Le ultime battute della regular season hanno portano in scena, come ogni anno, i dibattiti sui premi individuali che la NBA assegna ai migliori giocatori dell’anno. Mentre la stampa a stelle e strisce ha cavalcato il duello fra Kevin Durant e LeBron James per il titolo di MVP, gli addetti ai lavori hanno sottolineato con estrema regolarità i meriti difensivi di un atleta diverso da tutti gli altri: il figlio di una leggenda del tennis francese e di Miss Svezia 1978, un ragazzo che adora le etichette perché gli danno una ghiotta opportunità di sgretolare la patina ipocrita dell’Occidente, un uomo che vive la sua esperienza fra i pro incarnando le idee di devozione totale del suo bizzarro allenatore. Monsieur Joakim Noah.
Se i Chicago Bulls sono riusciti a sopravvivere al secondo grave infortunio di Derrick Rose e alla cessione di Luol Deng senza sprofondare nell’orrenda melma del tanking, buona parte dei meriti devono essere attribuiti all’approccio di Tom Thibodeau e all’esempio del figlio di Yannick, che ha raggiunto un equilibrio mentale straordinario e si è trasformato nel catalizzatore di un gruppo pieno di voglia di dimostrare alla Lega tutto il suo valore. All’inizio della stagione, la critica americana considerava Noah un ottimo giocatore di complemento, ma temeva che il suo straripante atletismo si sarebbe logorato nel corso degli anni: la fascite plantare e i primi fastidi della scorsa stagione erano indizi preoccupanti del logorio di un fisico che non negava mai al generale della panchina il suo impegno massimo. L’avvio non esaltante dei Bulls ha raggiunto il parossismo quando Derrick Rose è finito KO per la seconda volta. Quella sventura ha convinto la società a cambiare rotta: la cessione di Deng e le chiacchiere su Boozer spingevano Thibodeau verso la graticola del tanking, ma il vecchio Tom non poteva accettare una realtà del genere.
Joakim – che ha una cultura molto diversa da quella del suo condottiero, ma apprezza la sua integrità – ha capito che la rabbia del coach avrebbe aperto prospettive interessanti: si è caricato, ha eliminato gli isterismi, ha dimostrato ai suoi compagni che lo spogliatoio aveva le risorse per contraddire sul campo le mosse della dirigenza. Da quel momento, il vento di Chicago cambia completamente: D.J. Augustin segna tutto quello che gli passa per le mani, Jimmy Butler guida la classifica dell’utilizzo e sprizza grinta da tutti i pori, Mike Dunleavy si scopre guerriero e torna agli anni d’oro di Duke, Boozer e Gibson dimenticano i rumors di mercato e alternano i loro talenti in posizione di ala forte, Kirk Hinrich gestisce la macchina come un metronomo.
Due costanti fanno lievitare le azioni dei Bulls: la solidità della difesa e l’ubiquità di Joakim Noah. Da febbraio in poi, il francese ha messo a referto quattro triple doppie e ha mandato in archivio i record dei migliori centri passatori degli ultimi anni: dopo il Kirilenko, il mondo NBA dovrà presto coniare una nuova categoria statistica, il Noah. Joakim è nato per spaccare gli schemi dell’Occidente, ma esegue i giochi dei Bulls come l’anima di Thibodeau: difende con grande competenza contro i lunghi dominanti, chiude a doppia mandata l’area, aiuta e recupera come nessun altro lungo – solo Kyle Hines si avvicina ai suoi livelli, ma con 15 centimetri in meno sul groppone e gli atleti dell’Eurolega di fronte –, prende o tocca tutti i rimbalzi, si tuffa in ogni angolo e, quando Chicago controlla il possesso, piomba a tutta velocità dall’altra parte poiché è il vero playmaker della squadra. Hinrich si appoggia a lui per creare pick-n-roll letali con gli esterni più pericolosi o per aprire spazi di taglio alle ali: Joakim riceve e pensa subito a generare vantaggi per i suoi compagni. Il suo tiro non è una minaccia, ma i suoi occhi e le sue mani vedono quello che solo i geni riescono a scorgere.
La sua voglia non si spegne mai: è il centro dell’energia dei Bulls, non c’è alcun rimbalzo offensivo che non abbia il suo zampino. Purtroppo per lui – e per il gioco – non ha ancora abbastanza impatto mediatico per entrare nel novero dei potenziali MVP, ma la sua stagione meriterebbe molto di più del semplice premio di Defensive Man of the Year che si è portato a casa (ha preso 555 dei 1125 voti possibili e ha vinto davanti a Roy Hibbert degli Indiana Pacers (166) e DeAndre Jordan dei Los Angeles Clippers (121)), diventando il primo giocatore dei Chicago Bulls a vincere il premio da Michael Jordan nel 1988.
Saranno i Playoffs a premiarlo?