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“L’amavo troppo la mia patria non la tradite…”

Creato il 23 novembre 2010 da Fabry2010

“L’amavo troppo la mia patria non la tradite…”
[ ⇨ prima facciata dell’ultima lettera scritta da Giancarlo Puecher ]
di Orsola Puecher

In questo tardo Novembre di governi e valori al tramonto, le sorprese non finiscono mai, ma l’ultima cosa che mi sarei aspettata era di trovare, citato su Il Fatto Quotidiano del 14 novembre scorso, il nome, per di più storpiato in Aldo Pucher, di Giancarlo Puecher, partigiano, Prima Medaglia d’Oro al Valor Militare della Resistenza, fucilato a vent’anni, il 23 dicembre 1943 dai miliziani della Repubblica di Salò, e non in un articolo sulla Resistenza, sul valore della memoria, ma, accusato di un omicidio che non ha mai commesso, in un’intervista di Luca Telese ad Alessandro Sallusti, direttore del Il giornale, sobriamente intitolata ⇨ I topi scappano. Per il dopo c’è solo Marina, in cui si promuove l’investitura di Marina Berlusconi a futuro premier del sultanato Italia, come se ormai anche il potere politico si potesse trasmettere per via dinastica.   Lo scopo, il modo, la strumentalizzazione e le falsità storiche con cui Giancarlo Puecher viene chiamato in causa sono un vero e proprio vulnus alla sua memoria e alla sua figura luminosa. Bisogna in qualche modo rimediare. Ristabilire la verità.   Lo storpiare i nomi è il primo, sottile, vigliacco, metodo di infangare, in certi ambienti, odioso, se fatto intenzionlamente, come una pugnalata alle spalle, ma doppiamente insopportabile se fatto per ignoranza o incuria e nei confronti di una persona scomparsa. Un giornalista serio, prima di lasciar sbandierare nomi e fatti tanto gravi, ha il dovere di controllare ciò che pubblica, almeno per quel che riguarda l’ortografia.

[ copio e incollo con non lieve disgusto la parte dell'articolo che riguarda mio zio Giancarlo - compresa la paccottiglia del viso quasi scultoreo & penombra & maglione esistenzialista a girocollo & la divisa del weekend - forse usata nell'impresa retorica quasi impossibile di rendere "simpatico" e alla mano l'intervistato ]

E poi, a fine intervista, Alessandro Sallusti mi gela il sangue con un ricordo che innesca un cortocircuito fra una delle pagine più tragiche del Novecento italiano e la crisi del governo Berlusconi: “In famiglia abbiamo già dato… nel 1945”. Curioso. Il tono è ironico, il viso del direttore del Giornale, invece, sembra diventare quasi scultoreo, nella penombra nella saletta del lussuoso Hotel Park Hyatt dove ci siamo rifugiati per una lunga intervista. “Vedi, ti devo raccontare una storia della mia vita che nessuno conosce, nemmeno Giampaolo Pansa, neanche Vittorio Feltri”. Quale? “Scoprii solo da studente, su un libro scolastico della Laterza, che mio nonno, Biagio, tenente colonnello sulla piazza di Como, finito a Salò senza essere stato fascista, era stato fucilato dai partigiani”. Resto un attimo con il respiro in gola. Fino un attimo prima stavamo parlando di Feltri, di Fini, del Cavaliere, della crisi… Sallusti continua: “Mio padre questa storia non me l’aveva mai raccontata. Non certo per pudore. Per proteggermi. E invece scoprivo che dopo quattro vigliacchi rifiuti dei suoi superiori di grado, perché la Repubblica di Salò era ormai alla fine e i partigiani alle porte, mio nonno aveva accettato di dirigere il tribunale che doveva giudicare Aldo Pucher, partigiano accusato per l’omicidio del federale Aldo Resega. Mio nonno salvò gli altri sei imputati, ma fu fucilato per quell’unica esecuzione. Curioso vero? Ma era la legge della guerra. Scoprii, e oggi quel dialogo è nei libri di storia, che il giorno prima della ritirata nella ridotta della Valtellina, mio nonno aveva chiesto a Mussolini di non scappare”. Chiedo: “Sarebbe cambiato qualcosa sull’esito della guerra?”. Sallusti prende un respiro: “Ovviamente no. Ma se avesse seguito quel consiglio non avremmo le foto del Duce travestito da soldato tedesco”. Pausa. Non vola una mosca. Sorriso: “Per questo spero che Berlusconi non si ritiri”. Pensavo di fare un’altra intervista. Raccontare ai lettori del Fatto Quotidiano l’ultraberlusconismo e uno dei suoi campioni. Quando Sallusti va in tv sono sciabolate per tutti, colpi micidiali, affondi sotto la cintura, pronunciati con serafica tranquillità. In questa intervista, invece, la teleadrenalina non c’è, ma piuttosto una leggerezza venata di colori forti e di tinte drammatiche. Sallusti ha il maglione esistenzialista a girocollo, la divisa del weekend.

Telese, anche a me si gela il sangue e di più, ma nel leggere il nome, storpiato in Aldo Pucher, di Giancarlo Puecher in un contesto simile. E resto un attimo con il respiro in gola. Anzi ben più di un attimo, sarà che son più sensibile. Invece non ho avvertito alcuna leggerezza venata di colori forti e di tinte drammatiche e le assicuro che non mi si innesca alcun cortocircuito fra una delle pagine più tragiche del Novecento italiano e la crisi del governo Berlusconi. Fra uomini che hanno combattuto eroicamente e pagato ieri, perché ci sia in questo triste paese un oggi democratico, mai così insidiato, fra Giancarlo Puecher e le mezze figure del passato e quelle attuali, ugualmente chine al potere e che ancora si arrabattano tra falsità e strampalate teorie, non c’è alcuna possibilità di raffronto e alcun legame. E’ davvero rischioso fare le interviste nella penombra e nelle salette degli hotel lussuosi, meglio accendere la luce e andare al Bar Sport, dove vola qualche mosca in più. Quando è stagione e c’è materia per attrarne l’interesse. Il paragone fra il Duce che, nonostante i preziosi consigli di nonno Biagio, scappa travestito da tedesco e Berlusconi che si dimette è quasi una specie di imbarazzante autogol. Al massimo oggi ne reggerebbe uno con un Napoleone, con bandana al posto della feluca, in esilio su di un’isoletta di qualche paradiso fiscale tropicale, allietato dal suo menestrello melodico personale e con scorta di escort per lo svago e il giusto riposo del guerriero.   Provo umanamente pena e pietà per le vittime che caddero dalla parte sbagliata, per il dolore dei loro congiunti, ma questo non elimina il giudizio della storia su quella parte e sulle sue colpe, à la guerre comme à la guerre varrà in un torneo cavalleresco fra paladini, applicato ai milioni di vittime e alle stragi della Seconda Guerra Mondiale suona un po’ troppo generico, assolutorio e sdoganante. L’Italia è un paese che i conti con il fascismo non li ha voluti e saputi mai fare fino in fondo e chiunque può fare della verità storica una materia molle e fumosa da plasmare a proprio uso e consumo. Quando Sallusti dice “In famiglia abbiamo già dato… nel 1945”, non si capisce davvero cosa intenda. Oggi non ci sono più i tribunali speciali e i processi sommari, la pena di morte, e si possono persino fare le leggi per evitarli i processi e avere l’impunità anche se colpevoli. Si possono fare in tv le fiction come Il peccato e la vergogna, con il nazista buono perché innamorato speranzoso e il fascista cattivo e perverso in quanto innamorato deluso. Cosa teme Sallusti? Al massimo si prende un vada a farsi fottere da D’Alema e tutti si indignano e gli chiedono scusa. Lui e i suoi datori di lavoro non si sentiranno mica come i miliziani quando la Repubblica di Salò era ormai alla fine e i partigiani alle porte? Giancarlo Puecher, punto di riferimento di un gruppo di giovani che in Brianza si stavano organizzando in una formazione partigiana ancora in nuce, e che si era macchiata fino allora solo di qualche sabotaggio e sequestro di mezzi e benzina, fu fermato per caso, in bicicletta con il compagno Fucci, da una pattuglia di militi della Repubblica Sociale Italiana a Lezza la notte del 12 novembre del 1943, ad un posto di blocco dei numerosi istituiti insieme al coprifuoco, in seguito al fatto che quella stessa sera erano sta uccisi il centurione della milizia e cassiere del Banco Ambrosiano di Erba, Ugo Pontiggia, e un suo amico, Angelo Pozzoli.   Puecher e Fucci, ignari di tutto e che, forse, se fossero stati a conoscenza dell’omicidio, avrebbero avuto maggiore prudenza, si stavano recando a una riunione clandestina. Avevano un tubo di gelatina e alcuni manifestini antifascisti, di cui però riuscirono, nel buio, a disfarsi. Fucci estrasse la pistola e tentò di sparare, ma l’arma si inceppò. Uno dei miliziani lo colpi ferendolo al ventre. Fu portato in ospedale e rimase in prigione fino alla fine della guerra. Giancarlo fu fermato, interrogato, picchiato e poi arrestato. Il federale di Milano Aldo Resega, che Sallusti, senza storpiarne il nome, nomina, fu ucciso il 18 dicembre 1943, mentre Giancarlo Puecher era già in prigione e da più di un mese.  Giancarlo Puecher non fu accusato nè processato per alcun omicidio. Quando il 20 dicembre fu ucciso in un agguato anche lo squadrista di Erba Germano Frigerio, i fascisti decisero di mettere in atto una rappresaglia, con modalità tristemente consuete, che prevedeva la fucilazione di trenta antifascisti, dieci per ogni fascista ucciso ad Erba, cioè Ugo Pontiggia, Angelo Pozzoli e Germano Frigerio.   Nelle carceri di Como non trovarono un numero tale di prigionieri e li ridussero a sei, fra cui Giancarlo Puecher. I fascisti imbastirono un processo farsa, istituendo un Tribunale Speciale, presieduto da Biagio Sallusti, e con irregolarità processuali inconcepibili oggi, ma di regola ai tempi, Puecher fu l’unico condannato a morte, mediante fucilazione, non per omicidio, ma per aver promosso, organizzato e comandato una banda armata di sbandati dell’ex esercito allo scopo di sovvertire le istituzioni dello stato.   Non si poteva ammettere che un giovane di famiglia nobile e di ispirazione profondamente cristiana “cospirasse”.   Si doveva dare l’esempio. Esempio che sortì nei fatti l’effetto contrario, determinando ancora di più alla lotta contro il fascismo la parte migliore dell’Italia, che nei valori condivisi trovò la forza di ribellarsi.   ⇨ Mio nonno Giorgio Puecher Passavalli, dopo la fucilazione del figlio fu arrestato e tradotto nel campo di concentramento di Fossoli e poi a Mauthausen, da dove non tornò più. ⇨ Mio padre Virginio, allora sedicenne, fu costretto a rifugiarsi esule in Svizzera. Trascrivo qui l’ultima lettera di Giancarlo e le motivazioni della sua Medaglia d’Oro, per dovere di verità e di memoria, per oppormi fermamente a questa macchina del fango retroattiva che tenta di strumentalizzare e di mettere sullo stesso piano figure inconciliabili, ma anche perché in questo momento in cui etica e dignità sono continuamente calpestate, fa bene al cuore leggerle, con le parole antiche, desuete, forse, con i loro valori alti, oggi quasi inconcepibili, con l’ingenuo desiderio del riconoscimento dei valori militari e sportivi, con i teneri lasciti dei beni personali. E l’anello d’oro ricordo della povera mamma, una pietra bianca e una blu su cerchietto semplice, sta ancora qui e nessuno l’ha mai più indossato.

21 dicembre 1943 Muoio per la mia patria. Ho sempre fatto il mio dovere di cittadino e di soldato. Spero che il mio esempio serva ai miei fratelli e compagni. Iddio mi ha voluto, accetto con rassegnazione il suo volere. Tutti i miei averi vadano ai miei fratelli e a Elisa Daccò. Vorrei che sul mio avviso mortuario figurassero i miei meriti sportivi e militari. Non piangetemi, ma ricordatemi a coloro che mi vollero bene e mi stimarono. Viva l’Italia. Raggiungo con cristiana rassegnazione la mia mamma che santamente mi educò e mi protesse nei vent’anni della mia vita. L’amavo troppo la mia patria non la tradite e voi tutti giovani d’Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale. Perdono a coloro che mi giustiziano, perché non sanno quello che fanno e non pensano che l’uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia. Vorrei lasciare L 5000 alla mia guida alpina Motele Vidi di Madonna di Campiglio. L 5000 al mio allenatore di sci Giuseppe Francopoli di Cortina. L 5000 a Luigi Conti e L 1000 a Vanna De Gasperi, Berta Dossi, Rosa Barlassina. Il mio guardaroba ai miei fratelli e a Pussì Aletti, mio indimenticabile compagno di studi. L 1000 alla Chiesa di Lambrugo. Il mio anello d’oro ricordo della povera mamma a Papà, il braccialetto a Ginio e l’orologio Universal a Gianni. Alla zia Lia Gianelli una mia spilla d’oro con pietra. Un ricordo delle mie gioie alle mie cugine e a Elisa. Stabilite una somma per messe in mio suffragio e per una definitiva sistemazione pacifica della patria nostra. A te papà vada l’imperituro grazie per ciò che sempre mi permettesti di fare e mi concedesti. Elisa si ricordi del bene che le volli e forse non sufficientemente apprezzò. Ginio e Gianni siano degni continuatori delle gesta eroiche della nostra famiglia e non si sgomentino di fronte alla mia perdita, i martiri convalidano la fede in una vera idea. Ho sempre creduto in Dio e perciò accetto la sua volontà. Baci a tutti Giancarlo Puecher Passavalli

dal sito www.quirinale.it

Patriota di elevatissime idealità, scelse con ferma coscienza dal primo istante la via del rischio e del sacrificio. Subito dopo l’armistizio attrasse, organizzò, guidò un gruppo di giovani iniziando nella zona di Lambrugo, Ponte Lambro, il movimento clandestino di liberazione ed offrendo la sua casa come luogo di convegno. Con l’esempio personale fortificò nei compagni la fede nell’azione che essi dovevano più tardi proseguire in suo nome. Presente e primo in ogni impresa gettò nella lotta tutto se stesso prodigandovi le risorse di una mente evoluta e di un forte fisico, ed associando all’audacia un particolare spirito cavalleresco. Braccato dagli sgherri fascisti, insidiata la sicurezza della sua famiglia, non desistette. Incarcerato con numerosi suoi compagni e poi col padre, d’accordo con questi rifiutò la evasione per non allontanarsi dai compagni di fede e di sventura. Condannato a morte dopo sommario processo, volle essere animatore sino all’estremo, lasciando scritti di ardente amor patrio e di incitamento alla continuazione dell’opera intrapresa. Trasportato al luogo del supplizio, chiese di conoscere il nome dei suoi esecutori per ricordarli nelle preghiere di quell’aldilà in cui fermamente credeva, e tutti i presenti abbracciò e baciò, ad ognuno lasciando in memoria un oggetto personale, pronunciando parole nobilissime di perdono e rincuorando coloro che esitavano di fronte al delitto da compiere. Cadde a vent’anni da apostolo e da soldato, sublimando nella morte la multiforme e consapevole spiritualità che aveva contraddistinto la sua azione partigiana. — Como – Erba, 9 settembre – 23 dicembre 1943.



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