di Daniele Villaci
C’è un detto asiatico che rimbalza in questi giorni tra i commenti delle principali testate asiatiche circa la crescente tensione nella penisola coreana: un topo accerchiato da una schiera di gatti affamati è sempre il primo a sferrare l’attacco e a morderli. La saggezza popolare asiatica insegna come l’elemento più debole, trovandosi alle strette di fronte all’impossibilità di una soluzione a lui vantaggiosa, riesca in realtà a sfruttare il momento di tensione per passare all’attacco, anche quando la sua inferiorità rispetto ai “gatti” è così palese da rendere inattuabile una strategia difensiva.
Applicando questo proverbio alla travagliata situazione coreana l’esercizio di attribuzione delle parti è tutt’altro che ostico. Il “topo” in questione non è nient’altro che l’audace nuovo Supremo Leader della Corea del Nord, Kim Jong-Un, che ha conquistato le prime pagine di tutto il mondo a furia di morsi contro i principali “gatti” che mettono alla prova la sua posizione di leader maximo: Corea del Sud, Stati Uniti e da ultimo l’alleato cinese. La situazione è tuttora in via di definizione, ma l’ultimo morso, avvenuto appena poche ore fa, è stato il comunicato diramato dallo Stato Maggiore dell’esercito nordcoreano di un possibile attacco nucleare ai danni di Stati Uniti e Corea del Sud. La risposta di Washington non si è fatta attendere: il Pentagono ha infatti confermato il dispiegamento di un sistema di difesa antimissilistico nella base militare di Guam, nel Pacifico, tra i possibili obiettivi strategici di un attacco nordcoreano.
Di rilevanza maggiore è stata però la minaccia di chiudere il complesso industriale di Kaesong, frutto della cooperazione economica tra i due Paesi e situato a 10 km dalla zona demilitarizzata all’interno del territorio nordcoreano. Pyongyang ha per ora proibito ai lavoratori e ai mezzi sudcoreani di entrare nell’area, dove 123 imprese sudcoreane investono stabilmente da anni, impiegando lavoratori di entrambi i Paesi per una produzione che nel 2012 ha avuto un balzo del 17% raggiungendo i 470 milioni di dollari.
Diversi analisti hanno confermato come l’interesse economico delle due Coree in realtà coincida e sia a favore dello sviluppo dell’area, che produce reddito per 53.000 operai del Nord e permette ai colossi industriali del Sud di usufruire di manodopera a costo ridotto.
Al di là delle minacce e delle ripercussioni diplomatiche di questi ultimi giorni, quindi, gli elementi che emergono dall’analisi della situazione corrente sono sostanzialmente due: il disinteresse con cui la questione viene trattata in Corea del Sud a fronte dell’eccessiva durezza delle minacce della Corea del Nord. Ma andiamo per ordine e il punto di partenza non può che essere Seoul.
La guerra vista da Seoul: meglio il Gangnam Style!
Nella terra destinataria dalle continue minacce di olocausto nucleare di Pyongyang, l’unica notizia che ha veramente destato scalpore nei media e nell’opinione pubblica è stato un lungo articolo pubblicato da Le Monde sul disinteresse crescente nel paese rispetto alle questioni del Nord. L’insensibilità dei Sudcoreani è però diventata col tempo una condizione di assuefazione dovuta a 60 anni di coabitazione nella stessa penisola, in cui minacce non sono mai mancate e che quando sono passati ai fatti, come nel caso del 2010, con l’attacco contro l’isola di Yeonpyeong operato dell’esercito del Nord e la conseguente uccisione di 4 cittadini sudcoreani, hanno avuto come ripercussione solo l’inasprimento delle relazioni e alcuni proclami a favore della guerra anche tra i politici di Seoul.
Attualmente, le preoccupazioni della Corea del Sud sono infatti ben altre. Il Paese è alle prese con una situazione economica allarmante: gli ultimi dati forniti dal Ministero dell’Economia hanno diminuito il target di crescita del 2013, dal 3% al 2.3% e la rivitalizzazione dell’economia è stato il punto centrale della campagna elettorale che ha visto nuovamente trionfare il partito conservatore Saenuri. I principali problemi economici provengono dalla punta di diamante dell’economia coreana e che corrisponde alla metà del suo PIL: l’export. Dal 2012, le esportazioni coreane sono diminuite dell’8,7% in un Paese che si è a lungo battuto in favore di accordi di libero scambio (da ultimo quello con l’Unione Europea). Gli sforzi coreani per promuovere la penetrazione commerciale dei suoi prodotti anche nei mercati più lontani, sono stati tuttavia resi vani dal principale competitor dell’area, il Giappone, che con le ultime manovre espansive, ha favorito il deprezzamento dello yen ai danni del won sudcoreano. Ma i problemi economici non risparmiamo nemmeno il fronte del consumo domestico. La piattaforma programmatica della neoeletta presidente Park Geun-Hye ha posto al centro la “democratizzazione” dell’economia e la creazione di uno stato sociale sul modello europeo (BloGlobal aveva già ampiamente trattato la questione QUI). Un programma di stimolo e di rivitalizzazione come quello promesso allo stato attuale sembra poco fattibile, a fronte di un indebitamento privato che è schizzato a un picco del 164% del reddito disponibile. Lo scoppio della bolla del debito privato è uno dei rischi a cui l’economia coreana potrebbe incorrere nel breve periodo e il nuovo governo è ben consapevole che una guerra con la Corea del Nord causerebbe il dispiego di risorse pubbliche utili invece a risanare l’economia e ad evitare una crisi sul modello spagnolo. Ciò che è interessante notare è la strategia che sembra profilarsi in capo ai vertici del partito Saenuri e alla stessa Presidente Park. L’attuale crisi con Pyongyang potrebbe infatti essere abilmente sfruttata per far convergere l’attenzione nazionale verso un risvegliato patriottismo e lasciare quindi ampio margine di manovra al governo per applicare un pacchetto di riforme drastiche, che interesserebbero questa volta i maggiori chaebols del Paese, i grandi conglomerati industriali come Hyunday e Samsung, colpevoli secondo molti di frenare la crescita e di inglobare la quasi totalità delle risorse del sistema finanziario ai danni di famiglie e piccoli imprenditori. Sebbene al momento si tratti di speculazioni, le ultime prese di posizione della Presidente Park, che non ha escluso l’intervento militare contro la Corea del Nord e una certa reticenza da parte degli esponenti del suo governo nell’affrontare direttamente le questioni economiche, lascerebbero intendere come questa strategia sia già in atto. D’altra parte, la stessa Park ha più volte ammesso in campagna elettorale di ispirarsi a Margaret Thatcher.
La guerra vista da Pyongyang: una pentola a pressione a chiusura ermetica
Le ragioni dell’escalation di minacce della Corea del Nord sono invece più oscure, anche a causa della difficoltà di reperire informazioni sulla reale situazione interna, così come sulle potenzialità che l’esercito avrebbe per renderle effettive. Le speculazioni sulla reale o meno potenza militare della Corea del Nord sono al momento inutili, se non vi è la comprensione del perché il topo ha deciso che come unica via di fuga alla sua condizione di intrappolamento doveva per forza mordere uno dei gatti.
Sulla reale condizione economica del Paese si è scritto molto e sebbene prevalga la visione di una popolazione allo stremo e di un’economia frustata dalle sanzioni economiche dell’ONU, la mancanza di indicatori ufficiali non permette di saltare a conclusioni ragionevoli. (Per maggiori informazioni vi rimandiamo a quest’articolo).
Le sanzioni, che sono state inasprite lo scorso marzo dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dopo una serie di test nucleari non autorizzati, sono al momento, insieme alle esercitazioni congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud, le giustificazioni più plausibili della nuova ribalta nordcoreana. In realtà, Pyongyang aveva già a suo tempo reagito in termini più o meno simili alla decisione delle Nazioni Unite e il giovane Leader Supremo, proprio come in questi giorni, non si era risparmiato nell’illustrare uno scenario apocalittico da Terza Guerra Mondiale. Questa ipotesi accende quindi l’attenzione su un possibile regolamento di conti interno, che vedrebbe un giovane dittatore pronto a rafforzare il risentimento dell’opinione pubblica verso i nemici imperialisti di sempre e affermare così la sua leadership contro l’enorme potere delle gerarchie militari.
Un’ulteriore opzione potrebbe invece derivare dal rapporto complicato tra il Paese e quello che è considerato il suo più solido alleato nonché principale partner commerciale, la Cina; un alleato che però ha spesso assunto un ruolo attivo negli incontri a sei parti sul programma di de-nuclearizzazione nordcoreano, promosso dall’amministrazione Bush.
Da sempre la Cina ha dimostrato di avere tutto l’interesse per mantenere lo status quo nell’area e non ha perso tempo a unirsi al coro di condanna internazionale contro le piazzate distruttive di Kim. Mentre il rebus coreano è visto come un banco di prova per la nuova classe dirigente del Partito Comunista Cinese, un’ulteriore interpretazione vedrebbe nell’escalation di tensione una precisa volontà nordcoreana per testare la propria alleanza con Pechino, in vista di un obiettivo più ambizioso.
L’instabilità attuale sarebbe in realtà frutto di un calcolo razionale e ben preciso: un trattato di pace con gli Stati Uniti che ponga fine all’armistizio del ‘53, un’ipotesi che però gli americani hanno per ora sempre rifiutato di considerare.
Lo scenario dunque che si apre è quello di una Corea del Sud che si appresta a sfruttare l’occasione della tensione con Pyongyang per affrontare importanti riforme sul piano nazionale e un regime nordcoreano pronto a correre nuovi rischi per ottenere qualcosa di ancora indefinito (alleggerimento delle sanzioni? aiuti umanitari?) dai principali attori internazionali. Tutte le opzioni sono al momento valide, ma quello che insegna il proverbio è che il topo non va mai sottovalutato, perché trovandosi alle strette potrebbe diventare ancora più imprevedibile e, per paura di essere sbranato dai “gatti”, correre il rischio di azioni ancora più sconsiderate.
* Daniele Villaci è Dottore in Relazioni Internazionali (Università di Pavia)