L’ALBERO
Di Yari Selvetella
Che cosa ci faceva
l’albero di gelsi bianchi
nella mia borgata
uno solo nel campo
di soli cardi di calcinacci erbacce
qualcuno (chi era stato, uno di noi ragazzini)
disse che i frutti
- nell’estate trasparente
potevamo prenderli e mangiarli
verdognoli fili annodati
polpa tosta
ma erano buoni
o un veleno tra gli altri
- nell’estate avvelenata
già da polveri e bolidi
Era stato forse qualche manovale
con la faccia puntata
da gocce di nostalgia – schizzi di calce –
o forse solo un vento insistente
del sud un sud lontano
un vento fiero di volontà
a trascinare un germoglio
proprio nel centro del campo
al centro della mia borgata
dove poche cose germogliavano
Eravamo quattro
Elias il negro
Massimo Ciccio
il figlio biondo del falegname
e io
poi mio fratello piccolo
lo tenevo per mano
Fu lui che strappò un ramo
separò la foglia dal frutto
e masticò ridendo
– com’è dolce disse
e mangiammo tutti quanti
confetti zuccherini
semi siciliani
spogliammo quell’albero
in fretta
guardandoci infine in cagnesco
per l’ultimo boccone
già l’addome ci doleva
Ce ne andammo a piedi
invidiando motorini
c’erano incendi
- nell’estate bianca
campi secchi che ardevano
e strepitavano
Che l’albero bruciasse
lo temevamo andandocene
ma andammo comunque
ci piaceva allora
quel fuoco
prometteva che il domani
era l’unica via possibile
era già il passato dolcissimo
che ci mordeva la pancia
[Foto di Max Botticelli]