Cercherò di essere il più breve possibile, seguendo il consiglio di Filippo Davòli nella prefazione a questo libro (Jonata Sabbioni, Al suo vero nome, L'Arcolaio 2010): niente logorroiche disamine introduttive ai testi.
Non so se, come dice Davòli, Sabbioni appartenga a una "linea marchigiana". Molto probabilmente la "linea" non esiste, come sosteneva anni fa Davide Nota (v. QUI), almeno nel senso che probabilmente esiste una molteplicità di "territori" paralleli, quasi nessuno dei quali ha una connotazione meramente geografica.
Quella di
Sabbioni è una poesia rivolta a una riflessione spirituale, in cui il
poeta si pone spesso al centro di una pluralità, un "noi" a cui sente di
appartenere. L'attenzione non è tanto rivolta alla realtà circostante,
alle cose, quanto a quella immanenza che traspare dietro di esse, segno
di una presenza a cui Sabbioni accenna timidamente, con semplice
parsimonia (anche linguistica), come se non riuscisse (meglio, non volesse)
rompere la crosta delle parole. Questa riflessione spirituale per la
verità non appare problematica o critica, come ad esempio nel Giuda
di Lorenzo Carlucci (v. QUI), ma più come una serie di piccole
meditazioni in cui lo sguardo supera l'orizzonte mentale, cercando di
scrutare qualcosa di percepibile o un senso, in una lontananza infinita.
A volte è un pensiero del pensiero, se mi si passa il bisticcio. Altre,
si ha l'impressione che l'idea rimbalzi su una superficie
apparentemente penetrabile scivolando altrove, o che paghi un tributo a
un convincimento a priori a cui dare voce poetica. Tuttavia questa è una
poesia che, non ostante la sua semplicità quasi programmatica, richiede
una rilettura immediata, come se ci cogliesse il dubbio di qualche
importante sottinteso. Così il linguaggio semplice a cui allude Davòli
nella prefazione filtra una necessità di trascendenza, di spiritualità
abbastanza inusuale nella cosiddetta poesia giovane, e non possiamo
negare che questo sia uno di quei possibili territori a cui si
accennava prima. Ecco quindi, citando i testi che ho scelto, che anche
semplici constatazioni o memorie (sui luoghi della memoria stanno le pietre), preghiere intime e sommesse (non verbo), la visione di vuoti, insensatezze, solitudini, paesaggi urbani, impermanenze moderne e post moderne (la gente ha dissolto tutto..., alle sponde della luce..., Archeologie, Albergo, solo Dio ci basta...)
poi esprimono poeticamente, con modalità ancora saldamente ancorate in
una rassicurante tradizione (forse Sereni come dice Davòli, forse Luzi)
un percorso, una strategia di avvicinamento "al suo vero nome" forse
incerta e dubitosa ("La parola è la carne / se ci affondo le dita..."), ma leggera e umana.
Sui luoghi della memoria stanno le pietre
come il nostro confine. Sulla strada che si interrompeva
prima di arrivare, figure in nero, anfore in velluto,
salutano il corteo degli sfuggiti.
Le automobili, scaricate con le corde, sono un cargo irrituale
per questo porto antico. C'è odore di nafta.
E pure di mirto. La frontiera è appena conquistata.
Dal belvedere si apre la laguna:
la chiglia nera, a sei rematori, porta la vista,
in un fondo che ancora non si vede.
L’aria, col sale disciolto, avvolge d’ambra le vecchie stazioni
e la prima ruga, come pagina chiusa
sulla scena della rovina.
Non verbo
Egli fu strada.
L’uomo
volle vedervi spazio.
Non di quiete
0 tempo di ricerca
ma pretesa di sola luce.
Egli non tornerà, oggi.
Tra le fabbriche in spegnimento
egli dissolverebbe.
Per chi credeva
nelle sue mura paterne
sarà ucciso.
Abbiamo la colpa
della modernità carnale.
Il nostro mondo
non ha ingressi per lui.
Le sue vesti senza cuciture,
bandite dal gusto,
sarebbero spartite
per la giusta redenzione.
Egli é scomparso
senza residui.
Egli ha creato
l’albero piil alto
in cui poter maturare.
Egli é il nuovo albero di Dio.
Noi eravamo
i suoi frutti più caldi.
Noi ci siamo fatti per lui
cibo appassito.
Solo nelle chiese
Dio non ci tormenta.
Come padre
al proprio figlio morto
io vorrò tornarvi
La gente ha dissolto tutto in facilità. Nella più facile china
ogni cosa si tiene, tutto accresce e si difende alla sua maniera.
Ma la tua preparazione é stata più profonda.
Le intuizioni del cordoglio bruciano
nello splendore del tuo centro:
sei cosa indistruttibile.
Questa immunità dell’accogliere, e del dare a tutti,
a molti sarebbe parsa grave.
La tua attività é del tutto opposta
a quella del solitario:
è centrifuga, e la gravitazione che attua, incalcolabile.
Senti soltanto più indietro, nella chiarità dell’ascesa,
la possibilità dell'obbedienza.
Vivere sarebbe l'ardimento di riempire una forma,
che un giomo ti viene infranta alle spalle.
Circostanze che hanno, per te,
confusa azione e regolarità
di nessun genere.
Alle sponde della luce siamo
abbandonati, siamo liberi, siamo nuove
avventure del respiro. Non é amore.
E' la violenza della vita, dei sensi.
E' solo la strada. E' la carne senza freni. Ogni occhio
può essere limpido, può essere servo.
Per un'anima vergine non contano i secoli.
Siamo superstiti di un solo corpo.
Archeologie
C'è una fase fluida che la fabbrica attraversa
prima di ossificarsi. Con gli ex-laboratori zeppi di scarti
e ambienti morti dove tutto si accumula.
La fabbrica, uscita dall'economia, è priva di senso.
Era il luogo dove si facevano merci e valori: ora produce
il suo stesso sfasciume. E del silenzio e del disordine
assume volti mostruosi. Svaniti per sempre i tempi
del lavoro, la fabbrica resta un contenitore di roba
azzerata. Roba incarognita, deriva
verso forme bizzarre. Perché nelle cose, se abbandonate e libere
di evolversi, resta l'inorganicitià selvaggia, l’inerzia senza scopo
delle trasformazioni ingestibili.
Albergo
Dalle nostre finestre aperte su albe omeriche
abbiamo lo spettacolo dei porti.
Occhi nomadi indugiano
su officine e su quartieri squadrati che, in certi avanticittà,
fanno pensare il mare umano.
L’ululo urbano ci rammenta, a ore fisse,
il destino splendido di viaggianti.
Nelle nostre camere cadono,
dopo lunghi viaggi, uccelli sconosciuti
di lontane regioni.
Solo Dio ci basta. Mai le cose.
Ma non é sempre vero,
non é vero per sempre.
Basta, alle volte, l'eleganza di un gesto
nella paura, la bellezza di una parola laica.
Lo scintillio di vita
raccolto sul corpo
delle donne, dentro destini stravolti.
La nobiltà del male,
a tratti. Filtra allora una luce
semplice che mai avremmo creduto.
Si spezza la certezza di pietra,
e tutto crolla.