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Kaihō-ku (解放区, Fragile). Regia: Ōta Shingo. Soggetto, sceneggiatura e montaggio: Ōta Shingo; Fotografia: Kishi Kentarō; Suono: Ochiai Ryōma; Musiche: abirdwhale; Interpreti: Ōta Shingo, Motoyama Dai, Nishinari Shingo, Kohaku Uta, Yamaguchi Haruka, Sato Ryō, Aoyama Masashi; Produzione: Tsutsui Ryōhei; Durata: 111’; Presentato al Tokyo International Film Festival il 24 ottobre 2014.Giudizio del recensore:★★★
Durante le riprese di un servizio televisivo su un disadattato, un assistente alla regia di nome Sugiyama fa infuriare il suo superiore non attenendosi al programma. Il disaccordo con il resto dello staff e con i metodi di lavoro adottati lo spinge a riprendere un suo vecchio progetto: un documentario girato per le strade più povere e malfamate di Osaka. Non potendo contare su altri, decide di avvalersi dell’aiuto del protagonista del servizio a cui lavorava, con il quale ha stretto un legame durante le riprese. I due si mettono alla ricerca di un ragazzo intervistato da Sugiyama anni prima. Tuttavia, giunto sul posto e separatosi dal compagno al fine di allargare lo spettro delle ricerche e garantire maggiori possibilità di successo, il giovane regista si fa travolgere da eventi drammatici che lo portano a stretto contatto con la realtà che vorrebbe filmare, destabilizzando così il suo progetto di partenza e mettendone in discussione l’approccio alla materia da documentare.Come già nella sua opera d’esordio The End of the Special Time We Were Allowed, in cui si confrontava con il suicidio di un amico, Ōta Shingo torna a immergersi in prima persona in una realtà (“reality” è proprio il termine con cui il protagonista del film presenta a più persone il suo progetto di documentario) dura e a tratti spaventosa, e lo fa gettandosi in prima linea nel proprio cinema, in un film ambizioso che si pone come traguardo la messa in discussione del compito del regista di documentare una realtà cui non appartiene. Calandosi nei panni di un alter-ego che svolge la sua stessa professione, Ōta ha la possibilità di riflettere (come appare evidente nella scena in cui Sugiyama presenta il suo progetto ai produttori) sul mezzo cinematografico in sé, sia nei suoi aspetti più tecnici, sia in quelli che trascendono i semplici processi produttivi fino a includere gli scopi e il senso stesso di un’opera che si proponga di filmare il “reale”, con annessi risvolti etici, responsabilità dell’autore ed eventuali rischi personali. Il film segue, almeno all’apparenza, un andamento molto libero, partendo come una sorta di mockumentary su un disadattato, per poi cambiare più volte direzione, innanzitutto concentrandosi sul progetto personale di Sugiyama e rivelando così la presenza di uno sguardo esterno (per quanto camuffato dall’estetica da cinéma verité del film stesso) rispetto a quello delle videocamere della piccola troupe che vediamo al lavoro all’inizio del film. Il personaggio del disadattato, che inizialmente supponiamo essere il protagonista (fuorviati forse anche dal titolo inglese del film, Fragile, che sembrerebbe riferirsi a lui) perde poco alla volta il suo ruolo centrale per lasciare spazio a quello del regista interpretato da Ōta. Con l’arrivo a Osaka dei due e con il separarsi delle rispettive strade, le aspettative dello spettatore vengono infatti disattese: il dramma non prende affatto avvio dall’incontro del primo con il mondo esterno (incontro che si rivela peraltro indolore), ma si pone invece come una vertiginosa discesa nella realtà di Sugiyama stesso. Il suo compagno, semmai, dimostrando una forza e una serietà inaspettati nel portare avanti la missione assegnatagli, si assume il ruolo di pietra di paragone per meglio evidenziare la progressiva perdizione del regista. Perdizione che porterà tuttavia quest’ultimo ad affondare coraggiosamente le mani nel reale, dopo esserne stato assorbito, e a raggiungere di conseguenza una consapevolezza nuova. In questo senso, le ultime inquadrature che, coadiuvate da un accompagnamento sonoro alienante, mostrano Sugiyama pericolosamente sull’orlo del baratro ma in possesso di riprese veramente “reali”, sembrano suggerire paradossalmente che il suo sia stato un proficuo percorso di formazione. [Giacomo Calorio]
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