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L’America al voto, l’Europa alla finestra

Creato il 04 ottobre 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Davide D’Urso

L’America al voto, l’Europa alla finestra
La campagna elettorale americana sta vivendo le sue settimane decisive. Come ha dimostrato il dibattito di Denver di mercoledì notte, e a dispetto dei sondaggi nazionali che davano Barack Obama in testa con il 49%, contro il 45% del suo sfidante, la partita è ancora aperta. L’andamento del dibattito, largamente favorevole a Mitt Romney, ha testimoniato quanto sia difficile la situazione per un Presidente che, a dispetto di risultati economici non certo esaltanti, deve difendere la propria linea politica e promettere una seconda amministrazione in continuità con essa. È chiaro infatti come non sia tanto la capacità del candidato repubblicano di guadagnare il consenso dell’elettorato, quanto una condizione economica che resta a dir poco problematica a rendere difficile la rielezione di Obama. Alla vigilia del primo dibattito, il Presidente godeva di un grado di approvazione nazionale del 50%, un livello che di per sé non garantirebbe la rielezione (per fare due esempi comparativi, nel 2004 George W. Bush aveva il 55%, nel 1996 Bill Clinton toccava il 58%).

Negli Stati decisivi – quelli ancora in bilico sono soprattutto Florida, Ohio, Virginia, North Carolina, Colorado e Iowa – il Presidente mantiene un vantaggio che si muove in media dai 4 ai 6 punti percentuali. Si tratta di un buon margine che, però, visti l’esito del primo dibattito televisivo, i due che ancora devono svolgersi e la strategia di attacco del Partito Repubblicano, rischia di non essere sufficiente. Obama dovrebbe continuare comunque a giocare sulla difensiva, convinto anche dall’andamento dei sondaggi che le gaffe del suo avversario e i limiti del programma politico dei Repubblicani possano lavorare per lui.

La grande battaglia che ha determinato l’andamento della campagna elettorale finora ha riguardato la definizione del tipo di elezione per la quale i cittadini avrebbero votato. La strategia repubblicana mirava in tal senso a trasformare la tornata elettorale in un referendum sull’operato del Presidente. Con un tasso di disoccupazione ancora stabilmente al di sopra dell’8% e un’economia che stenta a crescere nonostante le iniezioni di liquidità della Federal Riserve, un’elezione simile avrebbe reso quasi impossibile la rielezione di Obama. Lo staff del Presidente è stato invece magistrale nel rendere le elezioni una scelta tra due visioni della società – come ha più volte ribadito lo stesso Presidente – e, soprattutto, tra due persone. Attraverso un’efficace propaganda mediatica, favorita dalla poca conoscenza di Romney da parte del pubblico americano, il candidato repubblicano è stato presentato al pubblico come “l’uomo dei ricchi”, un personaggio distaccato dalla realtà incaricato dalle lobbies di difenderne gli interessi. La visione oltremodo semplificata che i Democratici hanno voluto offrire all’opinione pubblica ha avuto successo garantendo il vantaggio che Obama cercherà di gestire nel mese che manca alle elezioni. La strategia della scelta, però, potrebbe rivelarsi autolesiva qualora l’andamento dei prossimi dibattiti ricalcasse quello del primo: un Obama stanco, distratto e passivo contro un Romney all’attacco e mediaticamente efficace.

A Bruxelles si parla di America

L’America al voto, l’Europa alla finestra
L’economia è stata e sarà fino alla fine la tematica centrale della campagna elettorale. La politica internazionale vi è entrata in occasione di eventi particolarmente rilevanti, come nel caso dell’attacco al consolato americano di Bengasi, con l’uccisione, tra gli altri, dell’Ambasciatore Chris Stevens. Che i temi di attualità internazionale possano spostare quote consistenti di un elettorato ancora alle prese con la crisi economica più grave del secondo dopoguerra è difficile da immaginare. Ciononostante, al di fuori dei confini americani molte regioni del mondo si interrogano su quello che sarà il futuro della politica estera degli Stati Uniti in virtù dell’esito del loro processo elettorale. Tra gli osservatori più interessati vi è ovviamente l’Europa che, pur alle prese con la sua – ancor più grave – crisi finanziaria, economica e politica, guarda all’altra sponda dell’Atlantico con un misto di speranza, preoccupazione e timore.

Il tema delle relazioni tra Europa e Stati Uniti d’America e dei possibili effetti che su queste potranno avere le prossime elezioni di novembre, è stato oggetto di un convegno svoltosi a Bruxelles presso la sede del think tank “The Centre”, nell’ambito di una serie di incontri sul tema delle relazioni euroamericane. Hanno partecipato al dibattito il corrispondente del Financial Times a Bruxelles Pieter Spiegel, il giornalista del Wall Street Journal Matthew Dalton e Steve Lombardo, esperto e consulente elettorale che ha collaborato a diverse campagne presidenziali per il Partito Repubblicano fin al 1992.

L’argomento dell’incontro era curioso, anche in ragione del fatto che, come ha ricordato Peter Spiegel, nei primi anni della presidenza Obama e la sua amministrazione sono stati assai poco interessati all’Europa. Le priorità internazionali dell’amministrazione democratica erano quelle legate all’esigenza di ricostruire il ruolo e l’immagine degli Stati Uniti nel mondo e ad accrescere la qualità e l’intensità delle relazioni tra Washington e le potenze emergenti. Nei primi tre anni di governo, Obama e HIllary Clinton hanno lavorato alla costruzione di un rapporto speciale con la Cina, scontentando in questo il Giappone, ma anche ad una nuova relazione con l’India, inimicandosi il governo pachistano, nonché al tentativo di costruire un ponte per un dialogo con l’Islam, ritenuto talmente importante da arrivare a scontentare Israele, pur mantenendo una linea dura nei confronti del programma nucleare iraniano. L’Europa, intesa come Unione Europea e come suoi Stati membri, non è mai stata una priorità. Le stesse relazioni speciali venutesi a creare negli otto anni di presidenza Bush tra Stati Uniti e Paesi dell’Europa orientale, su tutti Polonia e Repubblica Ceca, sono stati in parte sacrificati a vantaggio di una “reset” nelle relazioni con Mosca che non poteva prescindere da una rivisitazione dei progetti sullo scudo antimissile.

Obama interviene in Europa

Eppure, negli ultimi mesi, Obama è tornato in Europa da attivo protagonista. Come forse troppo spesso è accaduto nei suoi quattro anni di governo, sono stati fattori contingenti a determinare il cambiamento di linea. Due sono stati in particolare i dossier che hanno riportato l’Europa al centro della politica americana e a farne, almeno in parte, un tema elettorale. In primo luogo, decisiva è stata la crisi finanziaria dell’Eurozona: assodata l’oggettiva incapacità degli Europei di risolverla autonomamente, e a fronte di quello che a Washington è giudicata come un’eccessiva rigidità di Angela Merkel, Obama si è fatto coinvolgere sempre più attivamente all’interno delle trattative sulla nuova governance economica dell’area dell’euro. Il legame allacciato con Mario Monti, visto come interlocutore capace e affidabile, ha consentito l’assunzione di un ruolo maggiormente defilato. Resta la preoccupazione da parte della Casa Bianca che il perdurare della crisi dell’Europa possa azzerare la ripresa americana, compromettendo definitivamente le possibilità di rielezione del Presidente. A questo va aggiunto, come sottolineato da Matthew Dalton nel corso del dibattito sopra ricordato, il sostegno indiretto ma decisivo che l’Amministrazione Obama ha concesso all’Europa tramite il FMI, accettando estensioni del suo impegno finanziario per dare piena copertura agli interventi di aiuto per i paesi europei.

Altri temi rilevanti che hanno costretto l’amministrazione a tornare in Europa sono quelli legati a crisi internazionali congiunturali. Anzitutto il caso dell’intervento in Libia, nell’ambito del quale Stati Uniti ed Europa hanno dimostrato di essere l’unica coalizione credibile e capace, dal punto di vista militare e della volontà politica, di mettere in atto decisioni assunte a livello di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L’occasione dell’intervento aereo e missilistico contro il regime di Gheddafi ha contribuito a rilanciare il rapporto con Regno Unito e Francia, Paesi ai quali Washington ha delegato il grosso delle operazioni militari. Su altri dossier caldi, primo fra tutti il contenimento del programma nucleare iraniano, l’Amministrazione Obama ha trovato l’appoggio degli Europei per la ricerca di via diplomatiche – anche nella forma di sanzioni economiche.

Ebbene, Romney non ama l’UE

“Obama ci sta portando sulla strada dell’Europa”: basterebbe questa frase a sintetizzare l’idea che il Partito Repubblicano e in primis il suo candidato vuole trasmettere all’opinione pubblica in merito al Vecchio Continente. L’anatema di Romney contro il “socialismo” di Obama, che rischierebbe di precipitare l’America nella direzione intrapresa dagli Europei, è solo in parte un appello alla pancia anti-europea e anti-socialista del proprio elettorato. Nel solco della tradizione già instaurata da George W. Bush, l’Europa si riduce a un duplice soggetto: da un lato un blocco commerciale guidato da una burocrazia tendente al socialismo (Bruxelles); dall’altro un gruppo di Stati litigiosi animati da propri interessi e divisibili in un gruppo anti-americano (la “vecchia Europa” a guida francese) e in un secondo, atlantista, composto da Regno Unito e Paesi dell’Europa Orientale, su tutti Polonia e Repubblica Ceca. A riprova della forza che questa idea ha ancora in ambiente conservatore, Mitt Romney ha scelto Londra e Varsavia come mete del proprio viaggio elettorale europeo. I risultati, tra l’altro, sono stati tutto fuorché entusiasmanti e hanno anzi contribuito a minare la credibilità di futuro presidente.

Qualora fosse eletto, il Presidente repubblicano ha promesso di essere al fianco degli alleati e “duro con i nemici”. La critica alla politica estera di Obama da parte del Grand Old Party occhieggia ad Israele (alla potente minoranza ebraica negli Stati Uniti), ma anche alla “nuova Europa” immaginata da Bush, nella quale Londra continua ad avere un ruolo centrale e di prestigio e si presta un’attenzione specifica ai nuovi membri della NATO, anche a costo di provocare un revival di Guerra fredda con Mosca. Una rinnovata attenzione al Medio Oriente, al fianco di Israele, e in Europa orientale, in ottica anti-russa, rimetterebbe paradossalmente gli Stati europei al cuore dell’agenda di politica internazionale degli Stati Uniti. L’Europa in quanto Unione Europea non ne avrebbe comunque alcun beneficio, rivivendo il periodo del sostanziale disinteresse puntellato di ostilità che l’Amministrazione Bush le regalò nel corso dei suoi otto anni di presidenza. Il “superstato socialista” che Romney e i Repubblicani vedono all’orizzonte per l’America nel caso di una seconda elezione di Obama, ricorda troppo il progetto di integrazione europea immaginato dai burocrati di Bruxelles.

Prospettive post-elettorali per le relazioni transatlantiche

Dato per assodato che in caso di elezione di Romney alla presidenza degli Stati Uniti la priorità in politica estera sarebbe concessa alle hard issues, queste, trasportate nel contesto delle relazioni euro-americane, rischierebbero di riportare in auge le divisioni interne all’UE anche sui temi di politica internazionale. La collaborazione intrattenuta dai leader europei con Barack Obama sui temi della crisi finanziaria nel corso degli ultimi mesi sarebbero un ricordo e, come minacciato da esponenti dell’establishment repubblicano, il sostegno finanziario incondizionato alle manovre di salvataggio dell’Europa da parte di Washington potrebbe persino venire a mancare.

Tuttavia, è lecito ritenere, come ha fatto Matthew Dalton nel già citato dibattito brussellese, che anche un secondo mandato di Obama vedrebbe cambiamenti significativi nella politica statunitense verso il Vecchio Continente. La direzione, verosimilmente, sarebbe opposta. Dalton fa riferimento in particolare a due dossier che, fino ad oggi, sono stati lasciati nel cassetto ma che risponderebbero all’interesse e alle aspirazioni di un’amministrazione democratica più libera dai condizionamenti dettati dalla volontà di ottenere una rielezione e di un’Europa maggiormente integrata e incamminata sulla strada dell’uscita dalla crisi.

Il primo dossier suggerito dal giornalista del Wall Street Journal è un accordo USA-UE per la creazione di un’area di libero scambio transatlantica. Gli ostacoli che spesso bloccano accordi in tal senso tra paesi ricchi e in via di sviluppo, sarebbero fuori dal tavolo nel caso di una trattativa tra giganti economici “maturi” quali America ed Europa. Eppure, il pericolo di dumping sociale, inesistente in tali trattative, potrebbe essere sostituito da dissidi circa il commercio dei prodotti agricoli, sui quali l’Europa resta estremamente protezionistica. Pare poter ritenere, tuttavia, che i vantaggi di un tale accordo vincerebbero sugli svantaggi e le resistenze. Entrambi i soggetti infatti ne otterrebbero enormi opportunità in termini di crescita, integrazione economica e reciproca apertura dei mercati. Si tratta, in periodi di stagnazione o peggio di recessione, di occasioni da costruire per intraprendere la strada di una solita ripresa basata sulla ripresa della produttività e della competitività internazionale. Una seconda amministrazione Obama appena insediata, potrebbe seriamente prendere in considerazione una simile strada trovando, da parte europea, la disponibilità ad aprire una trattativa capace di spingere le proprie imprese a una maggiore integrazione nell’economia globale e di ridare peso politico e visibilità a un continente che rischia sempre più di diventare periferico.

Il secondo dossier suggerito da Matthew Dalton riguarda la lotta al surriscaldamento globale. Nel caso di un – seppure difficile – trionfo del Partito Democratico, con la riconquista della Camera oltre che la riconferma alla Casa Bianca di Obama, i Democratici avrebbero la forza politica necessaria per mettere in atto una seria azione legislativa e internazionale per la lotta al cambiamento climatico. Lo stesso capitale politico che Obama ha speso nei suoi primi quattro anni di presidenza per il varo della riforma sanitaria, potrebbe essere investita in un’azione capace al tempo stesso di dare risposta concreta alle necessità ambientali globali e anche di oliare i meccanismi dell’attuale, claudicante, governance mondiale. Un tale slancio politico, se mai dovesse partire da Washington, riceverebbe pronta risposta da Bruxelles: l’UE, da sempre “potenza verde” e attivo attore nell’ambito dell’azione internazionale a favore della lotta al cambiamento climatico, vorrebbe rilanciare un negoziato politicamente affossato dagli Stati Uniti di George W. Bush, quando questi si rifiutarono di ratificare il protocollo di Kyoto.

Aspettando i due presidenti

Le speculazioni su quelle che potrebbero essere le dinamiche di interazione e finanche di cooperazione tra Stati Uniti ed Europa resteranno tali fino alla fine della campagna elettorale americana. Se Obama dovesse alla fine spuntare la rielezione, l’occasione sarà propizia per rivedere Unione Europea e Stati Uniti – i due “poli” del sistema stranamente multipolare che sta emergendo sul palcoscenico mondiale, più simili dal punto di vista economico, sociale, culturale e politico – tornare a cooperare in aree di reciproco interesse. Qualora dovesse prevalere Romney, le cose si complicherebbero in modi difficilmente prevedibili. Non conosciamo abbastanza il candidato repubblicano per poter desumere da pochi mesi di campagna elettorale quale sarebbe il suo atteggiamento da leader della prima potenza mondiale. Pare tuttavia sensato aspettarsi che il Romney presidente si riveli più pragmatico del candidato, ammettendo quantomeno negli ambiti di cooperazione finanziaria per il sostegno dell’euro passi indietro rispetto agli slogan elettorali.

Il primo dibattito elettorale ha dato indicazioni interessanti su quale sarà l’andamento dell’ultimo mese di campagna presidenziale. La partita è tutt’altro che chiusa e Romney non è il candidato finito che molti avevano prospettato nelle settimane disastrose seguite alla Convention repubblicana. È lecito attendersi, tuttavia, che nei successivi e più decisivi dibattiti Obama giocherà assi importanti legati ben più che al proprio programma per i successivi quattro anni di governo, sul quale il Partito Democratico è stato estremamente vago, al tentativo di ripresentarsi come l’unica scelta possibile, in una condizione economica nella quale il ruolo del governo e la sua stabilità fiscale rappresentano argini ai quali più della metà dei cittadini americani non vorrebbe rinunciare.

Per l’Europa non resta che aspettare. Nel frattempo merita un accenno il dibattito sui cambiamenti istituzionali che l’UE ha in cantiere per i prossimi mesi. Qualora andasse in porto l’operazione congiunta di Commissione, Parlamento e partiti politici europei, le elezioni del 2014 potrebbero rappresentare un momento di svolta durante il quale i cittadini europei potrebbero trovarsi per la prima volta ad eleggere il presidente dell’esecutivo comunitario: un “presidente dell’Europa”, democraticamente legittimato, capace di dialogare con chiunque siederà nello Studio Ovale.

* Davide D’Urso è Dottore in Scienze Politiche (Università di Torino)


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