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“Justine c’est moi”: recensione del dvd Melancholia di Lars Von Trier

Creato il 22 febbraio 2012 da Fabry2010

Pubblicato da monicamazzitelli su febbraio 22, 2012

“Justine c’est moi”: recensione del dvd Melancholia di Lars Von Trier
Si è già scritto molto a proposito di “Melancholia”, un film che ha in comune con l’altro capolavoro presentato a Cannes nel 2011, The Tree of Life di Terrence Malick, l’essere una pellicola senza scale di grigio: la si ama o la si odia. Due opere simili, per alcuni aspetti, che differiscono molto nell’esecuzione: nitido e cristallino Malick, sporco (ma non quanto un tempo) Von Trier, che pur non ostentando più il Dogma, continua a preferire macchina a mano/camera a spalla piuttosto che cavalletti, dolly, carrelli e quant’altro ostacoli un set. Ma di questo diremo meglio più avanti, concentrando ora il discorso sugli aspetti che emergono dalla visione del film in dvd, in lingua originale.

La storia è quella di Melancholia, un pianeta senza orbita gravitazionale (un “pianeta interstellare”, secondo la definizione astronomica), che entra in collisione con la Terra e la distrugge, come apprendiamo subito dal bellissimo e pittorico prologo-spoiler. I personaggi principali del film sono Justine (Kirsten Dunst – premiata come miglior attrice a Cannes) e sua sorella Claire (Charlotte Gainsbourg),  protagoniste l’una della prima parte della pellicola e l’altra della seconda. In realtà Justine rimane comunque la figura centrale del film e lo domina emotivamente fino alla fine: il suo personaggio è l’unico che compie una reale evoluzione all’interno della storia, gli altri si limitano a reagire a ciò che accade restando sostanzialmente uguali a se stessi.
Nel primo tempo assistiamo allo sfarzoso e patetico ricevimento di nozze di Justine e Michael, organizzato da Claire nella lussuosa magione in cui abita col marito John e il figlio Leo.  Man mano che la serata procede e Justine si confronta con la miseria affettiva dei suoi genitori (Charlotte Rampling e John Hurt), e la grettezza del suo capo (Stellan Skarsgård), Justine si rende lentamente conto di aver fatto un errore a sposarsi. Comprende di non amare il suo sposo, e il suo gesto sembra essere stato dettato solo dal tentativo di assecondare una presunta normalità sentimentale e sociale: Michael capirà che è finita e andrà via insieme agli ospiti. Nella seconda parte invece Justine, trascorso un po’ di tempo dalla tragica serata e ormai in preda a una depressione che la paralizza, viene invitata di nuovo alla villa dalla sensata, affettuosa e materna sorella Claire, che la accudisce come una figlia. Però, con l’avvicinarsi di Melancholia, Claire si rende conto che nonostante le rassicurazioni del suo solido, razionalista e ruvido marito John (un ben calibrato Kiefer Sutherland), la Terra sarà colpita e tutti loro moriranno. È a questo punto che Justine inizia a risvegliarsi dal suo torpore astenico e a prendere in mano la situazione, cercando di proteggere emotivamente il piccolo Leo fino all’impatto finale.
La visione in lingua originale produce un effetto di maggiore straniamento rispetto alla versione doppiata, perché le protagoniste parlano un inglese totalmente diverso tra loro: il molle accento statunitense di Justine è in forte contrasto con quello marcatamente britannico e impettito di Claire,  che è condiviso anche da entrambi i genitori. La Dunst, con il suo sposo “americano” (interpretato dallo svedese Alexander Skarsgård – figlio di Stellan, anche lui ottimo attore di questo film) sembra venire da un altro mondo, un mondo che lei ha scelto per evadere da quello incombente della sua famiglia e che però la riattrae a sé, come Melancholia è attratto dalla Terra, per distruggerla. Nella lunga sequenza del prologo iniziale la vediamo infatti cercare di fuggire, vestita da sposa, ma estese radici la ghermiscono impedendole di correre, come in un incubo, simboleggiando l’impossibilità a sfuggire alle proprie origini, al proprio passato familiare. Un nucleo parentale che però le è alieno, non ha la sua intonazione linguistica, non le assomiglia. Ci si chiede come far collimare questi elementi con una verosimiglianza geografica ma il luogo dove si svolge l’azione non offre appigli di riconoscimento e si mantiene astratto: non sappiamo dove ci troviamo. La splendida villa in stile Tudor (che nella realtà si trova poco a sud di Göteborg, dove sono stati girati gli esterni) potrebbe trovarsi ovunque, non abbiamo nessuna coordinata; nel corso del film viene menzionato un agglomerato urbano non lontano dalla villa ma viene definito solo come “il paese”, ogni riferimento concreto è dilatato, flebile, recesso. Anche la famiglia di Justine diventa quindi un luogo astratto e dunque più difficile da eludere: durante la festa di nozze i suoi genitori si comporteranno con tale crudeltà e mancanza di affetto nei suoi confronti da sembrare il paradigma di una condanna a una vita senza amore.

A proposito di Melancholia viene sempre citato – a proposito – Tarkovskij, e il film è stato anche paragonato spesso a Festen, il capolavoro di Thomas Vinterberg. Però questo è certamente il più bergmaniano dei film di Von Trier. Qui ci sono davvero molti richiami a buona parte della produzione del regista svedese, a partire dai primissimi film, soprattutto a Come in uno specchio, in particolare per la figura di Justine e per la gelida anaffettività dei genitori (nel film di Bergman lo strepitoso Gunnar Björnstrand, qui l’algida madre-matrigna Charlotte Rampling), fino ai più recenti come Fanny e Alexander. C’è soprattutto Bergman nei temi essenziali della competizione/odio/rifiuto/bisogno delle figure genitoriali – che nel regista svedese sono di solito giocate sul rapporto padre/figlio e il loro mai concluso conflitto edipico – dell’impossibilità di comprendersi attraverso le parole, il senso della delusione dei rapporti umani, e anche il desiderio enorme e inconsolabile di avere un Dio a cui appellarsi/appigliarsi ma non riuscire a credere davvero che esista. Il frutto di questi due grandi temi è una sensazione di solitudine cosmica, grande e incolmabile come un intero l’universo, distanze interstellari di depressione che si materializzano in un pianeta “cattivo”, color verde spleen, che viene a distruggerci. In inglese la definizione scientifica di un pianeta di questo tipo è “rogue planet” (letteralmente “pianeta canaglia”), e l’effetto della visione in lingua originale è quello di non perdere il doppio senso ambiguo della “malignità” di questo corpo celeste, la cui definizione si cerca invano di far passare per neutrale e asetticamente scientifica mentre diventa sempre più evidente ai protagonisti che non c’è nulla di controllabile razionalmente, nulla che si possa addomesticare: l’astro colpirà la Terra, e la farà morire, e la parola “rogue” diventa sempre più impronunciabile, il pianeta sempre più cattivo, con la sua malinconia/depressione che distrugge, castiga.
La depressione è la punizione che nasce da dentro di noi. Il depresso crede di meritarla, perché inconsciamente pensa che se non è stato amato sia stata colpa sua: non ne era degno perché cattivo, come la protagonista di Le onde del destino. La letteratura e l’arte nordica in generale sono percorse incessantemente da questo concetto veterotestamentario di punizione. È una condizione morale che nasce da (o forse ha fatto scaturire) la scissione tra chiesa cattolica e chiesa protestante, dove non è contemplato il sacramento della confessione che redime l’essere umano dai peccati. No, l’essere umano si meriterebbe solo distruzione, e se consegue la salvezza non è grazie alla purezza dei suoi atti o al suo pentimento, ma al volere divino, che è imperscrutabile e gratuito.
Tutta l’arte nordica è pervasa da questo messaggio di indegnità: meritiamo di morire perché siamo malvagi. “We’re evil”, ripete più volte Justine, verso la fine. Ma c’è una forma di sollievo: la punizione è la nostra liberazione, come bambini cattivi finalmente saremo puniti, perché verrà la fine, ma sarà anche il termine del nostro soffrire.
Se Malick in “The Tree of Life” celebra la Genesi, qui Von Trier canta l’Apocalisse: dei suoi quattro cavalli ne viene rappresentato uno solo nel film, quello corvino, che porta il nome di Abraham. Chissà se il suo nome può essere ispirato al primo Patriarca o a Karl Abraham (uno dei pionieri della psicanalisi), o ad altro, ma sta di fatto che il nero destriero che Justine tenta invano di piegare alla sua volontà, la bête noire, è forte protagonista simbolico di questa pellicola. Infatti il cavallo, tenuto nelle scuderie della villa, è molto selvaggio e accetta di essere montato solo da Justine o da suo cognato John. Ciò nonostante, nemmeno Justine riuscirà a persuaderlo a oltrepassare un piccolo ponte di pietra all’interno del parco della villa, neanche frustandolo a sangue. Fin troppo facile vedere in questo un simbolo dell’inutile lotta contro se stessi e contro il proprio inconscio: non possiamo dominarci cercando di costringerci, dobbiamo accettare noi stessi con tutto ciò che abbiamo dentro, soprattutto quello che non ci piace, e accogliere i limiti che ci vengono posti. Dalla costrizione di se stessi e dalla negazione dei nostri aspetti profondi, non può che scaturire il nostro male(ssere). Forse può essere questa la chiave di spiegazione non solo del rifiuto di Abraham a oltrepassare il ponte, ma anche quella della scena di apertura del film dopo il prologo, dove vediamo gli sposi che non riescono a raggiungere la villa per la festa in quanto l’immensa e ridicola limousine bianca che Justine ha voluto prendere a noleggio è troppo lunga per girare attraverso una delle strette curve della strada, e i due sono obbligati a proseguire a piedi per raggiungere la festa. Non a caso, anche Claire si troverà a fronteggiare la stessa difficoltà: nel suo insensato e grottesco tentativo di fuga a bordo della golf car poco prima dell’impatto di Melancholia, la vettura si ferma con le batterie esaurite esattamente sullo stesso ponte che Abraham rifiutava di attraversare: anche a Claire tocca rinunciare alla fuga e accettare la realtà, tornando indietro a piedi a casa per affrontare il suo destino. Trovare il coraggio, questa è la chiave. Infatti John, che non fa che lottare contro le sue angosce cercando di ignorarle e pretendendo di tenere a bada la pressione del suo inconscio attraverso la razionalità, è l’unico che non riesce ad affrontare la tragedia e si suicida prima dell’impatto del pianeta. E, guardacaso, compie il gesto nelle stalle, proprio dentro il box di Abraham. Infatti quando tutto è quasi compiuto, con John morto e le sorelle in attesa della fine imminente, vediamo Abraham libero e tranquillo che bruca finalmente l’erba nel giardino proprio di fronte alla villa, sciolto e calmo.

Per concludere, il nome della protagonista non pare scelto a caso ma riecheggia quello del romanzo di De Sade: la sua Justine assomiglia in molti aspetti a tutte le abusate, torturate e vilipese protagoniste femminili che Von Trier racconta da sempre nei suoi film, che lo hanno fatto etichettare come misogino e maschilista. In effetti si potrebbe quasi dire che, dalla Bess di Le onde del destino in poi, non vada in scena altro che il medesimo personaggio. E la protagonista di Melancholia ha molto a che vedere in particolare con Bess perché, pur nelle ampie differenze di carattere, ne condivide il contatto con il “divino”, con il non-tangibile, lo spirituale. “I know things.” ripete Justine, senza enfasi, quasi fosse la sua condanna, senza pose eroiche o mitomani: sa leggere le vibrazioni spirituali della verità delle “cose”, anche se come una Cassandra mariana, le “serba in cuor suo”, rendendosi conto che la verità spesso crea troppo disagio per essere accettata, e si preferisce bruciare la strega per non ascoltarla, per non sentirsi messi in discussione. Come accade a Claire, che per questo le dichiara apertamente il suo rancore: “Sometimes I hate you so much”.
Personalmente, però, con questo film ho avuto un’intuizione che mi ha tolto il fastidio profondo che ho sempre avuto (pur nell’ammirazione registica) nei confronti del femminile raccontato da Von Trier. Dopo aver visto Melancholia ho pensato che nei suoi film lui non parla “delle donne”, né di una in particolare, né di tutte, ma narra in realtà di se stesso, le sue protagoniste sono lui: “Justine c’est moi”. E infatti noi donne difficilmente ci sentiamo rispecchiate nelle eroine del regista danese, anzi, troviamo certi comportamenti irritanti, falsi, frutto di una visione maschile e maschilista del mondo. Però ora credo che non sia esattamente così ma che la forza virile che queste donne emanano, la loro capacità di risorgere (o morire trionfalmente) come eroi tragici abbia in effetti a che fare principalmente con il loro demiurgo Lars Von Trier, che attraverso di esse forse esprime i suoi aspetti più intimi, camuffandoli, e compie un cammino autoanalitico all’interno del suo percorso artistico.
E se a questo deve o può servire l’arte, di certo quella di Von Trier esprime una raffinatezza sempre maggiore, e l’utilizzo di ciascun ingrediente filmico, che siano i colori, i movimenti di macchina, le inquadrature, le scenografie o la musica, esprime un significato molto preciso e profondo, spesso simbolico. In particolare si nota che l’utilizzo delle inquadrature “pulite” a macchina ferma è più abbondante e nella parte iniziale del film ha una valenza di composizione di immagini pittoriche più che cinematiche, dove le inquadrature statiche o in slow motion risultano quadri iperrealisti che citano opere di cui Von Trier nel corso del film mostra in qualche caso anche gli originali. Però con il procedere della pellicola si rafforza l’utilizzo della macchina a mano, con un girato sempre più sporco – ostentatamente tale – che come nel Dogma più ortodosso finisce per trasformarsi in un elemento narrativo interno, metafilmico, fino a toccare brevissimi momenti di vera e propria “invadenza”, ad esempio con alcuni spostamenti rapidi di camera avanti e indietro, verso il finale. La progressione sembra voluta, come un aumento di frenesia interiore all’approssimarsi della catastrofe che però, ci sembra, assomiglia più a una catarsi che a una distruzione.


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