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I confortanti miglioramenti già registrati nell’opera precedente qui vengono ulteriormente nobilitati senza però smarrire alcuni punti cardinali costituenti il cinema mendoziano, un cinema puntato sull’asfalto, dentro le città afose, nel perenne pedinamento delle persone che le abitano.
Il preambolo è infatti l’ennesimo spaccato cittadino del regista che non ha bisogno di rappresentazioni sofisticate perché quello che riprende c’è e ci sarà sempre; la naturalezza della realtà raccolta senza artifizi, gettarsi nel traffico di Manila con una mdp sulla spalla e, semplicemente, riprendere; nella folla due attori si scambiano le battute del copione, intorno a loro la quotidianità fluisce caotica: Mendoza si puccia fino al collo nel contesto, con lui il cinema diventa verità.
La forza di Kinatay è però ben altra. Senza infastidire col suo didascalico contrasto diurno/notturno perché già nel segmento giornaliero c’era della brace sociale in fermento (il tizio che si vuole buttare di sotto), il film del filippino ha finalmente una sceneggiatura degna, snella certamente, ma dalla quale perviene l’intento di una costruzione narrativa che non lasci il lungometraggio in preda alle improvvisazioni dell’anti-fiction. Così, con il calare del sole segnato da una quanto mai inquietante dissolvenza in nero, si viene avvolti da un fascio di tenebre che crea, per la prima volta nella filmografia dell’autore, un concreto strato di tensione tutto inglobato nel tragitto del camioncino, dove pur non accadendo nulla di particolare l’angoscia sale grazie alla sapienza fotografica del buio trafitto da lame di luce, e dall’esserci di Mendoza sul veicolo che fornisce un punto di vista strettamente soggettivo. La sua camera (pare che per la seconda parte abbia usato una digitale) inquadra come se fossero due occhi, nervosi, scrutanti, affascinati dal crepaccio del terrore.
Il “nuovo corso” svela ragnatele thrilling con acuti, devo dire inaspettati, di uno splatter filtrato dal vedo non vedo, traduzione immediata della regia-testimonianza di Mr. Brillante. Certe tendenze però non svaniscono nel nulla, pertanto l’intento di rastrellare l’erba cattiva del suolo filippino si riscontra anche qua, dove alla solita evidenziazione della miseria (Peping accetta di entrare nel giro perché non ha un peso, ma ha un figlio), si affianca non senza una sottile ironia il crack delle istituzioni, da quelle religiose dove dio intercede per conto di un banale giudice e la “madonna” viene violentata uccisa e smembrata, a quelle statali dove perfino (?) i poliziotti sono un branco di suini corrotti e spietati.
In Kinatay, come scrive Sangiorgio (link), non c’è nulla a cui aggrapparsi, ed anche la semplice foratura di una gomma riesce a sconquassare il cuore.
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