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Oggi, com'è iscritto nella nostra cultura di massa, il fantastico Marte (Barsoom) dei romanzi di Edgar Rice Burroughs deriva da due fonti, non una. Non solo dunque i romanzi di Burroughs con la loro wild fantasy che ispirerà prima “Flash Gordon” e poi “Star Wars” (ci sono aeronavi e raggi della morte, ma quando si arriva al redde rationem col cattivo non c'è niente di meglio di un bel duello alla spada). La seconda fonte sono le illustrazioni realizzate per gli stessi romanzi da Frank Frazetta (e altri minori), che concretizzano una batteria visuale di immaginazione grafica ormai canonica, che fa da paratesto.
Dunque portare sullo schermo il Marte di Burroughs - come fa “John Carter”, tratto da “A Princess of Mars” (1912) - significa fare i conti non solo con il testo del romanzo ma anche con tutta la tradizione grafica. Evidentemente ciò costituiva un'attrattiva particolare per il regista Andrew Stanton, che con questo film passa dal cartone animato (“WALL-E”, “Alla ricerca di Nemo”, “A Bug's Life”) alla fiction dal vero.
Sotto molti aspetti il suo “John Carter” è un film rinfrescante. Assomiglia molto di più ai vecchi film di cappa e spada del passato che all'action ipercinetica d'oggi. Si prende il suo tempo, si consente squarci quasi lirici; presenta una storia d'amore più articolata che nell'action contemporanea; sebbene ricco di azione fisica, rifiuta di metterla al primo e unico posto: gli scontri sono numerosi ma non prolungati. Vanta anche una buona dose di fedeltà nell'adattamento, cosa che oggi non è più di moda.
Trasferito come per magia dal West su Marte, John Carter, ex cavalleggero nella guerra civile, viene per così dire adottato da una tribù di Tharks, selvaggi verdi alti tre metri con quattro braccia. Poi salva una principessa barsoomiana di razza “umana” che incidentalmente è anche una scienziata. Lei gli dà certe occhiate eloquentissime, ma lui è ancora legato al ricordo della moglie morta. I loro rapporti non saranno proprio sophisticated comedy ma sono spiritosi; nel modo in cui lui la chiama “professore” c'è tutta la diffidenza ironica dell'uomo del West per uno scienziato e per di più donna.
Gli sceneggiatori, tra cui Stanton, si divertono a tracciare la cultura dei nobili (più o meno) selvaggi verdi, nei quali si ritrova il riflesso degli Apaches che compaiono nell'inizio western (una traccia presente già in Burroughs). Va detto che i Tharks si rifanno agli indiani d'America in modo molto meno melenso che gli alieni blu di Cameron (“Avatar”). Buona la loro resa in in CGI, che li rende credibili e vivi; quella del capo Tars Tarkas e di sua figlia Sola - ai quali danno la voce addirittura Willem Dafoe e Samantha Morton - è vera recitazione. Anche se i Tharks del film sono un po' smilzi rispetto, appunto, alla tradizione frazettiana.
Qui entra in taglio un'osservazione. Parte fondante di questa tradizione illustrativa (vale anche per Conan) è una regola che si supponeva ferrea: le bellone umane come la principessa Dejah Thoris devono apparire in ridottissimi due pezzi (spesso di metallo, il che deve comportare qualche problema dermatologico). Purtroppo il presente film deve obbedire al neo-puritanesimo che sta infestando l'America (e poi è pur sempre una produzione Disney), quindi niente due pezzi. Per fortuna, la costumista Mayes Rubeo inventa per la splendida interprete Lynn Collins dei costumi notevolmente sexy. Siccome il film possiede una giusta vena di tongue in check, a un certo punto lei si lamenta del suo vestito da sposa alla moda della città di Zodanga: “un po' volgare per i miei gusti”. Inoltre, siccome i barsoomiani sono pieni di tatuaggi tribali, su questa autentica bellezza una serie di tatuaggi quasi da pornostar valgono da compensazione erotica per il due pezzi negato.
Però Lynn Collins non è solo un vero sogno erotico nella parte (debitrice poi a varie eroine combattenti di ascendenza orientale e tarantiniana); è anche attrice più dotata del patatone Taylor Kitsch (John Carter). I personaggi in genere sono ben caratterizzati. Una certa assurdità di svolgimento (non fanno altro che andare perigliosamente da A a B per poi accorgersi che invece dovevano andare a C) rientra perfettamente nello spirito del romanzo burroughsiano. Il film è estremamente piacevole. Da notare una bizzarra scena di scontro (John Carter contro una tribù di Tharks ancora più selvaggia, che è tutto dire) che il montaggio interlinea con immagini in flashback del rinvenimento e sepoltura della moglie morta sulla Terra - e di conseguenza il commento musicale è lirico anziché epico-drammatico.
Fantascienza e western sono due generi eminentemente visuali. “John Carter” è molto grafico, e trae il meglio dai bei panorami del West iniziale che si trasformano con fluidità in memorabili paesaggi di un Marte di sogno, nonché dal gigantismo delle architetture, che ricorda esplicitamente la lezione di “Star Wars” di Lucas. Questa gradevole fantasia fumettistica è un buon modo di rispolverare Barsoom.
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