Il regista Francesco Rosi
Non sappiamo quante volte abbiamo visto “Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi, un film prodotto da Franco Cristaldi e uscito nelle sale cinematografiche nel 1961.
Quel che è certo è che ogni volta abbiamo provato l’impressione di trovarci di fronte a un bel film, a una lettura attenta ai fatti realmente accaduti, a un’opera pervasa da realismo cinematografico di indiscutibile bellezza e suggestione.
Sia perché i protagonisti sono in gran parte non attori ma testimoni delle vicende narrate, sia perché le scene si susseguono coinvolgendo lo spettatore sequenza dopo sequenza. Infine, per l’ottima direzione della fotografia in bianco e nero di Gianni Di Venanzo, che ci ricorda i cinegiornali del dopoguerra; per le musiche di Piero Piccioni; per la sceneggiatura di Suso Cecchi D’Amico, Enzo Provenzale, Franco Solinas.
Ma a rivedere la pellicola, a distanza di un lungo tempo, ora che ci avviciniamo ai suoi cinquant’anni, e ora che sul capobanda di Montelepre ne sappiamo molto più di prima, ci assalgono non pochi interrogativi e qualche inquietudine.
Da cosa deriva questo stato d’animo? A prima vista, solo da alcuni particolari. Come quando, in via Condotti a Roma, passiamo davanti alle vetrine dei grandi stilisti con i loro capi di vestiario dai prezzi esorbitanti. Ma a guardare meglio scopriamo che alcuni dettagli ci convincono: un bottone fuori posto, una cravatta annodata male, una camicia non intonata alla giacca.
La narrazione del film prende le mosse dalla scena di Castelvetrano nel luglio 1950.
La ricostruzione sembra perfetta. Ma fino a un certo punto. Non risulta infatti che polizia, carabinieri e Servizi abbiano permesso a una folla di fotografi e giornalisti di irrompere nel cortile per fotografare quel corpo disteso a terra. Ce lo dimostra, nella realtà, una sequenza di foto scattate, quella mattina del 5 luglio, da Carnemolla e da Vincenzo Montalto. Queste ultime oggi proprietà dell’archivio Corseri di Castelvetrano. La folla è tenuta a debita distanza da un cordone di carabinieri. Solo un paio di fotografi hanno il permesso, a un certo punto, di avvicinarsi per qualche scatto. Non a caso, il cinegiornale della “Settimana Incom”, proiettato in tutti i cinema d’Italia qualche giorno dopo, mostra solo il cortile vuoto con una pozza di “sangue” nel punto in cui giaceva Giuliano.
Montelepre sotto assedio
La scena è preceduta da un cartello. Leggiamo che i fatti narrati si svolgono in quella landa di Sicilia famosa per essere il “regno di Giuliano”. Quasi che l’isola sia fuori dal tempo e dal mondo, immersa nella sua secolare condizione tribale.
Ma le cose, negli anni Quaranta, non stanno così. Al contrario. Dopo lo sbarco alleato, la Sicilia, prima regione dell’Italia liberata, è in pieno fermento. Torna la libertà di stampa e di associazione. Cominciano a risorgere sindacati e partiti. Nel 1944 sono varate le leggi di riforma agraria del comunista Fausto Gullo. Il mondo contadino si mobilita. Per la prima volta, governo nazionale e paria della terra si uniscono in un’unica battaglia. E’ il risultato dell’unità delle forze antifasciste che vede l’ingresso, nel marzo 1944, dei comunisti e dei socialisti nella compagine governativa, prima con Badoglio, poi con Bonomi e Parri e in ultimo con De Gasperi, fino al 31 maggio 1947.
E’ quello che scrive l’ambasciatore britannico in Italia, Noel Charles, nel luglio del ’47. Pensavamo – dice – che la sinistra vincesse al Nord dove c’era stata la lotta partigiana, e invece, a due anni dalla fine della guerra, il Sud ha stupito tutti diventando la punta di lancia del fronte popolare. Con piglio anglosassone, poi, rileva che il tesseramento del Pci è triplicato in dodici mesi.
Ma nel film di Rosi, del periodo 1943-’45 e di questo mondo che si batte per il progresso dopo vent’anni di fascismo, non c’è traccia alcuna. Nessuna lotta contadina, nessuna fame di terra e sete di libertà. Nessuna vittoria. C’è solo un’improvvisa comparsa del separatismo fotografato giusto nel momento in cui la sua sorte è segnata con l’arresto dei suoi leader ad opera del governo di Ferruccio Parri.
Dunque, manca la collocazione storica non solo della figura del bandito-terrorista di Montelepre, ma di tutto un mondo reazionario che si oppone al processo democratico in atto. Il film ne ritrae i personaggi come marziani sbarcati sulla terra. E’ possibile che il mondo politico siciliano visto da Rosi si riduca a quattro esaltati che decidono le sorti della Sicilia, urlando e battendo i pugni in un salotto aristocratico del centro di Palermo? La pellicola, insomma, non spiega che il Movimento per l’indipendenza della Sicilia (Mis) dell’ex fascista e massone Andrea Finocchiaro Aprile è tutta una cosa con i Servizi inglesi, con l’aristocrazia legata al nazifascismo, con le squadre armate antibolsceviche. Possibile che gli sceneggiatori siano ignari di fatti avvenuti appena dieci anni prima? Proprio loro che con i salotti della borghesia di sinistra e antifascista italiana hanno avuto una costante frequentazione?
Un ruolo fondamentale nel film è svolto dalla voce fuori campo. Metallica e inespressiva come nei cinegiornali Luce. E non racconta la verità.
Una scena del film a Portella della Ginestra
Mentre la cinepresa, ad esempio, compie una lenta panoramica sulla piana che va da Montelepre a Partinico e al Golfo di Castellammare, lo speaker dice che il “regno di Giuliano” è protetto da “omertà, passione, terrore”. Intere città come Torretta, Carini, Partinico, Alcamo, Borgetto e la stessa Montelepre sono ritratte come luoghi medievali in preda a una banda, la cui arma più forte è “il muro di silenzio” eretto dalla popolazione.
Un falso, questo, contraddetto dalle decine di testimoni che davanti ai giudici di Viterbo dicono quello che hanno visto, facendo nomi e cognomi dei mafiosi individuati dalla folla sul pianoro di Portella della Ginestra, la mattina del 1° maggio 1947. Alcuni saranno uccisi nelle settimane successive alla tragedia, come nel caso di Calogero Caiola, fulminato davanti alla sua abitazione subito dopo la chiusura del “Rapporto giudiziario” sulla strage (4 settembre 1947).
Altri siciliani onesti saranno vittime della lupara bianca, anche a distanza di anni. Insomma il popolo non ha paura di parlare perchè sa che è l’unico modo per arrivare alla verità. Altro che omertà dei siciliani. Lottano per la terra, si organizzano in sindacati, votano Pci e Psi, fino a vincere le prime elezioni regionali dell’Italia, il 18 aprile 1947. Un crescendo straordinario di democrazia e di civiltà, inimmaginabile persino al Nord.
Ma com’è questa Sicilia vista dal comunista napoletano Rosi, classe 1922?
Sembra di assistere a un vecchio western popolato da tribù indiane, da soldati della cavalleria dell’esercito Usa, da giornalisti affamati di notizie sensazionalistiche. Il tutto all’interno di un paesaggio impervio, tipo Arizona. La popolazione di Montelepre, ad esempio, è dipinta come un popolo selvaggio e assediato, in lotta perenne contro i soldati “bianchi” venuti dal Nord. Civiltà contro barbarie. Un luogo dove si sconosce l’Italia e si parla una lingua incomprensibile. Come nota il generale americano George Patton, appena sbarcato nell’isola nel luglio 1943. Questi siciliani, insomma, puzzano d’aglio, cantano dalla mattina alla sera come le cicale e cucinano e mangiano in mezzo alla strada. L’esercito che occupa Montelepre tratta la popolazione come una colonia etiopica, con gente che urla solo la sua protesta e con donne che come avvoltoi si scagliano contro i soldati per liberare i loro uomini dalle catene.
Una scena del film
Nel film, Montelepre è il luogo simbolo della Sicilia da redimere alla civiltà, un paese nemico dell’Italia, da sottoporre allo stato d’assedio. Uomini e donne appaiono chiusi in una disperazione atavica, privi di speranza e di futuro. Nella costruzione di tale simbolo i paesi siciliani sono come fortini inerpicati sulle montagne, lontani dalla civiltà e dalle vie di comunicazione. Qui non arrivano notizie e il mondo sembra finire sotto il campanile. Anche la lingua ha cadenze e forme espressive arabeggianti. E’ inevitabile che lo spettatore si proietti su queste vittime, schierandosi dalla parte del separatismo, su una spinta emotiva molto forte.
Dunque due elementi giocano a favore di una visione distorcente della verità storica, per quanto il regista non sia tenuto a seguirla. Il primo è il sovrappeso ideologico di un separatismo confuso e impulsivo. Il secondo è la totale rimozione della presenza nell’isola delle forze del Comitato di Liberazione Nazionale. Forze che invece sono cruciali nel determinare il blocco della follia indipendentistica e la costruzione del processo di Autonomia siciliana.
Il predominio di una lettura lombrosiana conduce all’errore inevitabile di considerare la Sicilia come terra dove regna sovrana l’anarchia.
Come ci racconta nel maggio 1947 Pemberton Pigott, un funzionario dell’ambasciata britannica di Roma, a proposito del Mezzogiorno . Il suo lungo rapporto inizia con un raffronto tra le città del Nord Africa e quelle del Sud d’Italia. Rileva, ad esempio, che molti villaggi assomigliano a quelli algerini e marocchini: “Cosenza potrebbe sorgere benissimo nella zona di Tizi-Ouzou, in Marocco, mentre i villaggi tra Brindisi e Lecce potrebbero essere situati tra Setif e Algeri.” E conclude: “Non è senza significato che vi sia una somiglianza tra i livelli di vita degli arabi nordafricani e delle popolazioni più povere del Meridione d’Italia.”
Ma mentre Pemberton capisce che “la crescita comunista è da mettere in rapporto con la povertà”, ossia con il desiderio di riscatto delle popolazioni abbandonate a se stesse, Rosi sembra non comprendere questo fondamentale elemento.
Ora, che siano generali e funzionari anglosassoni ad avere la puzza al naso è in qualche modo spiegabile. Assai meno si giustifica in un regista nostrano e nei suoi sceneggiatori. Tutti di sinistra. La grande isola mediterranea appare ai loro occhi come l’Afghanistan odierno in preda a mafie, rapinatori, estortori, assassini e bande armate. L’inciviltà ai suoi massimi livelli.
Con svarioni sconcertanti. Come, ad esempio, quando si dice che il separatismo non è stato inutile perché ha dato origine, nel maggio 1946, allo Statuto dell’Autononia siciliana. Un falso storico imperdonabile, che perdura anche al giorno d’oggi, come dimostra l’ articolo del sociologo Pippo Russo (Università di Firenze) intitolato “Giuliano milite ignoto del nuovo sicilianismo” pubblicato dalle pagine palermitane di “Repubblica” il 6 novembre 2010. O come continua ad essere predicato da qualche cattedra di sinistra delle nostre accademie sicule. Atteggiamenti errati che derivano, nel caso di Russo da un semplice descrittivismo sociologistico che non altera in nulla il fenomeno che egli registra , e in molti altri da una visione acritica e pedissequa della storia come luogo dove si sedimentano verità da non mettere in discussione. In realtà la storia è dinamica e serve a mutare la condizione umana e a intervenire, diremmo quasi in senso marxiano, nella prassi del reale.
Ben altra è la storia dell’Autonomia siciliana, legata, all’opposto delle strategie terroristiche della banda Giuliano e dei separatisti, alla lotta partigiana e all’unità delle forze antifasciste che hanno fondato lo Stato repubblicano e democratico, e dato origine allo Statuto del 15 maggio 1946. Epoca in cui Giuliano è in tutt’altre faccende affaccendato, tra le Squadre armate Mussolini (Sam), boss di mezza Sicilia, sbirri e spie di ogni risma. Sono in sua compagnia personaggi loschi come Salvatore Ferreri e Selene Corbellini, ex terroristi nazifascisti, che praticano la lotta armata contro i partiti di sinistra e i sindacati dei lavoratori. Giuliano non è solo. E non lo sarà per molti decenni.
Ma come è possibile che gli sceneggiatori siano vittime di un’amnesia così stupefacente? La perdita di memoria storica e politica fa veramente brutti scherzi. Appena dieci anni prima, infatti, giornalisti come Riccardo Longone e dirigenti comunisti di primo livello come Pietro Ingrao, scrivevano in articoli e saggi, anche su “l’Unità”, come stavano veramente le cose. E cioè che la Sicilia e il Mezzogiorno, dal 1943, erano in preda alle “teste di morto delle squadre d’azione”, cioè degli uomini della Decima Mas di Borghese, dei Servizi nazifascisti prima e delle Sam, dei Far (Fasci di azione rivoluzionaria) e dell’Eca (Esercitoclandestino anticomunista), dopo. Protetti, finanziati e armati dall’intelligence americana con sede a Roma. Altro che “Giuliano milite ignoto del nuovo sicilianismo”.
Come non capire, ad esempio, che l’Evis è definito dal Comando militare alleato, nel gennaio 1945, il braccio armato al Sud della Repubblica sociale italiana? O che è l’intelligence dei carabinieri a promuovere la formazione di bande armate anticomuniste in Calabria e in Sicilia, nel giugno 1946? Anche il Pci aveva i suoi agenti segreti e lo scriveva nel suo organo ufficiale a chiare lettere.
Salvatore Giuliano (manifesto)
E dire che lo stesso Rosi ha fatto parte, tra il 1947 e il 1948, di una troupe cinematografica al seguito di Luchino Visconti che nell’isola preparava il suo film “La terra trema”, come ci racconta Filippo Ceccarelli in un lungo articolo pubblicato da “Repubblica” (“La terra trema, il giallo del film dalla doppia vita”, 29 giugno 2008). E’ in questa circostanza che Visconti pensa di realizzare un documentario a caldo sull’eccidio di Portella, avviando ricerche e raccogliendo testimonianze.
Ma a distanza di dodici anni, nel 1960, le cose sembrano mutate. Il regista sposa la lettura ufficiale degli avvenimenti. Quella che il ministro dell’Interno, il democristiano Mario Scelba, espone ad appena ventiquattro ore dalla strage, in piena Assemblea Costituente. Un fatto relegato al feudo, a una civiltà medievale, fuori dal consorzio civile.
Rosi considera l’Evis un esercito e non una banda di scalmanati. La morte di Giuliano diventa un fatto centrale. Un elemento di certezza attestato dalla struggente scena della madre, Maria Lombardo, che bacia il volto del figlio ormai privo di vita. Ma si tratta di un falso, come ci racconta Marianna Giuliano, la sorella del bandito, in un suo libro dell’87. La madre e la figlia Giuseppina svengono a dieci metri dal cadavere, nell’obitorio. E ciò basta ai carabinieri presenti per attestare che quel corpo appartiene al bandito.
Infine Rosi mette in scena gli ultimi giorni di Gaspare Pisciotta, il luogotenente di Giuliano, al carcere borbonico dell’Ucciardone, nel febbraio 1954. I fatti sono per lui incontrovertibili. Quando tutto in questa storia è problematico, oscuro, da chiarire.
Al contrario, nella pellicola le cose si risolvono in un guscio antropologico. Manca l’ampio respiro della Storia. Questo è il problema. Il contrasto tra realtà e finzione. Tra l’essere e l’apparire. Giuliano è un’entità simbolica. Rappresenta la condizione siciliana di un mondo sofferente alle prese con uno Stato nemico e lontano. Rosi ripercorre la linea sottile, tracciata alcuni anni prima dal giornalista-spia americano Mike Stern, della costruzione del Robin Hood che toglie ai ricchi per dare ai poveri. E’ lui l’intreprete invisibile e non identificabile del popolo che lotta. In modo paradossale, su questa stessa linea si collocherà più tardi il film visionario e depistante di Michael Cimino. Ma in questa Italia tutto può accadere. Anche l’inversione dei giochi, quando la finzione diventa realtà e la verità è soffocata da una realtà che si frammenta in mille schegge.
Il dibattito è aperto.
Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino