Nel 401 a.C un’armata di mercenari greci al servizio di Ciro, fratello del Re dei Re, ossia il sovrano persiano Artaserse II, del quale voleva usurpare il trono, vinse l’esercito persiano nella battaglia di Cunassa, una città non lontana dal luogo dove oggi sorge Baghdad. Cirò però morì nello scontro. Clearco, capo dei mercenari, e tutti i suoi luogotenenti, che si apprestavano ad organizzare la ritirata dei “diecimila”, furono catturati con l’inganno dal satrapo Tissaferne, in quel momento a capo delle forze imperiali, e successivamente giustiziati. Chirisofo divenne il nuovo generale dei greci. Fra i suoi improvvisati luogotenenti il futuro scrittore e storico Senofonte, che raccontò in una delle più affascinanti letture di tutti i tempi, l’Anabasi, l’epica marcia dei “diecimila” in territorio nemico fino a Trapezunte (Trebisonda) sul Ponto Eusino (il Mar Nero), dove giunsero nel 399 a.C. per imbarcarsi poi per la Tracia. Un’impresa disperata, resa possibile dalla compattezza militare e morale delle milizie greche, e dalla disorganizzazione di quelle persiane. A mente fredda, il segreto del successo fu di non farsi prendere dal panico e armarsi di pazienza: le ombre in realtà erano il più concreto dei pericoli. Settant’anni dopo Alessandro Magno seppe trarre un valido insegnamento da questa vicenda.
Quando un anno e mezzo fa la scissione finiana sembrò segnare la fine della maggioranza di governo, Berlusconi, che nella vita ha deciso di essere un grand’uomo, nonostante il lato clownesco del suo carattere, fu il solo politico a scommettere sul sentiero stretto che poteva portare nonostante tutto il suo governo alla fine della legislatura. Lo vide, e tenne la cosa per sé, aspettando che si calmasse la burrasca isterica intorno alla falsa alternativa tra il temuto governo tecnico o di larghe intese che dir si voglia, e le auspicate – a parole, almeno da parte sua – elezioni. Guadagnò il tempo necessario per chetare i vuoti entusiasmi da una parte e le vuote disperazioni dall’altra. Poi andò a pescare con pazienza nel vasto lago dei deputati in cerca d’autore al centro del parlamento. A quel punto mirò apertamente alla “resistenza”. Parve una decisione figlia degli avvenimenti, ma lui l’aveva premeditata fin dall’inizio della crisi. I fatti gli diedero ragione. Perché non si era fatto impaurire dalle ombre.
Oggi la fine della maggioranza di governo sembra ancor più segnata di allora. Tanto che l’attenzione dei media è puntata più sul dopo-Berlusconi che sulla sua eventuale fine. Ma, a guardar bene, l’inevitabilità di questa caduta sembra ancora più figlia di un fenomeno di autosuggestione di massa che della realtà. E’ probabile che il Cavaliere abbia più paura del voto martedì a Montecitorio sul Rendiconto Generale dello Stato che di quello sul maxiemendamento con le misure “europee”. Superato il primo anche senza ottenere la maggioranza assoluta alla Camera, si sentirà a ragione molto più rinfrancato. A quel punto delle dimostrazioni virtuali, che gli saranno eventualmente rinfacciate, di non autosufficienza della sua maggioranza si farà un baffo solenne. Andrà alla battaglia sul maxiemendamento con molte frecce al suo arco. Potrà rinfacciare lui, all’opposizione, la reticenza sulle misure imposte dall’aureo e venerato consesso europeo; farà aleggiare sopra le teste dei deputati e degli italiani tutti lo spauracchio di una pesantissima patrimoniale, l’unica disgrazia che potrà mettere d’accordo un governo sostenuto dalla sinistra e dagli straricchi dell’establishment più incartapecorito del pianeta; dipingerà come una ripicca bambinesca e farà apparire come meschina, in un momento simile, ogni pregiudiziale sul suo nome in cambio di un allargamento della maggioranza.
Ad aiutarlo improvvidamente è arrivato proprio quella nullità di Casini, il quale, essendo una nullità, nei momenti topici tende di regola a perdere la testa. Pier Ferdinando ha messo una croce sopra ogni ipotesi di allargamento al centro dell’attuale maggioranza. Grosso errore, per un democristiano che doveva rosolare i “congiurati” sul filo dell’ambiguità e dell’incertezza delle cose future. Spaventato dalla manifestazione organizzata dal Pd in Piazza S. Giovanni a Roma, come ogni autentico democristiano andato a male, alla convention del Terzo Polo ha sostenuto la necessità di un governo di solidarietà nazionale con dentro Pd, Pdl e Terzo Polo. E lo ha fatto nel più goffo dei modi, quasi scusandosi con la propria storia: “Noi” ha detto,
siamo nel Ppe, da sempre antagonisti della sinistra, ma dobbiamo essere onesti, ragazzi: la sinistra ieri ha detto, quando potrebbe avere un interesse elettorale a chiedere solamente le elezioni, che sono disponibili. E allora pensare a un governo che emargini una parte del mondo politico più direttamente rappresentativo del mondo operaio e sindacale significherebbe essere irresponsabili. Non si fanno sacrifici agitando la contrapposizione sociale o dividendo i lavoratori, perché quelle forze vanno coinvolte. Sarebbe autolesionista cercare divisioni.
E’ lo stesso Casini che giorni addietro rimproverava Berlusconi e il suo governo di non avere la forza di decidere, di non saper dire sì all’Europa. Sulle pensioni, sul lavoro, sulle liberalizzazioni. A molti “malpancisti” saranno fischiate le orecchie: agli idealisti, a causa dalla cattiva compagnia; ai maneggioni, a causa della vasta compagnia.
Nell’Anabasi di Senofonte uno dei momenti più difficili per i “diecimila” fu quando dovettero percorrere i sentieri e le gole della regione montuosa popolata dai Carduchi (con molta probabilità gli antenati degli attuali Curdi). Nell’Anabasi berlusconiana siamo più o meno arrivati a questo punto. Perché non dovrebbe farcela anche lui, a dispetto delle comiche invettive puritane del Financial Times?
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