inasprirà la pena.
Una religione della gioia
   Una religione della gioia, fiore
tropicale esploso in quest'epoca
di doppipetti inamidati che impediscono
alle mani i gesti delle loro fedi di violenza
e sopraffazione.
   Una religione del piacere contrapposto
al dolore osannato sugli altari come fonte
di salvezza e purificazione. Una religione
disposta a correre verso il luogo
dove l'umano è solo umano, nell'atto
sublime di privilegiare il breve istante
a un orizzonte sconfinato.
   Una religione della speranza dei solchi,
pane quotidiano, religione da fornaio,
la notte tramutata in un sogno
concreto.
   Datemi una tale religione e mi farò adepto,
battezzato, purché l'immersione rituale
avvenga nel mare di Venere, carne splendida,
effimera, soggetta alle ire del tempo, l'abbraccio
delle onde, mistero, linfa
calda, aspra, sapida di terra.

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