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Kalabrians di marzo

Da Suddegenere

Sud de-genere si ritrova sulla copertina di marzo di Kalabrians. Grazie a Vincenzo per l’attenzione, la disponibilità e la cortesia. 

Trasformare la realtà che ci circonda”: le donne in un Sud de-genere di Vincenzo Merante

Doriana, dedichi il tuo blog (http://suddegenere.wordpress.com/) “alle donne, in particolare a quelle del Sud, che vivono in un sud degenere”. Com’è questo sud de-genere e come sono le sue donne?

“Penso che ciascuno di noi sia, in parte, anche il luogo nel quale vive, nel quale è cresciuto e dal quale non si può astrarre, nel bene e nel male. Sud de-genere nasce come un gioco di parole, per indicare un Sud al dritto e al rovescio, fatto di donne capaci di creare nuove pratiche di r-esistenza e capaci di trasformare in positivo la realtà che le circonda, a partire da sé. Realtà, però, che al sud – e non solo – possono essere corrotte e degradate”.

Pochi giorni fa – l’otto di marzo – si è “celebrata” la festa della donna. Non starò qui a spiegarti il mio pensiero…Il tuo?

“E’ difficile far uscire l’otto marzo dalle banalità e dalla commercializzazione che svuotano di senso molte ricorrenze. Un vecchio slogan diceva “tra la festa, il rito e il silenzio, scegliamo la lotta!”, questo, per me, dovrebbe essere l’otto marzo. Una giornata nella quale basterebbe ricordare quanto è recente, per le donne, l’acquisizione di diritti fondamentali – come quello al voto e all’istruzione – per riflettere sul fatto che di strada ne abbiamo fatta, ma di certo siamo ancora lontane dal poter scegliere liberamente cosa fare delle nostre vite”.

Il prossimo Parlamento italiano avrà percentuali di presenze “al femminile” più elevate rispetto al passato. Finalmente! E’ sintomo che qualcosa sta cambiando o siamo ancora, soprattutto in politica, in una posizione di “squilibrio” tra uomini e donne?

“Ancora siamo lontani da una situazione di “equilibrio”. Tuttavia è evidente che qualcosa sta cambiando in positivo, e forse riguarda anche il desiderio di partecipazione e il volersi riappropriare, da parte delle donne, di spazi da sempre riservati agli uomini. Detto ciò, non ho mai votato una donna solamente per l’appartenenza al genere, e non mi fanno particolari simpatie le cosiddette quote rosa, anche perché le considero uno strumento di cooptazione maschile”.

Nel suo monologo sanremese nel giorno di San Valentino, Luciana Littizzetto ha detto che “Un uomo che ci mena non ci ama. Mettiamocelo in testa. Salviamolo nell’hard disk. Vogliamo credere che ci ami? Bene. Allora ci ama male. Non è questo l’amore. Un uomo che ci picchia è uno stronzo. Sempre”. Cosa pensi a riguardo? Non credi che troppe donne hanno ancora paura di denunciare le violenze che subiscono?

“Le violenze non possono essere considerate una manifestazione d’amore, anche se deviata, e non si possono minimizzare o giustificare in alcun modo. Peraltro, la violenza di genere è trasversale agli ambienti sociali, al censo, alla cultura, alla nazionalità e ogni anno annienta un numero incredibile di vite. Viceversa da parte delle donne ci sono ancora forti resistenze alla denuncia, per vari motivi che possono essere legati al fatto di ritenere di non avere possibilità alternative, al mancato sostegno da parte della famiglia o delle istituzioni, alla paura di minacce rispetto all’incolumità fisica propria e dei figli, al livello di consapevolezza personale carente, all’autonomia economica assente. Ma non c’è soluzione se non quella di allontanarsene, e in questo senso le donne vanno sostenute dalla collettività e dalle Istituzioni, che hanno precise responsabilità anche nel mancato rafforzamento dei centri antiviolenza”.

La situazione in Calabria è per certi versi “speciale”. Alle violenze fisiche si aggiungono altri fattori. Penso soprattutto alle donne che vivono in luoghi dove la concentrazione criminale è molto forte. Nonostante questo, in tante hanno provato a ribellarsi, tanto che si è iniziato a parlare di “primavera del coraggio”. Che impressione ti sei fatta?

“Non scinderei le due cose. Credo che sia stata illuminante la sociologa Renate Siebert, che già una decina di anni fa sosteneva come – nell’ambito della ‘ndrangheta – le donne che si ribellano, tendenzialmente non lo fanno spinte dalla volontà di denunciare i crimini di ‘ndrangheta ma prima di tutto spinte dalle violenze subite sul proprio corpo. La collaborazione delle donne con la giustizia è senz’altro agevolata da quella violenza che investe le relazioni personali più intime e che, vissuta su se stesse, diventa insopportabile. Queste donne, con la prospettiva di dare a se stesse e ai propri figli un futuro migliore, hanno avuto un coraggio incredibile a sfidare, scardinando, il sistema-mafia”.

A proposito di donne coraggiose, mi ha sempre commosso la storia di Lea Garofalo, uccisa nel 2009 dal compagno e dalla sua famiglia, per essersi opposta alla ‘ndrangheta, per aver detto “basta” e per amore della figlia Denise. Ogni 21 di marzo Lea viene ricordata nella Giornata della Memoria e dell’Impegno dell’associazione Libera. Che esempio è stato? Credi abbia cambiato qualcosa?

“La storia di Lea ha colpito profondamente anche me. Così tanto che lo scorso dicembre sono andata a Pagliarelle per incontrare la sorella Marisa, e da questo incontro è nata una narrazione che fa parte di una collettanea di più autrici – dal titolo contro versa - in libreria nelle prossime settimane per sabbiarossa ED. Sono convinta che la forza di volontà, l’amore e il coraggio di Lea abbiano lasciato il segno e aperto la strada, non solo al corso della giustizia, ma soprattutto al significato che assume un così forte gesto di rottura nei confronti della cultura patriarcale mafiosa, dei suoi codici, delle sue regole e dei suoi dettami e che apre il varco ad altre consapevolezze e scelte di libertà”.

C’è qualche altra storia che ti ha colpita particolarmente e che vorresti raccontare ai nostri lettori?

“Ce ne sono tante. Penso, ad esempio, a Giuseppina Pesce, trent’anni, tre figli e una lunghissima e difficile vita alle spalle. La sua collaborazione ha consentito l’arresto di numerosi familiari, ma ha anche restituito verità alla vita di un’altra donna, Annunziata Pesce, uccisa nel 1981 dalla propria famiglia per aver avuto una relazione al di fuori del matrimonio. Penso ad Angela Costantino, moglie di Pietro Lo Giudice, strangolata e seppellita in un terreno mentre la sua auto finiva in mare nel 1994, rea di aver tradito il marito mentre questi era in carcere, e colpevole di portare in grembo il figlio di un altro. Penso a Maria Concetta Cacciola che, dopo aver deciso di diventare testimone di giustizia, si è tolta la vita nel più doloroso dei modi possibili, suicidandosi con l’acido muriatico. Oppressa dalla violenza fisica e psicologica di genitori e fratello, picchiata selvaggiamente per avuto una relazione extraconiugale mentre il marito era in carcere”.

Nei tuoi sogni – in chiusura – come dovrebbe essere il nostro Paese e la nostra Calabria nei confronti delle donne (ma non solo)?

“Forse potremmo provare a ribaltare la domanda, chiedendoci: cosa potremmo fare noi, cittadini e cittadine, per la Calabria e per l’Italia? Credo che, al di là del disfattismo, degli stereotipi e del vittimismo, si potrebbe iniziare col pretendere di avere quei diritti che oggi sono scambiati per elargizioni di favori: come il diritto al lavoro, ad una sanità pubblica decente, ad avere scuole che non rischino di crollare sulle teste dei nostri figli, ad avere un welfare che non sia tutto sulle spalle delle donne”.


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