Jaron Lanier è un programmatore e un musicista. Il suo testo (*) – tradotto anche in italiano – parla degli esiti della rivoluzione telematica, in una prospettiva critica e non contemplativa come la metafisica di alcuni filosofi professionisti, che s’ispirano alla digitalizzazione per ridurre la realtà a “documentalità” e condizione di possibilità dell’anima, o, all’opposto, a un’“infosfera” popolata d’inforgs.
Nel Fedro Platone, da utente del testo scritto, s’interroga molto più sul “come” che sul “che cosa”, riflettendo sulle possibilità e sui limiti della scrittura e dei media non interattivi in generale. Socrate non discute con un tecnico della comunicazione, com’è Fedro, per stabilire se l’anima ci sia o no – ne parla solo in un mito – ma per capire la relazione fra le tecnologie della parola e l’ambiente culturale che esse contribuiscono a creare. E’ sociologia della comunicazione? Certamente. Ma è anche filosofia come critica e prassi teorica, come riflessione che s’interroga sui suoi strumenti, anziché cristallizzarli in un’esposizione metafisica. Solo una lettura superficiale può rappresentare Platone come un mero detrattore della scrittura a favore dell’interiorità segreta di un’anima non documentabile.
1. Smanettando con la filosofia
Se adottiamo la prospettiva di Lanier le metafisiche che affrontano la digitalizzazione in modo contemplativo non sono soltanto oziose: sono pericolose.
Costruiamo estensioni per il vostro essere, come occhi e orecchi remoti (web-cam e telefoni cellulari) e memorie espanse (la massa di minuzie che si può cercare online). Esse diventano le strutture con cui vi connettete al mondo e agli altri. Queste strutture, a loro volta, possono cambiare il modo in cui concepite voi stessi e il mondo. Smanettiamo con la vostra filosofia manipolando direttamente la vostra esperienza cognitiva, non indirettamente, tramite l’argomentazione. Basta un minuscolo gruppo di ingegneri per creare una tecnologia in grado di dar forma, a incredibile velocità, a tutto il futuro dell’esperienza umana. Perciò sviluppatori e utenti dovrebbero fare le discussioni fondamentali sulla relazione umana con la tecnologia prima di progettare tali manipolazioni (You are not a Gadget, cap. I).
Il software non è un dato: è una costruzione, una visione del mondo, che incide su di noi – proprio come la poesia criticata da Platone nella Repubblica – al di qua del ragionamento. E come la poesia, è soggetto ai vincoli della tradizione,o, più specificamente, del lock-in che “trasforma i pensieri in fatti“. Gli umanisti conoscono bene questo fenomeno: è la sedimentazione di idee, costumi e istituzioni che rende tanto potenti e costrittive la culture umane – è l’eticità di Hegel, la convenzione e la prescrizione di Burke, il sistema di tutele che rende così difficile uscire di minorità nello scritto sull’Illuminismo di Kant. Un fenomeno che però, trasferito al software, rischia di trovarli disarmati e proni a una contemplazione servile dell’esistente, a meno che non appartengano alla particolarissima categoria dei digital humanists. Lanier suggerisce di essere scettici sugli strumenti che usiamo: ma lo scetticismo – per non ridursi a tecnofobia – richiede una conoscenza tecnica di cui non sempre i contemplativi si curano. Lo stesso concetto di digital humanities – quando viene distinto dalle scienze umane – presuppone che gli strumenti e le interfacce del conoscere siano oggetto di specializzazione molto esclusiva e non interesse di una scienza semplicemente umana.
2. You are a gadget, indeed
Dal punto di vista applicativo, la differenza fra il sito di una rete sociale e il web come esisteva prima che le reti sociali venissero introdotte è questione di piccoli dettagli. Sul proprio sito web si poteva sempre creare una lista di link ai propri amici e spedire messaggi di posta elettronica a una cerchia per annunciare quanto ci stava a cuore. Tutto quello che offrono i servizi di reti sociali è un pungolo a usare il web in un modo particolare, secondo una filosofia particolare (You are not a Gadget, cap. III).
Quando Tim-Berners Lee inventò il web, progettò, pensandolo per la comunità del Cern, un’architettura aperta e minimalista, che riuscì a guadagnare, solo perché si fondava su una buona idea, una partecipazione e una cooperazione spontanea. Le reti sociali proprietarie mercificano questa spontaneità, incoraggiando le persone a creare presenze standardizzate in modo da poterle classificare più facilmente nei propri database. Chi accetta di sottomettersi ai modelli riduttivi delle reti sociali – il loro confinamento della gente in bolle, con i cacciatori di relazioni su Facebook e i carrieristi su Linkedin – accetta di ridurre se stesso, di limitarsi secondo stereotipi pensati da altri, e per fini diversi – e spesso opposti – ai suoi. Il denaro, in rete, serve in primo luogo a pagare la pubblicità (You are not a Gadget, cap. IV): questo significa che l’interesse più forte e prevalente nella società digitale non è la socialità, o l’arte, o la scienza, ma la manipolazione.
Lanier interpreta il test di Turing alla rovescia, suggerendo di pensarlo non come esame empirico di umanità per la macchina. ma come test di meccanicità per l’essere umano. Lo supererebbe, in questa prospettiva, non la macchina che si comporta in modo “umano” bensì l’uomo che, avendo accettato la riduzione a gadget, si comporta in modo meccanico – cosa, questa, non infrequente nel mondo delle reti sociali.
3. Noosfera: dalla quantità alla qualità?
I frammenti della fatica umana che hanno inondato l’internet sono percepiti da qualcuno come componenti di una mente ad alveare, o noosfera. Si usano termini come questi per descrivere una cosa concepita come una nuova superintelligenza che sta emergendo globalmente sulla rete. Alcuni, come Larry Page, uno dei fondatori di Google, si aspettano che internet a un certo punto diventerà viva, mentre altri, come lo storico della scienza George Dyson, pensano che potrebbe già esserlo. Derivati popolari come “blogosfera” sono divenuti luoghi comuni.
Un’idea di moda nei circoli tecnici è che la quantità non solo si trasforma in qualità quando raggiunge una misura estrema, ma che lo fa secondo principi che noi capiamo già. Alcuni dei miei colleghi pensano che un milione o forse un miliardo di insulti frammentari produrrà alla fine una sapienza superiore a quella di qualsiasi saggio ben ponderato, a condizione che sofisticati algoritmi statistici segreti ricombinino i frammenti. Io non sono d’accordo. Viene in mente un modo di dire dell’informatica dei primordi: garbage in, garbage out (You are not a Gadget, cap. III).
La rete può pensare al nostro posto, grazie alla mera massa dei dati, delle connessioni e della potenza di calcolo? Quando dobbiamo spiegare un fenomeno dobbiamo trattarlo come deterministico: questa è scienza. Credere, però, che dalla mole digitalizzata dei dati, delle spiegazioni, delle connessioni e delle confutazioni scaturisca una coscienza cosmica significa passare dalla scienza allo scientismo.
vedere, tuttavia, la coscienza come qualcosa di misterioso, che non può ridursi a illusione perché tale riflessione presuppone pur sempre la coscienza stessa, non è tanto infondato quanto sostenere che l’anima senza l’informazione è, a sua volta, nulla? Fra queste due visioni del mondo che si confrontano teoreticamente in uno scontro indecidibile c’è però una differenza pratica. Credere in un’informazione che torreggia su di noi induce a un atteggiamento contemplativo; credere nell’autonomia della ragione – e già Kant sapeva bene che non vi si può coerentemente accedere tramite un algoritmo, ma solo tramite una vocazione – induce a un atteggiamento critico. La noosfera, in questa prospettiva, è semplicemente il mondo della cultura, con tutte le sue strutture, le sue sedimentazioni, i suoi lock-in, i suoi dati chiusi o aperti, le sue reti semantiche e no, e i suoi pregiudizi: ipostatizzarla significa scegliere di trattarla come un dato anziché come un costrutto.
4. Maoismo digitale
Il maoismo digitale non rifiuta ogni gerarchia. Ricompensa, invece, in maniera preponderante un’unica gerarchia prediletta, quella dei metadati digitali [digital metaness], nella quale un pastone [mashup] è più importante delle fonti che sono state ridotte in poltiglia. Un blog di blog è più celebrato di un mero blog. Se avete catturato una nicchia molto alta nell’aggregazione dell’espressione umana – per esempio nel modo in cui Google ha fatto con la ricerca - riuscite a diventare potentissimi. Lo stesso vale per l’operatore di un hedge fund. Nella nuvola, meta equivale a potere (You are not a Gadget, cap. IV)..
Metaforicamente: la Bibbia è un testo meraviglioso frutto della collaborazione fra generazioni e autori per lo più anonimi. Ma una cosa è apprezzarla come prodotto della sedimentazione culturale, finestra sull’umanità e – per chi è credente – espressione indiretta di Dio. Un’altra è trattarla, fanaticamente, come la parola diretta di Dio, consegnando, così, un potere grande e incontrollabile a chi svolge il ruolo dell’aggregatore che ordina, accoglie ed espunge contributi secondo il suo arbitrio (You are not a Gadget, cap. III). Questa seconda posizione – usare un prodotto collettivo come un oracolo, enfatizzare la massa e la sua eventuale violenza rispetto al singolo – è ciò che Lanier chiama maoismo digitale.
5. Il valore del lavoro intellettuale
Un effetto della cosiddetta cultura libera è che potrebbe infine costringere chiunque vuole sopravvivere sulla base di un’attività intellettuale (diversa dal badare alla nuvola) a entrare in una qualche specie di fortezza giuridica o politica – o diventare favoriti di un ricco mecenate – per essere protetti dalla rapacità della mente ad alveare. In realtà “libero” significa che artisti, musicisti, scrittori e registi saranno costretti ad ammantare se stessi in istituzioni indigeste (You are not a Gadget, cap. IV)..
Questa tesi non può essere ridotta a un attacco al Web 2.0:, perché tocca un problema più ampio: in che modo le società fanno i conti con la loro “anima”? In che modo riconoscono il lavoro dell’intelligenza?
Prima della stampa l’attività dell’intelletto era un privilegio che compensava se stesso, ed era per lo più scontato che il suo prodotto fosse comune. Gli autori poveri di mezzi dovevano rassegnarsi a dipendere dal mecenatismo. L’invenzione della stampa non decretò la loro indipendenza, ma il potere di nuovi mediatori, gli editori, dapprima, più intensamente, con il regime del privilegio librario e poi, più moderatamente, con un copyright, che però divenne sempre più sbilanciato a favore dei distributori. La pubblicazione scientifica mainstream, garantendo ricche rendite da oligopolio a pochi latifondisti del sapere che privatizzano quanto ricevono a titolo gratuito, è il caso limite di questa tendenza. La mente ad alveare non ha inventato nulla: il comunismo della conoscenza e il tentativo di sfruttarlo per trarne profitto o per manipolare le coscienze accompagnano tutta la storia della cultura umana. Il Web 2.0 con i suoi signori delle nuvole e i suoi servi della gleba digitali che li omaggiano di pezzi stereotipati di se stessi ne sono solo la manifestazione più recente.
La soluzione di Lanier – ispirata al progetto Xanadu – si adegua al presupposto che un bene comune e gratuito sia privo di valore. Con queste premesse l’anima può riottenere la sua dignità solo diventando di nuovo privata e monetizzabile. Anche se i costi di transazione di un sistema centralizzato di micropagamenti che permettesse l’accesso ma non la copia risultassero superiori alle remunerazioni degli autori, l’efficienza del mercato dovrebbe essere sacrificata alla sua pedagogia. L’unica alternativa a questo capitalismo inefficiente sarebbe il socialismo, che però è soltanto – esorcisticamente? – evocato, sebbene la critica di Lanier al Web 2.0 sia tecnicamente consonante con quella di Dmytri Kleiner, telecomunista.
6. Oltre il lock-in?
Molto prima che venisse inventato il Web 2.0, il sistema della pubblicazione e della valutazione scientifica ha sperimentato un oligopolio basato sull’alienazione del lavoro intellettuale a favore di un’oligarchia di multinazionali dell’editoria scientifica. Si era riusciti a far credere che il valore dei testi non dipendesse dai loro contenuti, bensì dalla loro distribuzione e aggregazione bibliometrica. Questo sistema è simile al Web 2.0 perché monetizza quanto offerto gratuitamente, a favore di pochissimi signori delle nuvole. I suoi testi, però, oltre ad essere recintati in bolle di dati proprietari e chiusi, sono accessibili solo a caro prezzo.
Il movimento per l’accesso aperto ha reagito all’oligopolio impegnandosi perché tutti possano leggere i testi senza pagare il pedaggio ai signori delle nuvole. Nello spirito di Lanier, avremmo potuto esigere che gli autori e i revisori degli articoli scientifici fossero pagati per il proprio lavoro in proporzione ai profitti degli editori. Ma non lo abbiamo fatto. Non lo abbiamo fatto perché non siamo prigionieri del lock-in che sembra incantare Lanier: per noi il valore dell’attività dell’intelletto non è monetario, né, in generale, la moneta è la misura ultima di tutti i valori. Esistono e sono esistite società libere da questo pregiudizio: gli stessi mecenati che, nella prima età moderna, finanziarono la rivoluzione scientifica vivevano in un mondo in cui era il denaro – e non l’attività dell’intelletto – a doversi giustificare, trasferendosi su valori ulteriori.
Chi sente la monetarizzazione del valore come un lock-in culturale si rende conto che il potere dei signori delle nuvole non riposa sulla svalutazione dell’attività dell’intelletto, ma sulla nostra incapacità ideologica di riaffermare il valore gratuito – la grazia – del nostro lavoro e di farlo riconoscere alla società con forme di remunerazione alternative al monopolio – dal crowdfunding, a una politica fiscale adeguata, alla promozione della cooperazione -, e sulla nostra difficoltà tecnica a esaminare criticamente gli strumenti che usiamo e la filosofia che incorporano.
Se vogliamo una repubblica del sapere senza recinzioni, ma popolata da cittadini e non da gadget, Lanier merita risposte che non si limitino a una difesa d’ufficio del Web 2.0. Da umanista, ne propongo alla discussione due, fra loro connesse:
1. Tecnicamente, occorre tornare dall’enfasi sull’user generated content all’user generated interface. I contenitori – dagli editori tradizionali alle reti sociali proprietarie – non sono indifferenti, soprattutto quando ci impongono una filosofia e una visione del mondo, che può andare dal culto del copyright alla riduzione a gadget. Questo significa – per gli umanisti e in generale per chi usa la rete per fare ricerca – prendere o riprendere in mano il codice, e chiedere agli sviluppatori che ci aiutino a uscire di minorità. Non possono esistere contenuti liberi se non sono liberi, preliminarmente, i loro contenitori.
2. Filosoficamente, occorre collegare la questione dell’uso pubblico della ragione a quella del grado di controllo che a ciascuno deve essere riconosciuto nel proprio rapporto col pubblico. La cultura, con le sue strutture. ma anche con i suoi pregiudizi, è oggetto di responsabilità – e irresponsabilità – collettiva. Le reti sociali proprietarie – come i monopoli tradizionali basati sul copyright – non possono sostituire le comunità di conoscenza senza togliere al “tempo libero” della ricerca e della vita la sua libertà. Bisogna lavorare perché queste idee diventino tanto banali quanto da noi lo è, almeno formalmente, il principio della libertà d’espressione
(*) Il libro, anche se si trova facilmente in rete, è ad accesso chiuso; è stato tuttavia segnalato perché merita di essere aperto e discusso. I brani citati sono stati tradotti da me e non vengono dalla versione italiana commercializzata ad accesso altrettanto chiuso da un editore potente a cui non desidero fare pubblicità.