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L’altra faccia della moda: metalli pesanti nei fiumi e sostanze tossiche negli indumenti

Creato il 23 settembre 2011 da Progettiambiente
L’altra faccia della moda: metalli pesanti nei fiumi e sostanze tossiche negli indumenti

Youngor Textile Complex

La moda è spesso lontana dall’etica e dalla sostenibilità. Marchi di spicco e griffe celano frequentemente diritti violati e danni all’ambiente. Anche per il settore tessile infatti, negli ultimi anni, si è riscontrata la tendenza a delocalizzare le fasi produttive più inquinanti verso i PVS (dove gli standard ambientali sono notoriamente più bassi e la manodopera sottopagata). Crescono così le importazioni di prodotti d’abbigliamento come jeans, t-shirt, scarpe, intimo, etc, da paesi del sud-est asiatico (dalla Cina in particolare); articoli che poi finiscono in vendita nei mercati di Paesi occidentali che, assecondando questo meccanismo, delocalizzano anche la contabilità dei gas serra.

Greenpeace aveva già denunciato l’inquinamento dei fiumi cinesi prodotto dagli scarichi delle industrie tessili delocalizzate nel report ‘Dirty Laundry. Unravelling the corporate connections to toxic water pollution in China’. Come emerge chiaramente da questo documento, a essere minacciati sono soprattutto il Fiume Azzurro e il Fiume delle Perle. L’elenco delle sostanze rinvenute dai ricercatori nei campioni d’acqua prelevati presso gli scarichi dei due principali complessi industriali cinesi (lo Youngor Textile Complex e il Well Dyeing Factory Limited) è impressionante: alchilfenoli composti perfluorurati, cromo e altri metalli pesanti (nichel, rame, ecc.), cloroformio, etc. Si tratta di sostanze dannose per la salute umana. Dietro questi distretti industriali cinesi ci sono le grandi marche dello sport nazionali ma soprattutto internazionali che, con il loro potere economico, hanno la forza di influenzare l’intera catena di produzione e il mercato. Nel mirino Nike, Adidas, Puma, così come marchi internazionali di moda come Lacoste, H&M, Calvin Klein e Converse.

Oggi l’associazione ambientalista torna sul tema con la relazione ‘ Dirty Laundry 2: Hung Out to Dry. Unravelling the toxic trail from pipes to products‘ . Dagli scarichi tossici ai prodotti in vendita’ presentata recentemente a Pechino. Questo rapporto rivela che composti pericolosi per salute e ambiente vengono usati nella produzione di abiti sportivi di brand internazionali. Su 78 articoli di abbigliamento e scarpe sportive acquistati da Greenpeace in 18 differenti paesi in tutto il mondo, fra cui anche l’Italia, 52 prodotti appartenenti a 14 marche differenti (tra cui Adidas, Uniqlo, Calvin Klein, H&M, Abercrombie&Fitch, Lacoste, Converse, Nike e Ralph Lauren) sono risultati positivi al test sui nonilfenoli etossilati (NPE). Questi composti, usati anche nell’industria tessile, una volta rilasciati nell’ambiente si trasformano in una sostanza pericolosa, il nonilfenolo (NP). Il nonilfenolo è persistente poiché non si degrada facilmente ed è bioaccumulante in quanto si accumula lungo la catena alimentare. È molto nocivo: può alterare il sistema ormonale dell’uomo anche se presente in concentrazioni piuttosto basse.

Secondo Greenpeace quanto emerso è solamente la punta di un grosso iceberg. L’uso di composti pericolosi nell’industria tessile è un problema globale che rischia di inquinare le acque di tutto il mondo. I grandi brand dell’abbigliamento sportivo sono responsabili di questi scarichi pericolosi e le persone hanno il diritto di sapere quali sostanze sono presenti negli indumenti che indossano e quali effetti causano una volta rilasciati nell’ambiente. Per il momento, solamente Adidas e Puma hanno raccolto la sfida lanciata dall’associazione impegnandosi ad eliminare entro il 2020 tutte le sostanze pericolose dai prodotti messi in commercio. Purtroppo il quadro complessivo resta davvero critico. Al momento, spiega Vittoria Polidori responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace, nessuna delle aziende indicate nel rapporto ha una visione completa dell’intero processo produttivo che porta alla fabbricazione del prodotto finito, la soluzione al problema e’ in primis adottare una chiara politica chimica che permetta alle aziende, attraverso monitoraggi periodici e scadenze precise, di ridurre e infine eliminare l’uso di composti pericolosi lungo l’intera catena di rifornimento.

Autore: Sara Colombo


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