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Koyaanisqatsi

Creato il 13 novembre 2012 da Eraserhead
KoyaanisqatsiFilm-trip. Viaggio aereo, mistico, psichedelico che non ha tragitto pur avendo percorso, inondante come il più imbizzarrito dei fiumi eppure incanalato in una ferrea struttura, documentario che non documenta niente ma che al contempo è capace di ritrarre, lungometraggio muto in grado di riempire fino all’orlo i padiglioni auricolari. Koyaanisqatsi (1982) di Godfrey Reggio è tutto questo, o più schiettamente è tutto, laddove la totalità tracima nel mondo che ci circonda: il cinema come un’entità superiore che con le cuffiette ricolme della musica – sublime – di Philip Glass se ne va in giro per il creato. E allora non si può che partire dalla Natura (a onor del vero lo start è una litania che ripete il titolo) con la sua bellezza ammutolente e l’impareggiabile sontuosità della sua essenza; panoramiche che tolgono il fiato, brillantezza cromatica (sarebbe interessante sapere di quale strumentazione era dotato Reggio perché la qualità video è altissima), manipolazioni del tempo che verranno riproposte anche nel prosieguo ma che qui, con le nuvole in accelerazione sopra i picchi delle montagne, raggiungono vertici estetici sbalorditivi.
E poi, seguendo sempre un procedimento di pause e ripartenze, si arriva nella metropoli, un formicaio di vetro e ferro percorso da esserini brulicanti, uno sguardo ai palazzi, ai grattacieli, totem moderni del lusso, alle strade graffiate dalle automobili, alla massa che aspetta la metro, alle catene di montaggio, alle catene di banconote, ai programmi televisivi, alle persone al bar che bevono il caffè. In questo andamento rapsodico Reggio abbraccia la quintessenza del caos metropolitano in un crescendo solenne di Immagine e Suono fino a che i due elementi non si fondono in una cosa sola, e allora se si chiude gli occhi comunque si vede, e se si tappano le orecchie ugualmente si sente. E quando la traccia visiva e quella audio raggiungono l’apice assoluto, il film si placa come la calma che giunge dopo un coito e, dal nulla, ritorna in alto. Il dio-cinema con il suo occhio iper-veloce si è saziato di umanità e ne ripropone alcuni frammenti, lampi mnemonici di persone a latere, primi piani dolenti e istantanee di tragedie intuibili. Alla fine, quel pezzo di razzo infuocato che precipita sembra una lacrima che scalfisce il cielo del mondo, o il mondo del cielo.
Divagando. Oh, saranno stati i primi scorci naturalistici, ma io ho pensato fin da subito al Malick di The Tree of Life (2011), poi ad un certo punto l’obiettivo si ferma sulle nuvole riflesse nei grattacieli e la sensazione si è trasformata in una piccola e personale conferma.

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