di Sara Brzuszkiewicz
Il 17 aprile oltre 38 milioni di algerini saranno chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica Democratica Popolare. Una data fondamentale per le sorti presenti e future del Paese retto dal 1999 da Abdelaziz Bouteflika, passato indenne attraverso gli ultimi turbolenti anni e le cosiddette Primavere Arabe, ma ancora incapace di garantire una svolta positiva al processo democratico. Ad un’analisi più approfondita, infatti, risulta evidente come in Algeria siano presenti squilibri sociali molto forti e un diffuso malcontento popolare provocati da un lato dalla stagnazione economica e da una critica totale verso la staticità del sistema politico vigente, dall’altro dal fenomeno mai sopito del terrorismo di matrice islamista. Saranno, dunque, molte le sfide strutturali che il prossimo – o forse il vecchio – Capo di Stato dovrà affrontare per favorire un complessivo sviluppo del sistema-Paese e per scongiurare il rischio di un prolungato periodo di instabilità crescente.
Contesto
Sebbene non sia lecito parlare di una “Primavera algerina”, il Paese condivide con i vicini nordafricani molte precondizioni che, a seguito delle elezioni presidenziali, potrebbero condurre ad un inasprimento delle tensioni sociali e ad un aumento delle proteste sempre latenti e mai pienamente esplose in tutta la loro veemenza su tutto il territorio. Quattro sono le problematiche più pressanti e inestricabilmente connesse tra loro.
Il primo scoglio riguarda l’eccessiva dipendenza economica dagli idrocarburi. Nonostante l’Algeria goda di un deficit di bilancio contenuto e di un debito estero basso (2% nel 2012), l’eccessiva dipendenza dell’economia algerina da tali risorse – che costituiscono un terzo del PIL, due terzi delle entrate del governo e circa il 98% delle esportazioni – rappresenta un importante freno allo sviluppo, dato che tale industria assorbe solo il 3% della popolazione attiva. Con 12,2 miliardi di barili annui e 2,9 miliardi di piedi cubi l’anno, l’Algeria rappresenta rispettivamente il terzo e il primo Paese africano per quantitativo di petrolio e di gas. Una ricchezza tale che tuttavia non ha favorito l’attrazione degli investimenti diretti esteri in un settore strategico che necessita di grandi investimenti utili a creare occupazione e rendere competitivo il Paese con gli altri leader regionali come Libia o Nigeria. La dipendenza dagli idrocarburi non rappresenta un limite soltanto nell’economia ma nel lungo periodo potrebbe influire sui tassi di consumo interno di gas e petrolio se questi si manterranno inalterati, tanto che secondo previsioni di governo tra il 2023 e il 2026 l’Algeria diventerà importatrice di petrolio e di gas. Sebbene il trend sia ancora in parte modificabile, risulta tuttavia innegabile che passare da esportatore ad importatore delle due più grandi risorse per il Paese, per di più in uno spazio temporale tanto ristretto, costituirebbe uno sconvolgimento di portata ancora ignota per lo Stato nordafricano.
A destare ulteriori preoccupazioni influiscono anche i dati relativi all’aumento demografico, alle mancate riforme promesse dall’establishment in questi anni, ai problemi di sicurezza, alla corruzione pervasiva e all’eccessiva burocrazia che rappresentano un freno allo sviluppo economico e sociale del Paese. Neppure incoraggiare l’imprenditoria algerina e favorire gli investimenti privati sono state direzioni perseguite con convinzione dal governo in carica. Attualmente solo poche aziende estere, per lo più Cinesi, operano in Algeria, di solito spartendosi i profitti con la classe dirigente e militare e in tal modo limitando le prospettive per le generazioni più giovani.
Dalla fine della Guerra Civile (1991-2000) i governi hanno sovente sfruttato la liquidità derivata dagli idrocarburi per premiare i fedelissimi e comprare la lealtà dei detentori di interessi differenti, non favorendo una vera competizione e un reale progresso socio-economico nella struttura produttiva nazionale. Pur trovandosi in presenza di un sistema poco redistribuitivo, se non nei momenti di maggiore difficoltà dove le ricchezze degli idrocarburi sono servite a comprare la pace sociale come è avvenuto nei rentier state classici come l’Arabia Saudita e la Libia pre-rivoluzione del 2011, ampie fasce di popolazione restano escluse dai meccanismi basilari di tutela sociale, dove si calcola ad esempio che non ne beneficino l’84% degli occupati in agricoltura ed il 78% di quelli nell’edilizia [1].
La seconda problematica è la disoccupazione diffusa (9,8% nel 2012) – in particolare quella giovanile che ha ormai superato il 30% – che costituisce un fattore di potenziale instabilità sociale, nonostante nell’ultimo decennio si siano creati migliaia di posti di lavoro. Il livello di precarietà di tali occupazioni infatti è talmente forte da essere parte di una sorta di meccanismo di vasi comunicanti tra impiego regolare e lavoro nero, estremi tra i quali centinaia di migliaia di algerini sistematicamente oscillano più volte anche nel corso di un solo anno.
Il tema della disoccupazione si ricollega con la terza piaga dell’attuale Algeria: l’assenza di prospettive per i giovani. Secondo tendenze demografiche comuni a tutto il Medio Oriente, negli ultimi tre decenni la mortalità infantile si è abbassata notevolmente, ma il tasso di fertilità, pur subendo a sua volta un graduale decremento, non è sceso di pari passo. La sinergia di questi due andamenti ha causato ciò che da molti è definito “bomba demografica”. Nel quadro di tale fenomeno nell’ultimo decennio si è verificato un inedito aumento del numero di giovani pronti a fare il proprio ingresso nel mondo del lavoro, senza tuttavia che quest’ultimo fosse preparato ad accoglierli. Considerando l’attuale tasso di crescita demografica dell’1,5% annuo inoltre, è probabile che il Paese superi i 40 milioni di abitanti entro il 2020, ben il 68% dei quali avrà meno di 34 anni. Oggi la popolazione under-30 rappresenta i due terzi del totale e già nel 2010 quelli senza lavoro costituivano il 30% dei giovani laureati algerini. A ciò si aggiunga che, attratti da prospettive migliori, migliaia di giovani sempre più istruiti continuano a spostarsi dalle zone rurali alle città, determinando un’urbanizzazione ancora in gran parte fuori dal controllo dello Stato che ha fatto passare gli abitanti delle aree urbane dal 44% al 72% degli algerini in poco più di tre decadi.
Un quarto fattore potenzialmente esplosivo, per molti versi ovvia conseguenza degli altri tre, è la scarsa fiducia nelle istituzioni. Gran parte degli algerini è ben conscia dell’esistenza nel Paese non solo di una classe dirigente vecchia e intenzionata a mantenere privilegi consolidati e status quo, ma anche della diffusa corruzione in tutti i gangli del sistema istituzionale e di quello produttivo. Tale sfiducia, se in un futuro non lontano potrebbe contribuire a far emergere lo scontento, in una fase precedente si è manifestata, ad esempio, con la scarsa affluenza alle urne. Alle elezioni legislative del maggio 2012 solo il 42% degli aventi diritto ha votato, e di coloro che lo hanno fatto il 18,3% ha lasciato scheda bianca.
Nel 2012 l’Algeria si è classificata al 105° posto su 176 Stati esaminati nel Corruption Perception Index, indicatore della percezione dei cittadini circa la corruzione del settore pubblico nel proprio Paese. Nel Report relativo al 2010 della Open Budget Initiative inoltre, documento atto a valutare la trasparenza dei governi nel rendere pubbliche le informazioni circa la spesa pubblica, ha ottenuto un punteggio di 1 su 100. La firma da parte dell’Algeria della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione nel 2004, ratificata peraltro con riserve, e la redazione di una legge anti-corruzione nel 2006, sembrano dunque misure ancora in gran parte di facciata.
Come si è evitata la Primavera algerina?
Proprio su simili presupposti nel gennaio 2011 le proteste proruppero in Algeria, quasi contemporaneamente a quelle tunisine ed egiziane che avrebbero offuscato le più contenute manifestazioni nel Paese del Presidente Bouteflika. Sebbene alcune fondamentali precondizioni fossero omologhe a quelle che altrove hanno portato al rovesciamento dei regimi, in Algeria ciò non si è verificato, e questo per alcune ragioni fondamentali.
La prima è che, fin dall’inizio delle proteste, il governo rimosse lo stato d’emergenza ed istituì una Commissione per le Riforme. Il fatto che i due provvedimenti avrebbero cambiato poco a livello concreto fu chiaro solo in un secondo momento, allorché risultarono evidenti non solo la presenza intatta di forze dell’ordine nelle strade e i divieti persistenti di assembramento e manifestazione, ma anche il fatto che nella Commissione spadroneggiassero per lo più insider del governo e rappresentanze della società civile comunque fedeli al Presidente. Una seconda risorsa con la quale lo Stato ha scansato i venti della Primavera e di cui invece Tunisia ed Egitto erano sprovvisti è stata la notevole liquidità monetaria derivante dagli idrocarburi. Oltre a pronte azioni di facciata e denaro, un ulteriore punto a favore del governo venne segnato dalle forze dell’ordine algerine che, come in Marocco, seppero avere mano ferma senza tuttavia intraprendere una repressione violenta e mediaticamente rumorosa, come è stato invece a più riprese in Egitto e, in tempi più recenti, anche nel diverso contesto delle proteste di Piazza Taksim di Istanbul, in Turchia. La mancanza di unità delle opposizioni, incapaci di portare avanti rivendicazioni comuni, completa il quadro dei fattori che hanno scongiurato il perdurare delle sollevazioni.
In realtà il governo algerino aveva un ultimo, meno tangibile asso nella manica che indubbiamente ha giocato un ruolo primario nell’impedire che gli eventi precipitassero: il ricordo indelebile della Guerra Civile. Nonostante ciò non valga per i giovanissimi, milioni di algerini hanno vissuto solo pochi anni fa scontri che hanno provocato tra i 50 ed 150 mila morti tra il 1991 ed il 2002 (le stime sono molto incerte). Altrettanto indimenticabili sono stati gli strascichi della Guerra, prolungatisi ben oltre l’inizio del processo di pace avviato da Bouteflika nel 1999 e tanto lunghi da creare disaccordo tra gli storici circa la data di fine dello scontro vero e proprio. Secondo fonti indipendenti infatti, e nel quasi totale oblio dei media algerini e non, ancora nel 2006 sarebbero state 300 le vittime degli scontri tra forze governative e la frangia più irriducibile del Gruppo Islamico Armato (GIA), composta dai fondamentalisti del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC) e dai Difensori degli Insegnamenti Salafiti, fazioni che rifiutarono di deporre le armi in cambio dell’amnistia nel 1999. Con tutta probabilità si tratta di gruppi oggi legati ad al-Qaeda e fautori dell’instaurazione di un califfato islamico in Nord Africa.
Roccaforte della stabilità regionale?
Una costante della politica interna ed estera algerina degli ultimi anni è stata l’importanza accordata a Difesa, sicurezza e intelligence. Gran parte dei proventi derivanti dagli idrocarburi viene incanalata in questo settore, le forze armate sono le più numerose della regione e molteplici passi sono stati compiuti al fine di rafforzare il ruolo di baluardo nordafricano. Nel 2010 ad esempio, l’Algeria ha creato il Joint Operational General Staff Committee (CEMOC) con Mali, Mauritania e Niger.
Ma è nei rapporti con l’Unione Europea che la sicurezza rappresenta un ambito privilegiato, secondo solo al settore energetico nel quale l’Algeria è il terzo fornitore per la sponda Nord del Mare Nostrum. Allo scoppio delle Primavere l’Algeria ha dovuto osservare in Paesi vicini rivendicazioni democratiche presto seguite dal rischio di risorgenze dell’Islam politico e concomitanti ad una progressiva polverizzazione e ad un’inedita internazionalizzazione del jihad.
In un simile scenario Bouteflika ha aumentato gli sforzi atti a mantenere l’Algeria roccaforte della stabilità in Nord Africa e nel Sahel. Su queste basi è proseguita la cooperazione con l’Europa ed il Paese è oggi membro di rilievo del Forum Globale per la Lotta al Terrorismo nato nel settembre 2011.
Alla fine del 2012, con l’intervento francese in Mali, il ruolo algerino si è fatto ancor più delicato. Si temeva uno spill-over del conflitto maliano, che aveva già portato migliaia di rifugiati ad attraversare il confine meridionale algerino, ma soprattutto l’azione dei jihadisti di Ansar al-Dine. Al tempo stesso, molti algerini non vedevano di buon occhio la collaborazione attiva con l’ex-potenza coloniale in uno Stato limitrofo. La posizione adottata ha determinato infine la concessione dello spazio aereo algerino per le operazioni in Mali, nonché la scelta di favorire e ospitare i negoziati tra il governo maliano e gli Ansar a fine 2012.
Fonte: US Energy Information AdministrationA metà gennaio 2013 tuttavia la stabilità algerina venne messa nuovamente in discussione dall’attacco all’impianto di In Amenas, nel Sahara sud-occidentale a pochi chilometri dal confine con la Libia. Quello di In Amenas era uno stabilimento sfruttato congiuntamente dall’algerina Sonatrach, dalla britannica BP e dalla Statoil norvegese nel quale lavoravano oltre 800 stranieri. L’attacco fu guidato dal jihadista algerino Mokhtar Belmokhtar, addestrato in passato da al-Qaeda in Afghanistan e resosi indipendente da al-Qaeda per il Maghreb Islamico solo a fine 2012. L’intento del folto commando era giungere allo scambio degli ostaggi stranieri con alcuni islamisti catturati mentre combattevano nel Mali settentrionale, oltre a perpetrare un’azione di risposta contro la decisione algerina di concedere alla Francia lo spazio aereo del Paese durante le operazioni contro gli islamisti in Mali. Il bilancio dell’attacco fu di 38 ostaggi e 29 terroristi morti.
In questo scenario risulta chiaro come l’Algeria si sia trovata, in questi ultimi tre anni, stretta tra due tendenze per il Governo quasi parimenti inquietanti: la risorgenza del jihadismo armato e le rivendicazioni democratiche dei popoli vicini. Fino ad ora la lettura della storia presentata da Abdelaziz Bouteflika ha presentato come intrinsecamente interconnessi questi due fenomeni, al fine di scoraggiare l’uno con lo spettro dell’altro. È anche per questa ragione che uno dei centri nevralgici del potere continua ad essere il Département du Rénseignement et de la Sécurité (DRS), il centro dei servizi di intelligence algerina guidato dal Generale Mohamed Mediène, conosciuto anche come Generale Towfik e secondo molti l’uomo più potente del Paese già dai sanguinosi anni Novanta.
Le imminenti elezioni presidenziali
Il 17 aprile gli algerini voteranno per il nuovo Presidente della Repubblica. I candidati sono sei ed il favorito è Abdelaziz Bouteflika, che iniziò il suo primo mandato nel 1999 ed è tuttora in carica. Membro del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) dal 1956, è uno dei padri fondatori dell’Algeria post-coloniale. A seguito dell’Indipendenza (1962), prese parte all’Assemblea Costituente e fu Ministro sotto il primo Presidente, Ahmed Ben Bella. Nonostante le precarie condizioni di salute, concorre oggi per la quarta volta, dopo che nel 2008 una riforma costituzionale tolse il limite di due mandati.
L’unico rivale plausibile sembra essere Ali Benfis, uno dei fondatori della Lega Algerina per i Diritti Umani e a sua volta membro dell’FLN. Gestì la prima campagna elettorale di Bouteflika e ne fu il Premier nel 2001, per poi candidarsi senza successo contro di lui alle presidenziali del 2004. Da segnalare è la presenza dell’unica candidata donna, l’attivista Louisa Hanoun, cofondatrice nel 1989 dell’Associazione per l’Uguaglianza davanti alla Legge tra Uomini e Donne. In seguito fu portavoce del Partito Socialista dei Lavoratori, oggi Partito dei Lavoratori, di cui è segretario dal 2003. Come Benflis, concorse alle presidenziali già in passato, nel 2004 e nel 2009, ma gli ultimi sondaggi non le lasciano particolari speranze.
Le proteste e l’invito al boicottaggio elettorale
Seppur ancora molto divise sono molte le forze che in questi primi mesi del 2014 hanno annunciato il boicottaggio delle elezioni. Tra esse si distinguono il Movimento Sociale per la Pace, di ispirazione religiosa, ed il Movimento per la Rinascita Islamica. Lo scorso 22 marzo, giorno di apertura ufficiale della campagna elettorale, 5 mila manifestanti hanno marciato ad Algeri invitando al boicottaggio delle presidenziali e invocando riforme istituzionali. Nelle strade di Algeri risuonava il grido Barakat, che nel dialetto arabo algerino sta a significare “Basta così”, secondo un’interessante analogia con il Kifeya “Basta!” egiziano, movimento nato nel 2004 contro il regime di Hosni Mubarak. Anche in Algeria alcuni manifestanti hanno dato vita ad un Movimento Barakat, precedentemente Movimento 1° Marzo, giorno in cui la polizia disperse altre proteste anti-governative. Attualmente vi sono decine di arresti in corso, ma non è da escludere che, con l’approssimarsi delle elezioni, il loro numero aumenti esponenzialmente.
Prospettive
Dati l’inesorabile esaurimento delle principali risorse economiche, il crescente dissenso interno e il vacillante ruolo di baluardo della sicurezza nordafricana, il futuro dell’Algeria si annuncia ricco di incognite. Ciò che il prossimo Presidente della Repubblica dovrà comprendere è che aver resistito fino ad ora ai venti del cambiamento non significa esserne immuni.
Tanto l’establishment politico algerino tanto i partner commerciali e soprattutto strategici europei hanno davanti a sé due opzioni: la prima è proseguire sulla strada di questi ultimi anni, ignorando finché sarà possibile i vuoti democratici e lo scontento popolare. La seconda, meno probabile, sarà quella di un più previdente riconoscimento dei numerosi campanelli d’allarme che indicano senza dubbio la crescente vulnerabilità dell’Algeria.
* Sara Brzuszkiewicz è Dottoressa in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale (Università di Milano)
[1] Lachen Achy, On the Algerian economy: a widening gap between resources and achievements, Carnegie Endowment for International Peace, November 2013
Photo credits: AFP/Getty Images
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