(10.04.13)Regione Lombardia da anni cerca una improbabile legittimazione scientifica di sistemi agricoli insostenibili basati sulla monocoltura del mais, sempre più subalterni a interessi forti industriali e finanziari (e non lo dimostra solo il biogas)
Ma il mais finisce in depositi geologici?
L’improbabile esaltazione ecologica dell’agriusura
di Michele Corti (link)
Utilizzando in modo equivoco il concetto di “sequestro” di carbonio si vuole “dimostrare scientificamente” che la monocoltura maidicola è sì fortemente impattante ma fornisce una grande quantità di alimenti e contribuisce “meglio delle foreste” al “sequestro” della CO2 atmosferica. Alla grande quantità di CO2 fissata dalla coltura del mais, però, corrisponde un ritorno sempre più rapido di detta CO2 in atmosfera, una riduzione dello stock di carbonio organico del suolo e forti immissioni di energia fossile. Con il che il bilancio netto del sistema non può che risultare in un aumento della CO2 atmosferica.
Perché nell’intimo del suo significato coltura (e così cultura) è cosa fa crescere, cosa eleva, cosa onora, cosa è profondamente legato al culto, allora quell’attività che si esercita sulle pianure del mondo, che sfigura la terra e la porta verso il deserto, che mortifica la diversità, che produce cibo corrotto, che intossica chi lo consuma e chi quella terra lavora, non può propriamente essere chiamata agricoltura. Si tratta, infatti, di un’attività erosiva, estrattiva, tesa al profitto, a volte speculativa, che sarebbe più chiaro e, per il valore delle parole, più rispettoso chiamare agriusura e pensarla semplicemente – così è oggi – come un’appendice dell’agrindustria.
Massimo Angelini (2013), Minima ruralia, Milano, Pentàgora.
La monocoltura maidicona nella pianura padana è sul banco degli imputati, da tempo. In un articolo del 2007, che avevo pubblicato su alcune riviste, (scarica il PDF) avevo parlato di “Illusionismo verde” a proposito della campagna lanciata dal Grana Padano (e rilanciata con enfasi dall’allora assessore all’agricoltura Viviana Beccalossi) che millantava di “pulire l’aria” sequestrando 32.000 t di CO2 all’anno. Il Consorzio sosteneva anche che il Grana Padano era più virtuosi di “altri formaggi Dop”. Lo studio “scientifico” portato a sostegno di tali argomentazioni “dimenticava” di considerare che le forme di Grana Padano non sono destinate a depositi geologici ma al consumo e quindi alla mineralizzazione attraverso la spessa respirazione umana e i processi di degradazione della sostanza organica contenuta nelle feci. Tanta CO2 viene “bloccata” in una forma di formaggio e tanta ne viene “sbloccata” a consumo costante di formaggi.
In realtà tutta la presunta virtù ambientale del Grana Padano era legata alla componente principale della razione alimentare delle vacche (povere macchine da latte!) addette alla produzione della materia prima di tale formaggio. Ora, in vista, del dibattito sulla nuova Pac, qualcuno vorrebbe santificare sotto il profili ecologico lo stesso mais. La sua prodigiosa capacità di fissazione del carbonio ora viene giocata “in prima persona”. E si capisce bene perché: siamo in una fase in cui il trinciato va sempre più … a biogas.
Volete mettere la monocoltura maidicola con i boschi!
Nel numemo 1 del 2013 di Lombardia Verde (la pubblicazione della DG agricoltura della Regione Lombardia) si riferiscono i lavori di un seminario dell’Ordine degli agronomi e della stessa Regione Lombardia. Nell’articolo si esalta il miglioramento genetico che porta ad una grande caoacità potenziale di fotosintesi dimenticando che la produttività del mais è in declino nella pianura padana a causa dei fattori di degrado della fertilità naturale del suolo, della crescente resistenza di malerbe e parassiti, alla presenza di nuove avversità quali la Diabrotica, dimenticando che il “miglioramento genetico” è ormai controbilanciato e annullato da fattori che causano minori rendimenti. Ma c’è dell’altro.
Ci si spinge a quantificare l’apporto della monocoltura maidicola alla fissazione di CO2 spingendosi a confrontare questa capacità “ambientale” con i servizi analoghi resi dal bosco e concludendo che è molto meglio il mais. Di qui alla richiesta di una medaglia, di un premio in moneta sonante per far pagare al consumatore questi servigi preziosi resi al pianeta e alla società.
Il pubblico ignaro, di fronte a termini quali “fissazione”, “cattura”, “sequesto” resta ovviamente confuso. “Ma come c’è chi dice che l’agricoltura industriale provoca forti impatti ambientali e ora ci dicono che più è intensiva, più è industriale e meglio è per l’ambiente”. In realtà tra “fissazione” e “sequesto” di CO2 c’è una bella differenza. Tanto è vero che per evitare equivoci chi propone l’iniezione di CO2 a oltre 1 km di profondità al di sotto di strati geologici atti ad impedire ogni risalita verso l’atmosfera parla di “sequesto geologico”. Quello sì che è un sequesto… tombale. Ma le fissazioni, le catture, i sequesti di cui parlano gli apologeti dell’agroindustria che sequestri sono? Alla società servono dei sequesti di CO2 dell’ordine dei decenni, in grado di rallentare la crescita esponenziale della concentrazione di CO2 nell’atmosfera e quindi il riscaldamento. Giusto il tempo di dare all’umanità il modo di rinsavire e di adottare nuovi sistemi di produzione e consumo (o di dare la possibilità agli oceani di attivare – non senza essere passati per sconvolgimenti ecologici catastrofici dell’habitat marino legati all’acidificazione delle acque, nuovi meccanismi di fissazione della CO2).
Scienza o mistificazione?
La mistificazione insita nel confronto tra fissazione di CO2 annuale di un bosco e di un campo di mais avviene a due livelli: da una parte si dimentica che il bosco è un ricco sistema vivente, che non ci sono solo gli alberi che catturano CO2. Il bosco è una ricca biocenosi che comprende animali, piante, microrganismi, sopra e sotto il livello del suolo. La capacità di accumulare C organico di questa biocenosi è molto più elevata di quella della sola componente arborea. Ma vi è un aspetto ancora più importante e che è dato dal riferimento temporale della “cattura”. In un bosco rinnovato di recente (sia per intervento selvicolturale che per l’effetto di una ciclicità naturale) vi è la possibilità di capitalizzare per molti decenni l’incremento legnoso. È sufficiente rallentare o rimandare l’utilizzo di un bosco per accumulare automaticamente molta CO2. Nulla di tutto ciò è possibile in una coltura annuale come il mais il cui raccolto è destinato al consumo, che non può essere immagazzinato a lungo nei silos. Ma il consumo cosa significa? Sia che venga assunto direttamente come foraggio o come componente di mangimi, misceloni ecc. ll mais viene ingerito dagli animali di interesse zootecnico: vacche da latte, vitelloni, maiali, polli. Gli animali in parte eliminano la sostanza organica con gli excreta (feci e urine), in parte riemettono C come CO2 con la respirazione. I prodotti animali vengono consumati dagli umani. Il pollo industriale in 50 giorni è pronto e servito in tavola. Il C fissato nei prodotti animali viene a sua volta eliminato come sostanza organica o CO2 dagli umani. Come si diceva all’inizio il formaggio prodotto con il latte delle vacche alimentate con il mais può essere fatto stagionare un po’ di più (quando il mercato non tira). Ma sono “congelamenti” di mesi cui corrispondono successive riemissioni nel circolo. La vera “cassaforte” di CO2 è il suolo agricolo. Ma, sino ad oggi, la tendenza è stata a depauperarla e quindi ad immettere ulteriore CO2 nell’atmosfera. In ogni caso è bene concentrarsi su un punto: il carbonio fissato dalle piante di mais è rapidamente reimmesso in atmosfera e, se il contenuto di sostanza organica del suolo rimane costante, tanta CO2 viene fissata e tanta viene rilasciata (da animali, piante, microrganismi, uomini).
Il bilancio netto
Se il carbonio fissato è compensato dal carbonio che torna in atmosfera dopo essere passato nel ciclo pianta-erbivoro-consumatore quello che fa la differenza e costituisce un saldo negativo del sistema è la CO2 derivante dalle fonti fossili utilizzate per fornire energia agli impianti di produzione dei concimi chimici, dei pesticidi, delle macchine agricole e per far marciare gli stessi mezzi agricoli necessatri ai trasporti e alla lavorazione del terreno. In un bosco naturale questa “voce” è semplicemente zero (ma quasi zeo anche in un pascolo).
Il ruolo dell’agricoltura
In realtà per fronteggiare il problema delle emissioni di CO2 e del riscaldamento climatico quello che può fare l’agricoltura è trasformare i terreni agricoli in pascoli o foreste e/o modificare i sistemi agronomici. La riduzione delle lavorazioni, il mantenimento di una copertura vegetale permanente, la riduzione dell’uso dei pesticidi può rendere compatibile la coltivazione con un forte aumento della sostanza organica (C organico) nel suolo. Tutto ciò che aumenta la massa radicale, la biomassa vivente del suolo (microrganismi e fauna terricola), le restituzioni di sostanza organica (interramento di stocchi e stoppie, letame, compostaggio) può invertire la tendenza all’impoverimento dei suoli utilizzati dall’agricoltura industriale basata sulla monocoltura.
La riduzione delle lavorazioni comporta un forte risparmio di energia fossile, altrettanti risparmi possono derivare dalla riduzione dell’uso dei concimi chimici e dei pesticidi, dall’aumento delle colture azotofissatrici, dal ritorno alle rotazioni. Sì, ma è un agricoltura che produce meno rispondono i difensori d’ufficio del sistema agrindustriale. L’agriusura, come la definisce Massimo Angelini, sembra essere molto produttiva, ma è una produttività drogata: distrugge capitali di fertilità, di acqua pulita, di biodiversità, continua ad attingere alle riserve di energia fossile. L’agriusura distrugge più di quello che produce, solo che il mercato non lo fa vedere. Qualche giorno fa l’Ispra (Ist. sup. per la protezioen dell’ambiente) ha reso pubblico il Rapporto pesticidi 2013 con i dati aggiornati al 2010. La percentuale delle acque contaminate da pesticidi è in aumento e aumenta anche il numero dei principi attivi contaminanti.
Nella mappa in rosso i punti rossi corrispondono a prelivi di acque superficiali con presenza di pesticidi oltre i limiti massimi di legge. E la mappa dice chiaro che c’è un legame tra mais e contaminazione. Però il mais (la monocoltura maidicola) è responsabile anche di altri danni: erosione, compattamento del suolo, perdita di sostanza organica e di biodiversità. Il sistema agrozootecnico basato sul mais regala anche inquinamento da nitrati e accumulo di metralli pesanti nei terreni (oltre antibiotici e disinfettanti). La pianura padana è una delle aree d’europa dove si concentrano tutti gli impatti che penalizzano l’agricoltura (in larga parte prodotti dall’agricoltura industriale stessa). Altro che premiare i servizi ambientali dell’agricoltura industriale. Sarebbero da far pagare i danni dell’inquinamento da pesticidi e nitrati (oltre alle emisisoni di ammoniaca, ossidi di azoto, ecc.). Un modo che metterebbe in difficoltà l’agriusura e libererebbe gli agricoltori dalla dipendenza sempre più soffocante dal sistema industrial-commerciale-finanziario. Chi finge di difendere l’agricoltura chiedendo sospensive alla direttiva nitrati, mantenendo la vecchia logica della Pac in realtà lavora per interessi opposti a quelli autentici dell’agricoltura.