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Johnny Mnemonic (R. Longo, 1995)

Creato il 21 novembre 2012 da Salcapolupo @recensionihc
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Johnny Mnemonic è un “corriere di dati” – con un hard disk impiantato nel cervello – perseguitato dalla Yakuza, la quale vorrebbe impadronirsi delle preziose informazioni che trasporta…In breve. Esemplare piuttosto mainstream di fantascienza cyberpunk, piuttosto piatto e “telefonato” nonostante qualche sequenza a suo modo notevole (i viaggi nel cyberspazio sono suggestivi se rapportati all’epoca in cui furono realizzati). Non imperdibile.

Johnny Mnemonic (R. Longo, 1995)

La presenza di un cast di star (Keanu Reeves,  Ice-T, Dolph Lundgren, Dina Meyer, Udo Kier – l’indimenticabile vampiro che “morì di sete” nel cercare sangue di vergine (!) – oltre al cinico, e sempre grandissimo, Takeshi Kitano) a volte non basta a fare un grande film: anzi, nonostante in questo caso i presupposti (la storia su cui si basa il tutto) siano parecchio interessanti, il risultato finale non brilla per intensità.  Johnny Mnemonic non è un brutto film e questo va premesso su qualsiasi critica o considerazione si possa fare dopo averlo visto, ma possiede il principale difetto di seguire i “binari” predestinati dal genere in modo troppo blando. Il soggetto si ispira al racconto di fantascienza cyberpunk “Johnny Mnemonico” di William Gibson, e si tratta in primis di una pellicola che scorre con intensità ed in modo abbastanza accattivante per quasi tutto l’incedere della storia: il problema è che la stessa risulta un po’ banalotta rispetto a quanto viene tirato in ballo (città del futuro, ricordi impiantati o rimossi artificialmente, connubio uomo-macchina, intossicazione tecnologica), ed i numerosi personaggi inseriti non riescono a far decollare il film in tutta la sua interezza. Con le dovute proporzioni, ho rilevato limiti piuttosto simili a quelli di cui ho discusso nella recensione di Strange Days: su tutto, le note romanticheggianti (assolutamente “predestinate”) costruite per accattivare il pubblico più propenso all’happy end, ma nel quale l’unico vero sentimento che emerge è quello di prevedibilità, che accompagna fastidiosamente l’intera visione. Il ricordante protagonista, pagato per trasportare i dati preziosissimi di una multinazionale farmaceutica impiantandoseli nel cervello, paradossalmente ha dovuto rimuovere le immagini della propria infanzia per “fare spazio”: e questo nonostante abbia aumentato – da 80 a 160 GB – la propria capacità di conservazione. Quasi a dire che i ricordi del nostro passato non sono quantificabili, e nessuno dovrebbe mai provare a rimuoverli o non farne tesoro per il futuro. Un paradosso che alimenta pero’ debolmente l’incedere dell’intreccio, che non riesce mai a decollare e, anzi, rischia di annoiare seriamente lo spettatore dopo circa metà della visione.

La pellicola segue (e ricalca spesso “fedelmente”) una vicenda che tributa i film di spionaggio alla Hitchcock da un lato (un singolo perseguitato da un’organizzazione spietata) e i consueti rehash in chiave cyberpunk di Blade Runner; risulta divertente – tramite un linguaggio a volte accattivante, altre ampiamente stereotipato -  in altri termini soltanto per chi non conoscesse affatto i classici a cui fa visibilmente riferimento. E questo, oltre ad essere del tutto estraneo alle logiche del cinema “di genere”, propina l’idea di un cinema senza memoria – paradossalmente – che magari strizza l’occhio al passato, salvo poi elaborarlo in chiave meramente buonista. Il rischio dello sbadiglio rimane effettivamente dietro l’angolo, poi, quando inizia a prefigurarsi una sorta di intreccio sentimentale tra l’affascinante Dina Meyer ed il belloccio Keanu Reeves (ma-non-mi-dire), con la capacità di distogliere l’attenzione dalla trama in modo piuttosto clamoroso. Della serie: se il focus della storia è incentrato su una quantità enorme di dati che dovrebbero salvare il mondo da uno dei mali del secolo (N.A.S., una sorta di intossicazione dovuta ad overdose di tecnologia), è stata davvero una buona idea – funzionale all’efficacia dell’intreccio – distogliere lo sguardo “sul più bello”, e dare una buona ragione al protagonista per agire quasi esclusivamente in funzione della ragazza? Misteri della fede (cyberpunk), roba che  – a mio modesto avviso – è più adatta ad una concezione tipicamente hoolywoodiana – contrapposta a quella underground – della fantascienza. Ma non si tratta banalmente di “aver peccato” per non seguire i dettami old-school, che trovo da sempre tutt’altro che irremovibili: i problemi sono principalmente strutturali, a ben vedere. La Yakuza che perseguita il protagonista – un personaggio tutto sommato ben delineato, oltre che umanizzato al punto giusto – esegue mosse relativamente prevedibili, troppo scontate per chi si presuppone abbia il dominio ed il Potere assoluto; i ribelli Lotek, dal canto loro, guidati da un convintissimo Ice-T, non riescono nemmeno ad affermarsi in modo sostanziale, evocando pedissequamente (e senza troppa convinzione) una via di mezzo tra gli amici dei Goonies ed gladiatori di strada del più artigianale post-apocalittico mai realizzato negli anni 80 (che al tempo, tutto sommato, poteva avere un suo perchè). Non male, comunque, le visioni futuristiche ambientate sulla rete: una rappresentazione tridimensionale del cyberspazio piuttosto avanti per l’epoca (siamo nel 1995) che ricorderà ai più quelle de “Il tagliaerbe“. Un film non orribile, in definitiva, che si assesta pero’ su una consolidata mediocrità, e da vedere per questa ragione senza troppe aspettative: più adatto a chi apprezza il cinema ordinariamente mainstream che i prodotti orgogliosamente fuori dalle righe.


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