Se J.Edgar di Clint Eastwood fosse un romanzo, sarebbe un mattone di 800 pagine. Di quelli biografici belli massicci, che danno molto per scontato, con quel profumo anacronistico che fuoriesce dalle pagine giallognole. Uno di quei libri strutturato in capitoli pesanti, non privi di oggettive e palesi lentezze, che saltano zigzagando tra presente e passato con fare gaio e gagliardo. Ma c’è una strana forza d’inerzia che, nonostante una certa sonnolenza diffusa, ci spinge ad andare avanti, speranzosi di un turning point che speriamo e giudichiamo inevitabile. Il coup de theatre c’è, ma bisogna pazientare ben un’ora e mezza, per poi scivolare con maggiore agilità verso un finale a sorpresa che apre gli occhi e fa acclamare al capolavoro. Ma basta un ottimo finale a salvare la baracca? No, la risposta è no. Purtroppo. E non è neppure sufficiente campare su scene di forte impatto emotivo come l’en travesti in abito lungo e collanina di Di Caprio, l’ “ultima cena” con l’amato Clyde, il “galeotto fu il fazzoletto – come in Otello – e chi lo strinse”, ed altre ancora.
Tutto questo va detto, senza sconti, nel giudicare l’ultima fatica di Clint Eastwood. E in realtà ad essere affaticato sembra proprio lui: l’ex ispettore Callaghan. Come già emerso in Hereafter, anche J.Edgar denuncia grosse pecche nel ritmo narrativo e non c’è quel pathos posseduto da Changeling, pellicola con la quale, seppur con toni più invecchiati e meno brillanti, condivide la fotografia fuligginosa.
Discutibile inoltre la performance del cast artistico in toto. Leonardo Di Caprio è senza dubbio bravo nell’impersonare un uomo duro e puro, ma è lecito chiedersi se fosse davvero l’attore giusto per questa parte. Così Naomi Watts ci appare freddina, frigida, come una bambolina di porcellana resuscitata da un cassone di giocattoli accantonato in soffitta. Raggiunge invece una salvezza più sicura Judi Dench, forte del suo sguardo severo e glaciale, che le garantisce una prova solenne e pungente. Tutti però sembrano cosparsi di quella brina ghiacciata che avvolge l’atmosfera del film confinandola come in un abito stretto e (in)gessato, incartapecorito, come in un presepe vivente di statuine del museo delle cere.
A condire il tutto con qualche goccia di veridiana, ci pensa una colonna sonora quasi tutta al pianoforte tanto poetica quanto fragile, moribonda, gracilina nel suo flemmatico incedere.
E’ dunque la fine, o meglio il declino, di un grande regista? No, questo no. Senza dubbio sono lontani i tempi della perfezione di Mystic River o Million Dollar Baby. J.Edgar è un passo falso che non possiamo non segnalare. E la sincerità del giudizio va di pari passo con una lacrimuccia nei confronti di questo grande vecchio (81 anni!) del cinema americano.
Il dispiacere e l’essere questa pellicola una madornale nota stonata nella sua filmografia sono ancor più palpabili se consideriamo che in tempi non remoti Eastwood è stato capace di realizzare una magistrale visione della battaglia di Iwo Jima dal punto di vista di due fronti opposti (quello americano in Flags of our Fathers e quello giapponese in Lettere da Iwo Jima) e che alla sceneggiatura si è avvalso di un “esperto” come Dustin Lance Black, sceneggiatore di un altro film biografico di successo quale è Milk di Gus Van Sant.
Tra i pregi del film c’è però da sottolineare l’aver voluto realizzare con crudo realismo un’opera critica sulla storia americana, parlando senza mezzi termini di dannati comunisti, sparando sul movimento di Martin Luther King, ecc. E l’aver scelto di citare più che raccontare, poiché lasciati in secondo piano, grossi eventi come l’assassinio di JFK o l’uccisione di John Dillinger, puntando invece (quasi) tutto sul grande caso del rapimento di Lindbergh junior.
Tre note a margine:
- Da non perdere la breve, intensa e rovinosa immagine che J.Edgar ci consegna del presidente Nixon, che con una sola battuta (che non rivelo!) ci appare come un ometto laccato, volgare e insensibile.
- Forse è meglio vedere questo film in lingua originale, perché il doppiaggio italiano di Edgar da vecchio è forzato, “ronzante”, ridicolo, fastidioso già dopo 5 minuti…
- Fa storcere il naso pure la cura del trucco degli attori, in particolare quello applicato al volto di Armie Hammer che interpreta un Clyde Tolson old che sembra più un ustionato di ennesimo grado che un anchilosato vecchietto.
In un Tweet: Finale di sicuro effetto, cruda biografia di un “caso umano” americano, scene madri a (non) rianimare un corpo freddo. Tutto il resto è noia.