La Shoah è ancora una ferita aperta e profonda nella storia dell’Europa e del mondo, e questo è un fatto inoppugnabile. Molte sono state, del resto, le elaborazioni artistico-letterarie: per rimanere alla cinematografia, il mezzo che forse più di tutti ha creato immagini archetipiche, si va da Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg a Il pianista (2002) di Roman Polanski, passando per il documentario-fiume di Claude Lanzmann, Shoah (1985), dalla vicenda editoriale e distributiva travagliatissima, fino al delicato The Reader (2008) di Stephen Daldry e allo sconvolgente A Film Unfinished di Yael Hersonski.
Su questa scorta, una performance al Jewish Museum sta facendo discutere non poco. Jew In The Box, infatti, vede alternarsi uomini e donne ebrei, seduti all’interno di una “scatola” di vetro per due ore al giorno, a rispondere alle domande che i visitatori vorranno porre loro.
Alla base di questa “scatola” una domanda che suona come: «Ci sono ancora ebrei in Germania?»
Come sempre in questi casi, il pubblico e la critica si dividono nettamente tra entusiasti della prima ora e detrattori convinti. Tra i primi ad esprimere scetticismo, per non dire di più, Stephen Kramer, importante esponente della comunità ebrea, che avversa la spettacolarizzazione di un popolo creata dalla performance.
Ai nostri giorni, sembra ormai acquisito come l’arte abbia definitivamente superato e distrutto i legacci del realismo, per accedere a un nuovo iperrealismo, dato in massima parte da due fattori complementari: la progressiva apertura degli spazi espositivi a location diverse e spesso eterodosse, e la partecipazione diretta del pubblico al “farsi” dell’opera. Questo dovrebbe bastare.
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