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Stranissimo destino ebbe questo misterioso Der Blaue Engel: Marlene Dietrich non avrebbe voluto farlo, ossessionata com'era dall'incertezza della sceneggiatura e dal lavoro piuttosto anarchico del regista Joseph von Sternberg. Eppure fu con L'angelo azzurro che Lena, diminutivo di Lena divenne la Dietrich. Lo racconta la figlia Maria Riva, quando dice che Marlene, vedendo le prime riprese, cominciò a parlare di sé stessa in terza persona, a oggettivarsi come prodotto cinematografico. Fu una curiosa coincidenza, perché proprio la volgarità della trama e del personaggio di Lola, da lei interpretato, fu un'altra fortissima resistenza a entrare nel cast: in questo importantissimo film, la donna si fa oggetto di desiderio e catalizzatore di distruzione. Tutte le energie che nel Aldred Döblin aveva appena riversato nel suo romanzo-città, Berlin Alexanderplatz, trovano un analogo sconcertante forse più ne L'angelo azzurro - film della provincia e della perdita di ogni gravità - che non nel film che Phil Jutzi avrebbe costruito intorno all'elefantiaco Franz Biberkopf.
La storia de L'angelo azzurro, tratto dal Professor Unrat di Heinrich Mann (1904-1905), è tanto semplice da raccontare quanto tragica: racconta di un professore (Emil Jannings) del ginnasio di Lubecca che, nell'inseguire i giovani della sua classe e indirizzarli verso una condotta più consona, si imbatte nella vorace e bellissima Lola (Marlene Dietrich, appunto). Da allora, il professor Raat dovrà progressivamente ma ineluttabilmente rinunciare a tutto quanto costituisce la ragione della sua dignità sociale e umana.
Mai, forse, Marlene è apparsa più bella e cattiva. Una donna algida e capace di sconvolgere la vita che ormai sarebbe sembrata immune da qualsiasi tentazione faustiana di felicità e di giovinezza. Der Blaue Engel è una bomba ad orologeria di rimandi: e di un equilibrio demoniaco tra erotismo perturbante e virtù consolidate di un'anima formale e un po' d'antan. Il film ha inizio da quando il prof. Raat trova il suo uccellino morto in gabbia - e la sua governante lo fa divorare dalle fiamme della stufa, sottolineando come da tempo non cantasse più. Da lì, il fatale passaggio alla passione per la sensualissima Lola, fatta d'amore da capo a piedi, come recita l'ossessivo Leitmotiv di Friedrich Hollander (che la Dietrich detestava - e, per inciso, anch'io); e, infine, il doloroso silenzio nell'aula vuota che chiude il film.
Gli aspetti educativi, spesso presenti nella cinematografia tedesca, appaiono ne L'angelo azzurro, determinanti: il Prof. Raat viene richiamato in scena in quanto tale, con la sua figura professionale, socialmente riconosciuta e, in quanto tale, messa in discussione. Tuttavia, appare anche chiaro, che il ruolo del docente - problema a me caro, per ovvie ragioni di carattere professionale - non è visto nella rilevanza specifica del suo mestiere, ché anzi il rapporto tra professore e studenti e il contenuto relativo sono limitati a poche scene e si configurano in modo piuttosto superficiale. Il vero dialogo tra le generazioni e le classi sociali avviene fuori dalla scuola e dai protocolli che dovrebbe regolarli: vede l'intellettuale di provincia come un uomo già confinato alla sua morte e alla sua alienazione rispetto alla "modernità" che il popolo intravede e celebra tra le gambe di Lola Lola.
E lei, la donna del peccato, questa bellezza magnetica e fredda, un simbolo di come questa modernità dovesse configurarsi nell'effimero passaggio di una compagnia di guitti (oggetto di altre opere di Heinrich Mann), con la storia di una rovina tatuata sul corpo e l'inno fiammeggiante dell'inaffidabilità della bellezza: Ich bin die fesche Lola, / der liebling der saison, / ich habe ein pianola, / zuhaus in meinem Salon...
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