Magazine Cinema
Due parole sul "quando"
Margaret è stato girato nel 2007. La fase di post-produzione è durata quasi 5 anni ed è uscito negli Stati Uniti solo alla fine del 2011. Da noi è uscito quest'anno in chissà quali sperdute sale in chissà quanti pochi giorni. Non è difficile immaginare la ragione di tempi così lunghi. Adattato a più "commerciali" 2 ore e mezza, il progetto in origine doveva raggiungere e superare le 3 ore, e parliamo di 3 ore di densità narrativa eccezionale. Vale la pena, prima di addentrarci nell'opera, di raccontare la storia della pellicola prima del suo contenuto: il regista Kenneth Lonergan (regista di You Can Count On Me, che ammetto di non conoscere) ha dovuto affrontare una causa legale per battere la durata imposta inferiore alle 3 ore, ed è riuscito a vincerla grazie soprattutto all'intervento di Martin Scorsese (di cui Lonergan è stato sceneggiatore di Gangs Of New York), il quale ha sempre sostenuto l'amico arrivando persino a definire Margaret un capolavoro; tuttavia la versione è stata ridotta col passare del tempo per un ripensamento di Lonergan e infine mandata allo sbaraglio senza alcuna promozione, nonostante la presenza di attori come Matt Damon, Mark Ruffalo e Jean Reno, nè in patria nè tantomeno all'estero.
Parafrasando, è stato un suicidio commerciale.
Due parole sul "cosa"
Margaret è la storia di una ragazza di 17 anni, Lisa (Anna Paquin), brillante e intelligente, ma anche una teenager con gli stessi difetti di molte altre: sfrontata, arrogante, egoista. Un giorno camminando per strada (siamo a New York dopo l'11 settembre) distrae per gioco il conducente di un autobus (Ruffalo) che investe una donna mentre sta attraversando la strada; la donna muore tra le braccia di Lisa che, sentendosi poi in colpa, decide di denunciare il conducente. Sarebbe facile limitare la pellicola all'ennesima storia di formazione americana, ma per fortuna non è così; Perchè Margaret possiede una serie di sottostrati concettuali che si compenetrano l'un l'altro dando origine a un affresco sociale e psicologico di complessità monumentale. Ecco, adesso si spiegano le due ore e mezza di film.
Due parole sul "come"
Diciamolo subito: la durata e la prolissità della pellicola non giovano affatto al risultato finale. Un film che si regge sul binomio detto non detto per 150 minuti è destinato a collassare in tempi rapidi. Verbosissimo, molte scene sono fin troppo domestiche e la sensazione è che il regista abbia pensato che nel filmare alcune scene riempitive "tutto fa brodo" al fine di approfondire i personaggi. Le copiose vicende legali poi dovrebbero avvincere mentre invece allontanano e rallentano un pò troppo una progressione che è già placida di suo. Tolte queste pecche, il film è invece colmo di sequenze una migliore dell'altra. Dalla scena dell'incidente, di sconvolgente intensità, alle affascinanti inquadrature urbane. Molto poi è detto attraverso le opere d'arte: la letteratura studiata a scuola (di questa letteratura si avvale il titolo "Margaret", che rimanda a una poesia sulla caducità della vita che viene letta in classe), il teatro e l'opera come occasioni di chiarificazione e catarsi. Purtroppo l'estrema mole tematico-strutturale tende spesso a inciampare sotto il suo stesso peso, sicchè il vero problema "tecnico" infine ricade sul montaggio, che complessivamente risulta un tantino pasticciato. Altro indice dei ripensamenti e delle revisioni cui è stato sottoposto questo sfortunato film, che ha così tanto in comune con la sua stessa protagonista.
Due parole sul "dove"
Abbiamo detto sopra che il film è ambientato a New York dopo l'11 settembre e ciò si capisce dai frequenti dibattiti che Lisa affronta a scuola. Abbiamo anche parlato delle inquadrature urbane e non a caso: le sequenze in cui osserviamo i palazzi che si riflettono tra loro esprimono più delle molte parole del film. La fotografia urbana è delle più poetiche abbia mai visto. Ma quanti significati hanno quei momenti in cui ci dimentichiamo della storia e diventiamo parte del panorama? In cui gli oggetti, le foglie, i grattacieli parlano? Insultatemi pure, ma mi sento di dire che alcune immagini richiamano alla memoria la scena finale dell' Eclisse di Antonioni; a un certo punto a lezione viene detto: "come mosche per i monelli, così noi siamo per gli dei" e seguono inquadrature dall'alto, uno sguardo dal cielo, tra i grattacieli, che contempla le piccole persone, la forza del destino in grado di distruggere vite, e l'assenza nel cielo delle torri, come se le stessimo ancora cercando increduli, girando la testa senza però mai trovarle.
Due parole sul "chi"
Dal punto di vista emotivo il film è un colpo dritto al cuore. Realismo, ironia, amore e disprezzo riescono a coesistere grazie alla maestria (io non sono uno che loda gli attori, qui sono costretto a fare tante eccezioni) da non uno, ma tutti i suoi (molti) attori, dalla più rilevante (Paquin) al più secondario (l'insegnante Matthew Broderick, ma anche Damon) che a proposito non gravitano mai attorno alla protagonista ma vivono in maniera propria, tanto che lo sguardo scivola spesso e volentieri su vicende esterne alla protagonista, che apparentemente c'entrano poco con il perno narrativo. C'è quindi un interesse dell'autore ad entrare nella vita di tutti, un amore che non esito a definire assoluto nei confronti di ogni singolo personaggio, tanto che verrebbe da pensare che l'ambizione, altissima, del suo autore sia volta ad ogni persona: pertanto il film si apre proprio con una slow motion che ritrae gli indaffarati pedoni newyorkesi quasi come se fossimo fuori dal tempo e dallo spazio; tutti concorrono all'affresco universale voluto dal regista, e ci si sfiora, ci si urta, e l'interazione tra loro è un magma di sensazioni, pensieri, parole. Tra tutti, Lisa è quella ancora disgregata, in cerca affannosa di un'identità che sembra inconciliabile con la realtà esterna. Prima difende il conducente e poi lo vuole denunciare; prima vuole il padre e poi ripiega sulla madre; sembra sinceramente altruista ma poi si cala nella parte auto-referenziale dell'eroina. Ad esempio in una scena, l'amica della donna investita che aiuta Lisa nella causa legale, la attacca dicendole che per lei "è tutto un gioco, un dramma teatrale, e noi non siamo attori secondari". Il dramma non è la tragedia dell'autobus, ma il non-essere di Lisa che recita la vita (non a caso è figlia di un'attrice di teatro) invece che viverla.
Due parole sul "perchè"
Proprio per questo Margaret andrebbe visto non tanto come un dramma, ma come trattato psicologico: che indaga l'adolescente, che per definizione non è, ma è ancora in divenire; che estende l'indagine dall'individuo alla società (soprattutto quella americana che tende a "far finta" di essere solida e impavida, mentre in realtà è dilaniata dalle sue sue contraddizioni interne e paralizzata dalla paura dell'esterno); che rappresenta lo scontro che si realizza quando la finzione (gli atteggiamenti di Lisa, di sicurezza e convinzioni ferree, smentite dal rapporto finto con il padre e da quello di sopportazione con la madre, alla combattività rivolta verso non si sa che cosa, se ruoli o istituzioni) collide con la realtà (Lisa è una ragazza ancora immatura e non sa chi è o cosa vuole diventare e cammina anonima nella folla che la ignora) con conseguenze devastanti.
Margaret è un film bellissimo e imperfetto. Recuperatelo.
Stefano Uboldi
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