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Keynes, il mercato del lavoro, l’euro e l’errore di Krugman

Creato il 22 agosto 2012 da Keynesblog @keynesblog

Keynes, il mercato del lavoro, l’euro e l’errore di Krugman

Un post sul blog di Paul Krugman è l’occasione per affrontare un argomento a cui abbiamo solo accennato su Keynes Blog.

Gran parte degli economisti che oggi usano l’etichetta di “keynesiani” appartengono al mainstream economico e sono gli eredi di quella che viene chiamata “sintesi neoclassica”, il tentativo cioè di conciliare la Teoria Generale di Keynes con il precedente paradigma degli equilibri generali. I principali protagonisti di questo ampio filone sono stati John Hicks (che poi rivide le sue posizioni), Paul Samuelson e Franco Modigliani. L’attuale versione della sintesi neoclassica viene denominata “Nuova macroeconomia Keynesiana” e i suoi esponenti, tra cui Krugman e Stiglitz, detti “New Keynesians“. Dall’altra parte coloro che invece non accettano la sintesi e invece continuano il programma di ricerca di Keynes sono detti “Post Keynesiani“. A tale scuola afferiscono anche altri filoni di ricerca che ben si conciliano con la Teoria Generale di Keynes (come l’economia sraffiana e kaleckiana).

Uno degli elementi principali della sintesi neoclassica è la spiegazione della disoccupazione come conseguenza di salari e prezzi “vischiosi” (in inglese sticky).

Scrive Krugman:

“Quando Keynes criticò gli “economisti [neo]classici”, egli ha in larga misura argomentato contro l’opinione che la disoccupazione involontaria non esiste – un punto di vista difeso spesso, allora come oggi, da un appello alla consueta logica della domanda e dell’offerta . Se guardiamo il mercato, ad esempio, del grano, e c’è un eccesso di offerta – i venditori vogliono vendere più di quanto gli acquirenti vogliono acquistare – ci aspettiamo di vedere il prezzo [del grano] scendere rapidamente per raggiungere la condizione di equilibrio de mercato. Quindi, se ci fosse davvero un grande eccesso di lavoro, non dovremmo vedere i salari crollare?

E la risposta è no – i salari (e molti prezzi) non si comportano così. E’ una domanda interessante perché [ciò avviene], domanda che deve essere risolta in termini di psicologia e sociologia, ma è semplicemente un dato di fatto che i tagli dei salari nominali si presentano solo raramente e sotto forti pressioni. Così la vischiosità dei salari è una parte essenziale della storia di ciò che sta succedendo con l’economia dal lato della domanda”

Krugman poi spiega che tuttavia non è detto che la riduzione del salario (reale) sia la strategia giusta, in un regime di cambi flessibili (come per gli USA e il Regno Unito). Ma, aggiunge, nel caso europeo è diverso: qui da noi la riduzione del salario è parte del problema.

Vi sono due problemi in questo punto di vista. Il primo è che Keynes non ha nulla a che vedere con la teoria dei salari e dei prezzi vischiosi. Al contrario, la teoria dell’occupazione di Keynes afferma che, anche in presenza di salari e prezzi perfettamente flessibili, non è affatto detto che si torni alla piena occupazione, la quale è determinata dalla domanda aggregata (data dalla somma di consumi, investimenti, spesa pubblica e domanda estera, al netto delle importazioni).

Richiamare Keynes per suffragare la tesi dei salari vischiosi è particolarmente ironico: tale teoria è simile a quella che Keynes critica nella Teoria Generale, spiegando che gli economisti neoclassici (come Pigou) cadono in errore due volte: la prima nel ritenere che la riduzione del salario nominale (cioè il salario espresso in euro o sterline o dollari) non è detto che porti la riduzione del salario reale (cioè depurato dall’inflazione) che è ciò che conta nella teoria neoclassica del mercato del lavoro (circostanza questa che avviene tuttavia assai di rado). Ma, cosa ancor più rilevante, per Keynes i neoclassici non tengono conto degli effetti della riduzione salariale sulla domanda aggregata. Può facilmente accadere cioè che una riduzione dei salari (o una loro stagnazione) riduca i consumi e quindi la domanda aggregata. E ciò può portare paradossalmente a più disoccupazione, non meno.

Ovviamente tutta una serie di circostanze possono produrre, e in effetti producono, risultati differenti. Ad esempio la Germania ha tenuto fermi i salari e così ha ridotto la disoccupazione, ma ha puntato sul fatto che altri paesi non hanno agito nello stesso modo: ha quindi sostituito la domanda interna con quella estera. Negli USA (e anche in Europa) la domanda negli anni ’90 e 2000 è stata “pompata” attraverso il “credito facile” portando alle cosiddette “bolle”. Il sistema finché è durato ha funzionato, anche se è facile capire che non poteva durare all’infinito. In ogni caso però è sempre stata la domanda a guidare l’occupazione.

Per affrontare quindi il problema europeo, dove esiste un regime di cambi fissi, occorre in primo luogo chiedersi se una riduzione salariale nei paesi periferici possa o meno essere efficace. L’esperienza dice che non sta accadendo.

Il grafico che segue mostra l’andamento del salario reale nei paesi europei: come si nota, dal 2009 il salario reale sta già scendendo. Ma questo non sta portando né al recupero dell’economia né tanto meno al recupero dell’occupazione, anche in presenza di una moderata crescita del salario reale dei tedeschi.

Keynes, il mercato del lavoro, l’euro e l’errore di Krugman

dal blog di Gennaro Zezza, elaborazione su dati database AMECO Unione Europea

Lo stesso Olivier Blanchard ha sottolineato che un “aggiustamento” tra Germania e paesi periferici richiederebbe una svalutazione del costo del lavoro in questi ultimi del 20%. E’ difficile che una caduta di questa portata non generi effetti sulla domanda interna talmente elevati da vanificare l’aggiustamento stesso. Non solo: se la deflazione salariale così pesante portasse a una inflazione negativa dei prezzi, si aggiungerebbe un’ulteriore difficoltà: il valore reale del debito pubblico crescerebbe.

L’aggiustamento non può quindi che poggiare sulle spalle della Germania, la quale dovrebbe aumentare i salari (a partire da quelli dei cosiddetti mini-jobs) fino a compensare la competitività che il cambio fisso ha sottratto ai paesi periferici. Ma – per motivi in parte comprensibili – la Germania e i paesi del “core” non sono disposti a concessioni così elevate che li ostacolerebbero nella penetrazione nei mercati extra-UE. Né sono disposti a “mantenere” i disoccupati del Sud Europa o pagare la reindustrializzazione dei PIIGS attraverso cospicui investimenti.

L’altra strada è il ripristino della leva del cambio, vale a dire l’uscita dall’euro dei paesi periferici e, in prospettiva, forse della stessa Francia.

Tutto ciò ha ovviamente rilevanza riguardo all’aggiustamento delle variabili di prezzo tra i paesi europei. Il problema della crescita non si esaurisce in questo aspetto, ma coinvolge altri fattori, in parte tra loro legati, a partire dagli investimenti, la modernizzazione del tessuto produttivo, la dimensione delle imprese, l’innovazione e la specializzazione produttiva.


Filed under: Economia, Europa, Teoria economica Tagged: euro, John Maynard Keynes, Paul Krugman, sticky wages

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