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E poi, seguendo sempre un procedimento di pause e ripartenze, si arriva nella metropoli, un formicaio di vetro e ferro percorso da esserini brulicanti, uno sguardo ai palazzi, ai grattacieli, totem moderni del lusso, alle strade graffiate dalle automobili, alla massa che aspetta la metro, alle catene di montaggio, alle catene di banconote, ai programmi televisivi, alle persone al bar che bevono il caffè. In questo andamento rapsodico Reggio abbraccia la quintessenza del caos metropolitano in un crescendo solenne di Immagine e Suono fino a che i due elementi non si fondono in una cosa sola, e allora se si chiude gli occhi comunque si vede, e se si tappano le orecchie ugualmente si sente. E quando la traccia visiva e quella audio raggiungono l’apice assoluto, il film si placa come la calma che giunge dopo un coito e, dal nulla, ritorna in alto. Il dio-cinema con il suo occhio iper-veloce si è saziato di umanità e ne ripropone alcuni frammenti, lampi mnemonici di persone a latere, primi piani dolenti e istantanee di tragedie intuibili. Alla fine, quel pezzo di razzo infuocato che precipita sembra una lacrima che scalfisce il cielo del mondo, o il mondo del cielo.
Divagando. Oh, saranno stati i primi scorci naturalistici, ma io ho pensato fin da subito al Malick di The Tree of Life (2011), poi ad un certo punto l’obiettivo si ferma sulle nuvole riflesse nei grattacieli e la sensazione si è trasformata in una piccola e personale conferma.
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