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Jean et Alexandre De Moreaux

Da Vampirieco
Jean et Alexandre De MoreauxCapitolo 2
I molti, molti mesi che seguirono il nostro primo incontro con Eleazar, trascorsero sereni e veloci. Dopo il primo periodo in cui passare del tempo con lui era stato a dir poco terrificante e pieno di domande senza alcuna risposta, ciò che mi aveva detto Juliette, mentre chiuse nella mia stanza mi preparavo al mio primo ricevimento, era diventato realtà.
Alexandre ed io ci eravamo in effetti affezionati a quella creatura così strana e particolare: anche Eleazar a suo modo ci voleva bene o comunque era quello che dimostrava e nonostante alcuni suoi strani modi di fare, ci rendevamo conto ogni giorno di più, che se egli se ne fosse andato, ne avremmo sofferto nello stesso modo in cui avremmo pianto per la perdita di una persona cara.
Eleazar veniva da noi tutti i giorni, tranne nei giorni di festa: non sapevamo cosa facesse quando non era con noi, non sapevamo se avesse una casa, una moglie, dei figli; in realtà di lui non conoscevamo nulla.
Ciò che ci insegnava ed il modo in cui ce lo insegnava comunque,era segno tangibile di una profonda e dettagliata conoscenza di ciascun argomento trattato, di ogni minimo aneddoto, data, re o regina, che si fossero avvicendati nel mondo fino a quel momento. Non avevo sentito mai nessuno esprimersi in quel modo ed ogni volta che lo ascoltavo era come se il tempo si fermasse, come se egli avesse vissuto quegli avvenimenti in prima persona; non avrei mai voluto smettere di ascoltare e quando le argomentazioni erano particolarmente interessanti gli chiedevo di continuare anche oltre l'orario stabilito ed Eleazar non mancava mai di accontentarmi: “Un giorno tutto questo vi sarà molto utile Mademoiselle.”, era una frase che usava ripetere spesso, ma non riuscivo ancora a capirne il senso più profondo.
“Jean,”, diceva ancora:”voi avete una grande brama di sapere e questo è per me fonte di grande soddisfazione.”
Quando pronunciava quelle parole con così tanta sincerità non potevo fare altro che ringraziarlo: “Il merito è tutto vostro, del vostro modo di esprimervi, così poco usuale e così denso di particolari. Riuscireste a farmi amare qualsiasi cosa anche la più triste o la più aberrante.”.
Un pomeriggio mentre ci spiegava dei grandi miti greci ne rimasi così affascinata da perdermi in immagini magnifiche solo ascoltando la sua voce, come se un narratore o un cantastorie mi guidasse per mano attraverso quei dolci sentieri. Non era la prima volta che mi accadeva e ciò che cominciavo a sentire dentro al mio cuore cominciava ad intimorirmi.
Ero completamente affascinata da quella creatura, non riuscivo ancora a definirla uomo, pendevo letteralmente da ciascuna delle parole che uscivano dalla sua bocca ed in alcuni momenti ero arrivata al punto di lasciare che la mia mente vagasse tra immagini che solo a pensarle mi facevano arrossire.
Quando mi capitava di pensare ad Eleazar in quel modo, chiedevo di poter uscire dalla stanza per un attimo, avanzando ogni volta una scusa diversa.
Nonostante tutti questi miei pensieri però, c'era un però: mi ero affezionata a lui, questo sì, provavo qualcosa per lui, altrettanto vero, ma in fondo al mio cuore il terrore ribolliva ancora e c'erano giorni, momenti, istanti che avrei voluto fuggire lontana da casa per non rivederlo mai più. Ecco questa era la più grande delle contraddizioni, ma avevo il sospetto che fosse stato lui stesso a creare questo legame in cui terrore e strane sensazioni convivevano in perfetto equilibrio: nonostante la paura, non riuscivo a stargli lontana.
Provai a parlarne con mio fratello, senza naturalmente fare parola di ciò che mi potavo nel cuore e con molta sorpresa scoprii che anche lui faticava a stare lontano dal nostro istitutore: Alexandre aveva per Monsieur Eleazar una venerazione tale che non una volta lo avrebbe deluso. Mai.
Quell'estate l'arsura si fece sentire parecchio e d'accordo con il marchese de Roubeaux, i nostri genitori ci mandarono a trascorrere un periodo di vacanza con Carline e Philippe, proprio in uno dei palazzi del marchese a nord di Parigi.
Ci accompagnavano Juliette e due dame di compagnia di Caroline. In quelle settimane, Eleazar chiese il permesso di far visita ad alcuni suoi lontani parenti e anch'egli partì: questo fatto era stato fonte per me, di profonda tristezza; fortunatamente solo Juliette se ne era accorta, ma la sua grande discrezione mi permise di farla passare per un malessere momentaneo.
La curiosità di sapere dove fosse andato era spaventosamente grande e mi ripromisi che al rientro avrei tentato di chiedergli qualcosa in più sulla sua vita: lo avrei fatto di nascosto da tutti, non era permesso ad una signorina fare domande inopportune al proprio istitutore, ma siccome era già abbastanza inusuale per una signorina averne uno, avrei fatto ciò che sentivo di dover fare, per avendo la consapevolezza che poi me ne sarei di fatto pentita per il resto dei miei giorni.
Il viaggio in carrozza trascorse sereno: Philippe animò la conversazione raccontandoci alcune delle bellezze che aveva visto a Londra durante una breve visita ud una parente della madre.
quando arrivammo, la bellezza della residenza estiva del marchese e della sua famiglia riuscì a sbalordirmi: il viale d'entrata era completamente immerso in una miriade di roseti dai mille colori, che facevano a loro volta da cornice a fontane zampillanti e statue raffiguranti personaggi antichi.
Ci accolse la servitù che ci aiutò a sistemarci ognuno nella propria stanza (chiamarla stanza era a dir poco riduttivo...), ed io approfittai per riposare un poco prima di cena.
Ero felice di essere in quel luogo, ma più che per me, ero contenta per Alexandre: ricordavo bene la luce che gli si era accesa negli occhi quando, nostro padre, ci aveva comunicato che saremmo partiti insieme a Philippe e Carline di lì a pochi giorni.
L'affetto profondo che entrambi nutrivano l'uno per l'atra stava lentamente mutando in qualcosa di molto, molto più potente e nonostante la nostra giovane età, la maturità d'animo con cui affrontavano questo sentimento di coglieva sempre più di sorpresa. Perché mai nella mia vita, avrei potuto pensare che mio fratello fosse in grado di sentire tanto per un altro essere umano che non fossi io. Ma questo fatto invece di infastidirmi mi faceva stare bene: vedere Alexandre teneramente legato a qualcuno era veramente un'immagine uscita da una delle favole che nostra madre ci leggeva quando eravamo piccoli.
Mentre ero persa in questi pensieri, sentii bussare alla porta.
“Sì, chi è?”, chiesi.
“Sono Juliette, mademoiselle. Mi è permesso entrare? Dovrebbe prepararsi per la cena di questa sera.”, mi disse senza aprire la porta.
“Entra Juliette.”, le risposi.
“Con permesso mademoiselle.”.
“Devo scegliere un abito Juliette ed avevo pensato a quello rosa, ma non so se sia indicato. Che cosa ne pensi?”, le chiesi.
“E' molto bello signorina e si adatta perfettamente alla serata. Monsieur Philippe ne sarà particolarmente felice.”, disse, ma si portò immediatamente la mano alla bocca e aggiunse contrita: “Oh scusate la mia insolenza signorina.”.
“Non ti crucciare Juliette. Credo anch'io che Monsieur Philippe sarà piacevolmente colpito dal mio abito, ma io non ho intenzione di lasciarlo camminare lungo sentieri impervi che lo porterebbero solo ad inutili sofferenze.”, le dissi tranquilla.
“Ho ben altro per la mente Juliette, ma sono pensieri così strani e sensazioni così forti, che mi fanno quasi paura. Ma soprattutto mi fanno vergognare di me stessa Juliette.”, dissi.
In quel momento, mentre pronunciavo quelle parole, mi fu tutto estremamente chiaro e ciò che era rimasto celato nei meandri della mia mente e nell'angolo più recondito del mio cuore, esplose in tutto il suo fragore provocando dentro di me un tumulto che mai avevo sentito prima.
“Mi concedete il permesso di parlarvi con franchezza, mademoiselle?”, mi chiese Juliette.
“Certo, mia cara.”, le risposi, segretamente curiosa di sapere ciò che aveva da dirmi.
Mi sedetti allo specchio e la guardai così intensamente, quasi volessi entrarle nella testa per carpire i suoi pensieri.
Juliette mi guardava con un'espressione indecifrabile sul volto, sicuramente stava cercando di trovare le parole giuste per non turbarmi.
“Vedete Jean,”, era la prima volta che mi chiamava per nome ed avevo la sensazione che ciò che stava per dirmi non mi avrebbe per nulla fatto piacere.
“So quello che sentite, conosco bene la luce che vedo nei vostri occhi quando incontrate Monsieur Eleazar. Ma Jean, ve ne prego, lui è solo un istitutore e non sapete nulla di chi sia. Nessuno lo sa: non i vostri genitori, non il marchese. Egli è arrivato a Parigi da un luogo lontano di cui nessuno conosce il nome, è arrivato per prendere il posto di colui che si occupava dell'istruzione del povero signorino François, il figlio scomparso del marchese. Si dice che il vecchio istitutore avesse raccomandato Monsieur Eleazar al marchese con una missiva, consegnatagli da Monsieur Eleazar stesso dopo che del vecchio istitutore si erano perse le tracce. Nessuno sa che fine abbia fatto, nemmeno la moglie o i figli... E così Monsieur Eleazar ne prese il posto e due anni dopo anche il figlio del marchese è sparito....”, Juliette si interruppe bruscamente, come se si fosse resa conto di aver parlato troppo o come se la voce le si fosse incastrata in gola. Poi sospirò e con calma riprese a parlare: “Sono molto contenta che voi e vostro fratello abbiate un buon rapporto con Monsieur Eleazar, ma vi prego, mantenetene le distanze, non lasciate che il vostro cuore vi condizioni.”, disse.
Ero basita, non capivo cosa quel discorso così accorato celasse: perché Juliette aveva così paura di Eleazar, perché la paura era l'unica vera sensazione che traspariva dalle sue parole. Cosa sapeva che io ed Alexandre non sapevamo?
Ci guardavamo attraverso lo specchio e ad un certo punto Juliette disse: “Mi avete permesso di parlare liberamente fino a questo momento, ho la libertà di esprimere un ultimo pensiero?”, chiese con riluttanza.
Ero rimasta così colpita da ciò che mi aveva detto che non potevo certo negarle di terminare il suo discorso e perciò le accordai il permesso di parlare: “Certo Juliette, parla pure.”.
“Grazie.”, mormorò e poi proseguì lentamente: “Mademoiselle, so che non sarà facile, ma provate, per il vostro bene e per quello di vostro fratello, a guardare Monsieur Philippe con altri occhi, lasciate che egli provi a bussare alla vostra porta e prendete in considerazione di valutare ciò che sia veramente meglio per voi, ma siate realista e non lasciate che Monsieur Eleazar vi offuschi la mente ed il cuore.”, concluse.
Rimanemmo in silenzio per lunghi ed infiniti istanti, ero preda della confusione più inestricabile e nella mia testa le ultime parole di Juliette erano lame di coltello conficcate nella carne una alla volta e molto lentamente.
Mentre Juliette, in silenzio, mi aiutava ad indossare l'abito che avevo scelto, molte erano le domande che si avvicendavano dentro di me: la prima e la più fondamentale era dove Juliette si fosse procurata tutte quelle informazioni; non glielo avrei chiesto, lei si era confidata con l'intenzione di proteggermi, quindi le dovevo gratitudine. Ma che cosa dovevo fare ora? Ciò che albergava nel mio cuore non era confuso, né leggero, bensì era limpido e terso come poteva esserlo il cielo in primavera. Ciò che sentivo era autentico, anche se non così forte come quello che Alexandre nutriva per Caroline, ma fino a quel punto non ci sarei mai arrivata, ne ero certa. Avevo troppa paura di quella creatura ed era quella stessa paura a frenare i miei sentimenti. Sentimenti che alla luce di quelle parole, non sarebbero mai stati ricambiati.
Dopo aver indossato il vestito, mi accomodai sullo sgabello per permettere a Juliette di pettinare i miei lunghi capelli, mentre la osservavo muovere velocemente le sue dita fra le ciocche, mi lasciai sfuggire un lungo sospiro: Juliette si fermò per un istante e mi guardò nel riflesso dello specchio.
Cercai di raccogliere le idee e chiusi gli occhi per un attimo: quando li riaprii decisi che avrei detto qualcosa, ma non sapevo sinceramente da dove cominciare, anche se ero profondamente convinta che Juliette si aspettasse un rimprovero in grande stile più che un qualcosa di pacato.
Invece la presi completamente in contropiede.
“Hai ragione Juliette, come sempre.”, cominciai: “Monsieur Eleazar è e resterà solamente il mio istitutore. Troppi sono i particolari che mi hai fornito questa sera e sui quali dovrò impormi di riflettere lungamente. Troppi i buchi sul passato di questa persona,perché io possa fidarmi di costui: non potrei mai permettermi di infliggere una tale pena ai miei genitori. Ma Juliette non posso prometterti che permetterò a Philippe di farmi la corte. La sua compagnia è piacevole e molto discreta, ma non credo che sarò mai in grado di accettare di andare oltre una sincera amicizia. Mi capisci Juliette?”, serrai le labbra in attesa di una sua risposta.
“Certo che vi capisco mademoiselle e vi chiedo scusa per tutto ciò che vi ho detto questa sera, non ne avevo alcun diritto. Ma confido nel fatto che saprete ritrovare l'equilibrio e forse allora riuscirete a vedere Monsieur Philippe con altri occhi.”, disse con un tono di voce pieno di approvazione.
“Sì, credo che possa essere possibile Juliette, ma per esserne veramente certa dovrò prima di tutto rientrare a Parigi e rivederlo.”, dissi, poi riflettei per un istante e conclusi il mio pensiero: “Però Juliette una promessa desidero fartela. Prometto che non mi farò prendere dalla tristezza in questo periodo e che godrò di ogni singolo istante, completamente. Davvero Juliette, è una promessa.”.
“Grazie Mademoiselle, questo è il più bel regalo che potevate farmi.”, disse.
Un ticchettio regolare sulla porta ci ricordò, ad un tratto, che la cena era quasi pronta. Fuori dalla porta stava proprio Philippe, visto che mio fratello aveva dirottato la sua attenzione altrove.
“Mademoiselle de Moreaux, posso accompagnarvi in salone? La cena è servita.”, mi chiese in tono divertito.
A Philippe piaceva essere galante, fin troppo alle volte, ma quella sera non avevo voglia di pensare a nulla, né di fare inutili congetture e quindi gli risposi a mia volta: “Sarebbe un onore Philippe scendere al suo fianco. Solo un istante e sarò da voi.”.
“L'aspetterò.”, disse.
Mi diedi un ultimo sguardo allo specchio e Juliette con evidente soddisfazione, mi fece cenno che tutto era in ordine, poi diede un ultimo ritocco alla coda dell'abito e mi invitò ad uscire dalla stanza. Non appena aprii la porta vidi Philippe arrestare il suo sguardo su di me, come se avesse visto una dea scendere dall'olimpo: il suo sguardo mi mise quasi in imbarazzo e lui forse accortosi della sua scortesia, si riprese immediatamente e disse: “Mademoiselle, voi siete bella in ogni istante della giornata, ma permettetemi di dirvi che questa sera siete a dir poco meravigliosa, rilucete perfino.”.
Prima di giungere alle scale rallentò il passo e si soffermò per un istante a guardarmi negli occhi e poi ricominciando a camminare disse, a voce così bassa che faticai a sentire: “Mi avete tolto il fiato, Jean.”.
A quel punto feci finta di non aver sentito, ma per non metterlo nella condizione di dover ripetere quella frase accennai ad un sorriso di ringraziamento nella sua direzione.
La cena, quella sera, fu cordiale e semplice: avevamo lasciato a Parigi i rigori dell'etichetta, che se a casa nostra esistevano solo in alcune circostanze, dovevano essere invece rigorosamente osservate in ogni casa di nobile che si rispettasse.
Con mia somma gioia vidi Alexandre abbandonare completamente la sua timidezza per dare sfolgorante dimostrazione della sua solare personalità.
Non appena la cena fu terminata i nostri cavalieri ci invitarono a seguirli in giardino per una passeggiata: Caroline ed io accettammo con gioia e al loro braccio ci dirigemmo verso l'esterno attraverso l'enorme porta finestra che dal salone portava direttamente ai roseti che seguivano il viale d'ingresso.
Era una serata piacevole e per nulla afosa: ad un certo punto Alexandre e Caroline si diressero verso una lieve pendenza che portava ad un piccolo chiostro coperto dove ci si poteva accomodare per gustare della limonata fresca.
Desideravo lasciarli soli e cercai l'approvazione negli occhi di Philippe, che più che felice per sua cugina era felice per se stesso.
“Siete stato molto gentile ad assecondarmi. Desidero solo che mio fratello e Caroline possano godere di qualche istante d'intimità. Grazie.”, gli dissi con riconoscenza.
“Posso parlarvi liberamente?”, chiese con lo sguardo di chi stava volutamente trattenendo parole e gesti per evitare di ferirmi.
Se solo gli avessi permesso un passo in più, il suo proposito avrebbe vacillato e in quel momento non avevo bisogno di complicazioni.
“Un'altra volta Philippe. Siate gentile.”, gli risposi
“Come desiderate mademoiselle.”, mi disse in tono rilassato e per nulla contrariato: “Ma venite con me, desidero mostrarvi una cosa. Sonò sicuro che vi piacerà.”.
Philippe, senza che io potessi ribellarmi, mi prese per mano e mi condusse per uno dei viali alberati fino ad un piccolo giardino circondato da siepi alte tanto quanto l'altezza di due persone. Al centro un piccolo edificio con grandi vetrate e tante, tantissime rose bianche a fargli da cornice.
Mi fermai un attimo stupita da quella visione così particolare, ma così singolarmente bella che volli osservarla da lontano per carpirne ogni particolare.
Philippe si accorse della mia sorpresa e disse: “Non è ancora finita. Il bello è proprio lì dentro.”, e mi trascinò letteralmente verso il piccolo edificio.
Entrammo ed in effetti Philippe aveva ragione, la mia sorpresa aumentò vertiginosamente.
“Ma dove siamo? Che cos'è questo posto!”, dissi guardandomi intorno.
Un numero considerevole di quadri meravigliosi dominava la scena, l'arredamento molto ben curato, ma tutt'altro che lussuoso, lasciava che fossero loro e soltanto loro, quelle meravigliose opere a rubare l'attenzione di chi arrivava.
La voce di Philippe mi riportò alla realtà: “Sono molto felice che questo posto vi piaccia. Qui la marchesa, mia zia, raccoglie opere di artisti promettenti e ne godeva in ogni momento libero prima che François se ne andasse.”, disse.
“Deve essere stato un colpo tremendo per i vostri zii perdere il loro figlio maschio.”, dissi con lo sguardo rivolto verso i quadri.
“Già,”, disse: “e per di più in quel modo.”.
“Cosa intendete dire con “in quel modo”?”, gli chiesi senza troppi giri di parole.
“Su via Jean, non vorrete farmi credere che non vi è giunto all'orecchio alcun pettegolezzo a tal proposito.” chiese (ma più che una domanda era una considerazione!), con sguardo indagatore.
“Veramente no.”, ribattei. Mentivo.
Mentre Philippe si apprestava a cominciare il suo racconto, uno dei dipinti attirò la mia attenzione. Mi avvicinai per vedere meglio ed ormai la voce di Philippe non era che un lontano e stanco ronzio: lo lasciai lì senza che potesse dire o fare niente, quel quadro dai colori caldi e sgargianti mi stava attirando a sé come una calamita ed allo stesso tempo sentivo lo sguardo sbalordito di Philippe su di me.
Ciò che avevo visto in quel dipinto però cercava conferme che in realtà speravo ardentemente di non trovare nemmeno con una visione più ravvicinata. Ma più arrivavo vicino alla meta e più il mio timore si faceva reale: rimasi immobile e terrorizzata di fronte a quel quadro, il respiro incastrato nei polmoni, avevo la sensazione che tutto mi stesse girando intorno. Mi sentii mancare.
“Jean, Jean. Cosa vi succede? Vi sentite male?”, mi chiese in tono preoccupato Philippe, che era riuscito ad afferrarmi prima che rovinassi a terra.
“Scusatemi Philippe! Credo sia stato solo un capogiro, probabilmente sarà la stanchezza dovuta al viaggio. In effetti non sono riuscita poi a riposare così bene dopo il nostro arrivo. Vorrei rientrare, se non vi dispiace.”, dissi con un filo di voce.
“Ma certo. Venite Jean, torneremo qui in un altro momento, quando vi sarete rimessa. Siete d'accordo?”, mi chiese Philippe.
Annuii in silenzio, non sapevo ancora se avrei avuto il coraggio necessario per tornare in quel luogo, ero così spaventata che in quel momento non ero in grado di pensare ad altro che al mio letto.
Arrivati a palazzo, ringraziai Philippe per la sua gentilezza e mi congedai velocemente insieme a Juliette che mi aspettava. Alexandre lo avrei informato io stessa la mattina dopo di quanto era successo: al momento il mio fratellino era ancora impegnato con mademoiselle Caroline in biblioteca.
Juliette, che mi aveva prontamente presa in consegna, mi accompagnò nella mia stanza e mi aiutò a mettermi a letto.
“Desiderate bere qualcosa di caldo mademoiselle?”, mi chiese gentilmente.
“No Juliette, grazie. Vai a dormire anche tu, hai l'aria stanca.”, le dissi.
“Grazie. A domani allora mademoiselle.”, e sparì attraverso la porta.
Rimasi sola con i miei pensieri: l'immagine di quel quadro era rimasta ben impressa nella mia mente. Quel dipinto era uno tra i più vecchi della collezione, portava la firma del pittore e sotto di essa la data: 1256. Non sarebbe stato per nulla strano, se in quel quadro non vi avessi visto Eleazar.
Quella notte non riuscii a chiudere occhio, ogni volta che avevo la sensazione che finalmente il sonno arrivasse per rapirmi, l'immagine del volto di Eleazar riprodotta fedelmente in quel dipinto tornava a tormentarmi.
Avevo bisogno di parlarne con Alexandre e subito, ma non sapevo come fare: tutti i miei antichi timori su di lui avevano ancora una volta fatto capolino, ma ora con prepotenza, per riempirmi la testa e non solo quella.
I dubbi però lasciavano spazio alla speranza, non poteva essere lui, dovevo essermi sbagliata, ma i tratti del viso, la corporatura, il sorriso sfavillante ed il colorito pallido come la morte. Rabbrividii.
Non potevo crederci; no probabilmente avevo visto male, in fin dei conti non mi ero avvicinata abbastanza da poter osservare con attenzione, ne avevo visto l'insieme, questo sì, ma non i particolari: quello strano gruppo di persone ritratto ai bordi di un fiume in un magnifico pomeriggio di sole,sembravano tra l'altro, splendere.
Mi chiedevo se stavo impazzendo o se fosse stata la cena a farmi male.
Sì, l'unica soluzione percorribile era parlarne con Alexandre, ma non in quel luogo e quindi non in quel momento, l'avrei fatto a tempo debito, ma prima dovevo assolutamente tornare in quel luogo e rivedere quel quadro e l'avrei fatto presto, questo era l'unico fatto certo, ma prima avrei dovuto carpire tutte le informazioni che Philippe era in grado di darmi e metterle a confronto con quanto mi aveva già raccontato Juliette, che per la verità era ben poco.
Era quasi l'alba, mi stesi nuovamente tra le lenzuola e finalmente al primo chiarore il dolce ed agognato torpore mi fece sua preda.
Mi svegliai poco più tardi di soprassalto, madida di sudore e nuovamente terrorizzata; riguadagnai la calma a poco a poco, la stanchezza per la notte trascorsa insonne mi attanagliava la testa, ma dovevo cercare di far finta di nulla e dovevo cercare la maniera migliore per estorcere a Philippe tutto ciò che sapeva.
Juliette come ogni mattina servì la colazione nella mia stanza, mi aiutò a vestirmi e poi si ritirò; io scesi in giardino dove all'ombra di alcuni salici Carlone mi accolse con un sorriso.
“Buongiorno Jean. Avete riposato bene?”, mi chiese.
“Sì, meravigliosamente.”, mentii. Sembrava che non avesse ascoltato perché immediatamente esordì dicendo: “Vostro fratello è un vero gentiluomo. E' così caro.”, mi disse.
Intuii da quella frase che Philippe era stato così gentile e riservato da non fare parola con alcuno del mio malore della sera precedente. Sorrisi a quel pensiero e nello stesso istante risposi di buon grado a Carline che era in evidente attesa delle mie parole.
“Sono molto felice per voi Carline. Con voi Alexandre riesce a dare il meglio di sé. E' un timido di carattere, ma voi siete riuscita a far uscire fuori la sua solarità e di questo ve ne sarò per sempre grata.”, le dissi.
“Non sapevo se ne sareste stata contenta, sapete. Si insomma di questo nostro legame.”, continuò ancora Caroline.
“E perché no, mia cara? Io amo mio fratello ed il mio unico desiderio è che egli sia felice e che realizzi tutti i suoi sogni, anche quelli più piccoli od insignificanti. Quindi quello che c'è tra di voi non può che farmi contenta.”.
Le mie parole rasserenarono il volto di Caroline, che molto probabilmente mi aveva attesa in giardino di proposito, proprio per parlarmi di questa questione. Ma avevo la netta impressione che avesse ancora qualcosa da dire. Eravamo sedute una di fronte all'altra, come due vecchie amiche, la osservavo, la sua bellezza eterea era stata il motivo principe che aveva indotto mio fratello a fare il primo passo.
Poi piano piano si erano conosciuti ed un giorno dopo l'altro, un mese dopo l'altro avevano capito che quella dolce amicizia stava diventando qualcosa di più: Alexandre non ne aveva fatto parola con nessuno se non con me, l'unica che sapeva si sarebbe portata il segreto nella tomba se fosse stato necessario.
“Amo vostro fratello Jean.... Per lui farei qualsiasi cosa, lo seguirei ovunque fino in capo al mondo. Mi capite vero?”, chiese in tono alquanto preoccupato.
Le sorrisi ed annuii. Sapevo che per mio fratello era la stessa cosa: il sentimento che egli provava per Caroline era profondo e definitivo, almeno così lui lo definiva.
“Avrete sempre il mio appoggio incondizionato qualsiasi siano le vostre decisioni Caroline. Immagino fosse questo che volevate sentirvi dire e penso che vogliate mantenere il segreto ancora per qualche tempo. Non è così forse?”, le chiesi.
“Sì Jean è così. Desideriamo vivere questo nostro legame ancora all'ombra della riservatezza. Almeno per un po'; se ne facessimo parola con le nostre famiglie ora, probabilmente ci imporrebbero il matrimonio e noi pensiamo che sia ancora troppo presto.”.
“Non temete Caroline, il vostro segreto è al sicuro nel mio cuore.”.
“Grazie Jean. Ora anche io ho qualcosa per cui esservi grata.”.
Continuammo la nostra conversazione parlando di argomenti più frivoli: non ebbi naturalmente il coraggio di chiederle del fratello, le avrei arrecato troppo dolore ed Alexandre mi aveva riferito che lei non aveva ancora del tutto superato il dolore per quella perdita.
Dopo circa un'ora anche Philippe e mio fratello ci raggiunsero, erano di ritorno da una cavalcata.
“Signorine. Buongiorno. La vostra mattinata è trascorsa serenamente?”, chiese Philippe ad entrambe, ma con lo sguardo puntato verso di me.
“Certamente. La compagnia di Jean è indiscutibilmente molto interessante.”, gli rispose Caroline.
“Buongiorno Jean. Buongiorno Caroline.”, salutò a sua volta Alexandre e aggiunse: “Sorella mia come stai sta mattina? Juliette mi ha informato che non ti sei sentita bene.”.
“Non preoccuparti mio caro. Sto bene, probabilmente è stata solo un po' di stanchezza.”, risposi evasiva.
“Scusatemi tanto Jean... non sapevo che non foste stata bene. Non consideratemi un'insensibile.”, disse Caroline con aria mortificata.
“Non potrei mai e poi non potevate sapere. Comunque la cosa si è risolta con un buon sonno.”.
Philippe mi guardava con l'espressione di chi non credeva ad una sola parola di quelle che aveva ascoltato: sapevo che prima o poi sarei stata costretta a parlarne con lui.
I giorni e le settimane passavano veloci tra gite in barca, pomeriggi trascorsi a leggere o a dipingere e lunghe passeggiate. Ma io non avevo abbandonato la mia idea: prima di tornare dovevo scoprire tutto ciò che potevo su chi fosse in realtà il mio istitutore. La compagnia di Philippe, sempre discreta e per nulla invadente, era sempre più piacevole e visto come si stavano mettendo le cose tra di noi, un pomeriggio di pioggia trovai il coraggio di chiedergli di portarmi nuovamente a visitare la collezione della marchesa.
Mancavano due settimane al rientro a Parigi e non mi era più permesso tergiversare.
“Siete sicura di volerci tornare?”, mi chiese Philippe.
“Si Philippe, vorrei godere della bellezza di tutte quelle opere almeno una volta prima di rientrare a Parigi. Ed in vostra compagnia se non vi dispiace: credo abbiate molto da raccontare su ognuno di quei quadri.”.
Rise sommessamente di quella mia affermazione e disse: “Beh in effetti ho ancora qualcosa da raccontarle no!”.
Annuii. Sapevo benissimo a cosa stesse alludendo ed era proprio dove io volevo arrivare: desideravo più di ogni altra cosa, tornare a Parigi con le idee chiare, volevo tornare ad incontrare Eleazar conoscendo più particolari possibili sulla sua vita, anche se, in tutta sincerità, disperavo di ottenere rivelazioni eclatanti o diverse da quelle che già mi aveva fornito Juliette.
Era un dato di fatto: di Eleazar non sapevo nulla o quasi, l'unica cosa certa era che fosse apparso dal nulla in un giorno d'inverno e che da quel momento né il marchese prima, né mio padre poi, erano stati più capaci di fare a meno dei suoi servigi. Ero terribilmente spaventata di tornare in quel luogo e di rivedere quell'immagine, ma dovevo lasciare da parte le mie paure per vedere ed ascoltare; dovevo chiarire una volta per tutte, anche se in fondo al mio cuore speravo di essermi sbagliata.
Quel pomeriggio, appena la pioggia si fece meno intensa, lasciammo Caroline ed Alexandre assorti nella lettura, in biblioteca e ci dirigemmo verso quel giardino.
Arrivammo appena in tempo: ci richiudemmo la porta alle spalle mentre fuori si scatenava un temporale memorabile. Il cielo divenne nero come la pece, una miriade di fulmini si adoperava per squarciare quel velo tanto cupo e altrettanti tuoni facevano sussultare il mio cuore, ma durò tanto quanto il tempo di un giro di note sulla tastiera del pianoforte.
Mentre il temporale terminava e la luce tornava nuovamente a farsi strada tra i nuvoloni pesanti di pioggia, la voce di Philippe pose fine a quel fragoroso silenzio.
“Per fortuna, appena in tempo. Speriamo che al ritorno non ci sorprenda un altro temporale.”, disse guardando attraverso le ampie vetrate.
“Poco male,”, risi,”ci inzupperemmo gli abiti ed al massimo potremmo rischiare un raffreddore, ma ne sarebbe valsa le pena, non credete?”, gli risposi voltandomi verso quella meravigliosa collezione di opere pittoriche.
“Godere di tanta bellezza.....,”, disse rivolgendo lo sguardo più verso di me che verso quei meravigliosi quadri: “Avete ragione, ne varrebbe veramente la pena.”.
Arrossii un poco e mi voltai appena in tempo per non farmi notare.
Mi avvicinai per osservare ad uno ad uno quei dipinti, ma prendendo la strada più lunga per arrivare a quello per cui ero venuta: c'erano alcuni meravigliosi paesaggi, prati fioriti di mille e mille colori e poi alcuni ritratti di personaggi sconosciuti, ma che sapevano rapirti tanto era la loro bellezza.
Li osservavo, ognuno con rigore ed attenzione, non volevo dare a vedere che solo uno di quei quadri mi interessava veramente.
“Desiderate della limonata, Jean?”, mi chiese Philippe venendomi incontro con due bicchieri in mano.
“Grazie Philippe, molto volentieri.”, risposi ed egli con un gesto veloce mi porse il bicchiere e dopo averlo depositato nella mia mano, afferrò l'altra con decisione, stringendola dolcemente nella sua.
Non rimasi sorpresa da quel gesto anzi, era quasi come se lo aspettassi, come se lo avessi sperato. Nelle ultime settimane avevo imparato ad apprezzare quel giovane uomo così educato e così gentile: era riuscito piano piano a mostrarsi per ciò che era; una persona determinata e volenterosa che accettava di buon grado la sua nobiltà, ma che voleva farne anche buon uso per cercare di cambiare le cose, perché a suo dire molto c'era da fare nel nostro paese e nella politica praticata da chi lo guidava.
Ma quello non era il luogo in cui desideravo ancora disquisire di politica, quel pomeriggio eravamo lì per un altro motivo.
Mano nella mano Philippe mi guidava attraverso la grande stanza, insieme osservavamo ogni quadro, bramosi di saziare la nostra curiosità, più mia che sua in verità. Ad ogni nuovo dipinto il mio accompagnatore narrava aneddoti che la marchesa, sua zia, a sua volta gli aveva raccontato, ma più ci avvicinavamo a quel quadro, più mi sentivo ribollire, il terrore era una strana sensazione che mi riempiva ad una ad una ogni vena ed arteria che conducesse al mio cuore ed oltre e quando finalmente me lo trovai di fronte, un brivido mi percorse tutta. Proprio nel momento in cui mi apprestavo ad osservarlo finalmente da vicino, Philippe disse: “Volete o no ascoltare ciò che è successo a mio cugino François?”.

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