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L’angoscia del moralista nell’esordio di Alfonso Brentani, di Andrea Sartori

Creato il 05 settembre 2011 da Fabry2010

L’angoscia del moralista nell’esordio di Alfonso Brentani, di Andrea SartoriIn un passaggio del suo drammatico referto Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio (Quodlibet, Macerata 2011), Daniele Giglioli sintetizza così lo stato della vita pubblica del Paese a cavallo del nuovo millennio, il perdurante anno zero dello spirito sociale italiano, refrattario a essere simbolizzato nel linguaggio da un soggetto capace di verità: «Non c’è settore della vita pubblica, dalla politica alla finanza, dallo sport alla cultura, che non si presti a essere interpretato in chiave di bande – cordate, scalate, filiere, gruppi di pressione, patti di sindacato, lobby, cricche, conventicole, famiglie, mafie». Uno scenario sconsolato a cui quasi tutti siamo assuefatti, appiattiti per stanchezza, delusione e talvolta paura, sulle locuzioni più indeterminate che ci siano, che meno di altre richiedono una presa di posizione, una specifica postura critica, da parte dell’enunciante: si sa, così fan tutti, non c’è altrimenti. Nel furioso e al tempo stesso insensibile dileguare del vero e del senso di responsabilità, l’unico principio che le bande macinatrici di realtà e di potere adottano per imporsi e mantenersi sulla scena pubblica nazionale, è quello arcaico dell’auto-conservazione. All’apice – presunto – della società e dell’economia della conoscenza, laddove si disquisisce di preziosi capitali cognitivi da valorizzare e di evoluti strumenti di comunicazione da adottare, il campo politico e produttivo del Paese è per lo più attraversato dagli impulsi ferini di un rinnovato stato di natura hobbesiano, dalle leggi di un incravattato darwinismo sociale, ove contano null’altro che la sopravvivenza, la conservazione dell’utile e del proprio interesse materiale.
Abdicare a una simile posizione è un atto di forza, un gesto paradossale di resistenza e di autentica realizzazione di sé: è quanto compie Alfonso Brentani, con senso dell’ironia e insieme del tragico, nel libro Per oggi non mi tolgo la vita, Exòrma, Roma 2010. Debitore di Luciano Bianciardi e di Guido Morselli, di Italo Svevo, de Il libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa e soprattutto del Giuseppe Berto de Il mare oscuro, Brentani fa dire al proprio personaggio radicale, esasperato, eccessivo: «L’amore, l’amicizia, l’ambizione, la riproduzione, la vita sociale e professionale, i sorrisi e le uscite notturne e diurne, gli interessi e l’arte, le passioni, le emozioni, i titoli e i profitti, gli affetti e gli abbracci e i dolori; e io di tutto ciò non voglio più nulla, voglio l’assoluta libertà di rifiutare tutto e di non combattere per ottenere tutto ciò, voglio l’onore delle armi per obiezione di coscienza alla vita». E ancora: «Voglio il diritto al patetismo: alla sconfitta e alla rinuncia, alla debolezza e al crollo». Poche altre formulazioni narrative sono altrettanto lapidarie e icastiche nello sferrare senza mezzi termini un calcio in faccia ai tanti che, non essendo all’altezza della contraddittorietà e della complessità delle proprie vite e delle proprie azioni, sono impotenti all’autocritica, terrorizzati alla sola idea di apparire perdenti sul ring degli spiriti animali in competizione (sia esso il talk show televisivo o il mercato con i suoi player, la corsa elettorale dei candidati politici o il luogo di lavoro con le sue condizioni e i suoi obiettivi capestro, la scuola dei concorsi bloccati e truccati o l’industria culturale dei bestseller annunciati).
Per oggi non mi tolgo la vita è, in parte, l’odissea tragicomica di un individuo che tenta più volte il suicidio, fallendo senza rimedio anche in questo. «Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio», scriveva Samuel Beckett in Worstward wo (1984), capovolgendo il grido di battaglia del progresso, Avanti tutta, in un assurdo e sarcastico Peggio tutta.
Di sé, il protagonista del libro di Brentani – un romanzo con inserti diaristici e un’appendice anche documentale, d’inchiesta – fornisce un ritratto impietoso, ovvero una fisiognomica e un’analisi psicologica che hanno del crudele e al tempo stesso del tenero. Le pagine di Brentani, tuttavia, non ricercano mai l’assoluzione o la compassione da parte del lettore, e così rischiano di conquistarne – quale non voluto effetto collaterale – nientemeno che l’amore.
Costantemente afflitto da una «furia cogitativa ingovernabile», il protagonista non appartiene a quella schiera di uomini che risolvono i problemi – propri e altrui – semplicemente senza rendersi conto di incontrarli (i problemi). Anzi, il suo pensiero e il suo sentire, sin dall’età della consapevolezza, sono avvitati nell’inestirpabile inclinazione alla resa e alla rinuncia innanzi a ogni ostacolo presentato dalla vita, e nel conseguente disgusto per essere così rinunciatario e arrendevole. La percezione della colpa propria e della propria sveviana inettitudine, sono infatti la necessaria precondizione di qualsivoglia giudizio sul mondo: «Come quando ogni volta mi sento in colpa per qualcosa di cui invece dovrei burlarmi con la gente, come quando fai un favore e ti senti in colpa perché pensi che il destinatario del favore possa pensare che il favore l’hai fatto per un secondo fine e dunque pensi che si senta in obbligo e che ti disprezzi».
Il bisogno di nuda e diseconomica sincerità, nell’io narrante di Brentani, scaturisce forse – e qui s’appalesa la moralistica prima radice del suo implacabile autolesionismo – dal sentirsi ab origine vincolato agli altri, a quella dimensione sociale dell’esistenza che egli apparentemente rifugge, ma che in realtà lo inchioda a sé, lo individua, come un’istanza metafisica, come un imperativo a cui è impossibile sottrarsi: «e forse questo terrore di mettere obblighi alle persone ce l’ho perché io mi sento sempre in obbligo verso tutti e tutto, anche verso la farfalla verso cui mia nipote soffia acqua». Nel caso dell’io narrante del libro, la percezione del vincolo nei confronti dell’altro è tanto acuta da risultare insostenibile. «Quando sono con le persone», scrive Brentani, «non so mai cosa dire», e d’altro canto le persone, gli altri, nutrono un attaccamento a se stesse che al protagonista del libro appare incomprensibile: «con queste fisse della vita a tutti i costi…». La singolarità del genio morale di Brentani ricorda lo strenuo soggettivismo romantico di Novalis, in particolare del suo Heinrich von Ofterdingen, sospeso tra il presentimento di una comunità necessaria eppure ripudiata, e ciò che sarcasticamente Hegel chiamava, nella Fenomenologia, il «servizio divino officiato in solitudine».
Sarebbe pertanto riduttivo accorpare il personaggio di Alfonso Brentani a quella tipologia di disadattati sociali che piangono di sé e s’acquietano nella propria inerzia, rifugiandosi in una rassegnata nicchia lavorativa per vegetare in pace, ad esempio nell’industria culturale – una condotta di vita, per altro, molto più diffusa di quanto si creda. Stigmatizzando l’attaccamento della persona alla vita, l’io narrante giudica, in realtà, una specifica figura sociale, infatti «i personalismi che diceva morselli nei politici ci sono anche di più negli intellettuali e allora se ne vadano affanculo questi intellettuali vanesi e sterili e questi della letteratura in cui lavoro e che frequento molto poco e molto di meno di quanto frequenti altri esseri umani».
La mancanza di rispetto nei confronti della sofferenza umana, inclusa quella dell’uomo che indugia in compulsivi pensieri di sottrazione al respiro, è un altro aspetto che desta il verbigerante furore della scrittura di Brentani, e che motiva il suo protagonista all’ascolto di tutti i sottogeneri della musica blackmetal: «io reagisco così perché sono debole e non ho anticorpi esistenziali ma tu ti sogneresti di dire a un malato che sta morendo oh ma che fai perché muori per questa malattia ma lo sai che tanta gente con questa malattia mica muore anzi guarisce e poi torna felice? (…) ma che minchia dici a parte che i dolori non possono mai essere confrontati perché sono soggettivi e non oggettivi come un chilo di carote puoi forse per caso dire quello ha un chilo di disperazione e non può ammazzarsi perché per ammazzarsi devono essere ammessi almeno due chili (…), per ognuno il suo dolore è il peggiore di tutti».
Le presenze vive, animate, nel fluire dei giorni del protagonista di Brentani, ci sono, anche se restano sullo sfondo, ogni volta quasi in attesa di essere appena evocate: un gruppetto di amici e di colleghi del lavoro culturale, una nipote, una madre ovviamente invadente, un cane, una dottoressa non proprio sensibile o professionale – già Franz Kafka diceva che scrivere una ricetta è più facile che parlare con un sofferente. È il rapporto con il cane a dare la misura del rapporto con le persone, a tracciare la strada di una prossemica di relazione che non è affatto ontologicamente negata all’io narrante, ma è semmai da collocare, intensificata, in un suo indeterminato futuro: «Allora il fine settimana lo prendo e lo porto in giro e anche lo coccolo e accarezzo almeno con lui non arrossisco a fare queste cose e almeno ci riesco senza che mi prendano crampi agli arti e palpitazioni disonorevoli e poi lui mi guarda con degli occhi neri giganteschi in mezzo a tutta quella lussureggianza di apparato pilifero bianco che sembra che pianga e mi fissa e emana amore puro e eterno e incondizionato e senza costi e ricatti e cose in cambio».
Amare, dunque, è foriero d’un rossore che il protagonista di Brentani percepisce come atavico senso di colpa, come deragliamento dell’io che le ampie e astratte cerchie della società – a differenza dei nuclei amicali più ristretti – non possono accettare, e qui l’angosciato esistere dell’io narrante rivela un altro bersaglio dell’utopia perfetta del suo moralismo: «Io penso sempre che tanto il corpo c’ha gli anticorpi perché prendere farmaci solo per avere scorciatoie o soffrire appena meno, è uno dei vizi della nostra società farmacologicamente industrializzata».
Esibendo il potenziale critico del dolore liberato dal contenimento medico, dando fiato alla conversione della sofferenza idiosincratica in metro di valutazione della realtà, Brentani fa fuori nel suo libro una lunga serie di tabù, anche comici, tra i quali: quello della morte come elemento separato dalla vita, certamente, ma anche l’opinione secondo cui i classici greci sono da venerare a ogni costo, poiché in realtà troviamo a dir poco disdicevole la loro usuale condotta di vita privata; e poi l’idea in base alla quale il suicida fallito è esecrabile perché non conosce i veri dolori dell’esistenza; il luogo comune per cui il Medioevo è stato un’età oscura, «mentre a me l’epoca oscura pare questa»; l’ingerenza biopolitica dello stato etico nella vita animale, allorché il potere costituito obbliga l’accompagnatore del quadrupede a munirsi di paletta, onde evitare che al cane venga affibbiata una multa (benché la paletta d’ordinanza un domani inquini sicuramente più della cacca)… .
Moralismo è considerare ogni fatto e ogni uomo sotto il profilo morale, e il protagonista di Brentani – disperandosi sino al parossismo per l’assenza di santità nel mondo – non può che patire innanzitutto su di sé, al pari di una malattia, il rigore e la «furia inquisitoria» con cui interroga la realtà. Vittima dell’auto-contraddittorietà del proprio giudizio morale sul conflitto d’interessi degli altri – sia che si tratti del presidente del consiglio, sia che si tratti di un critico letterario compiacente nei confronti di un autore in batteria alla sua stessa casa editrice – l’io narrante si dischiude spontaneamente, senza poterci fare nulla, alla delusione e all’angoscia. Inquisitore nient’affatto santo, ma triste, il narratore di Per oggi non mi tolgo la vita non è neppure incline a farsi salvare dal prossimo che gli sta accanto, né a chiedere aiuto in caso di bisogno: «tipo che sto affogando e mi decido a chiamare il bagnino forse perché odio sentirmi in debito e non sopporto il peso della gratitudine per cui sono egoista in fondo».
In fuga dal «mondo leggerissimo» della televisione, quello dell’odiosa felicità obbligatoria, l’alter ego di Alfonso Brentani non può poi che confrontarsi con una peculiare forma di distanziamento dalla vita, la scrittura, poiché solo in essa la sua collera nei confronti della falsità riesce a dilagare oltre misura, e a farsi traccia. Egli acconsente allora a riconoscersi come «suicida da scrivania», avvertendo intorno a sé le biografie disperate e peggiori delle sua degli scrittori più amati e letti, di «chi invece c’è riuscito, se non a vivere, almeno a scrivere»: «magari se riesco a fallire nella vita vera riesco a fare qualcosa in quella scritta». Sulla pagina, l’io reagisce con rabbia alle ironie a buon mercato di chi lo incolpa di vittimismo, di non corrispondere «ai canoni di piacevole felice sorridente solare brillante abitante del mondo splendido», al «dogma socio-capitalistico della luminosa efficienza sociale del perenne sorriso a tutti i costi». Sempre sulla pagina, d’altra parte, egli apprezza «i più sensibili e buoni», coloro che «mai mi fanno sentire in colpa per essere serio scuro triste muto».
In un inserto diaristico nel bel mezzo del romanzo, ove Brentani depone la maschera del suo personaggio e parla di sé senza filtri, la rivendicazione della sconfitta e dell’assenza di ogni difesa preventiva è ancora più diretta: «Spesso ho immaginato la vita come un campo che brucia, brucia a fuoco lento e basso, non furioso (…). Io ci passo nudo». Senza schermi, senza pretese, senza utili da portare a casa, solo ustioni provocate dalla vita stessa. E quindi: certificati d’autorevolezza morale.
Nessuno, tuttavia, è perfetto, e il protagonista di Brentani, cedendo anch’egli a ciò che gli appare fin dall’inizio una resa all’inautenticità, al complotto che lega la medicina all’industria, si reca da una neurologa, «pettinatissima ed elegantissima», «come i palazzi e i computer e le macchine». Contemplando la sua sensualità inorganica, molecolare e asettica, l’io narrante, durante la visita, s’abbandona a pensieri degni d’un Baudrillard medicalizzato. Poiché «il consumismo nasce dalla noia», «l’acquisto compulsivo è uno dei più grandi rimedi al pensiero doloroso», il farmaco idoneo a curare tanto gli individui quanto la società in cui vivono. Esso «fa anche girare l’economia e crea tanti posti di lavoro e così la gente quando lavora guadagna e spende per non esaurirsi e il mondo continua a esistere». Intanto, però, la diagnosi della dottoressa individua il problema in quella carenza di autostima che l’efficientismo sociale e le immagini del wellness da esso propagate non tollerano. Il farmaco anti-depressivo Efexor è la cura.
Sia nella Repubblica, sia nel Fedro, Platone utilizza il termine pharmakon lasciando irrisolta la sua ambivalenza: esso è la menzogna utile agli uomini, è il veleno e insieme la medicina, il medio della scrittura – come sottolineava Jacques Derrida – che tuttavia risulta limitato e superato dall’oralità, la più idonea espressione del logos e della sua dialettica. L’io narrante di Brentani s’accorge di ciò sulla propria pelle non appena scopre – leggendo la verità del bugiardino allegato alla scatola del farmaco (un bugiardino veritiero come una manleva di natura legale) – che tra i possibili effetti secondari dell’Efexor vi sono talvolta l’ansia e in rarissimi casi il suicidio. Anche a questo, tuttavia, v’è un pharmakon: a tenere sotto controllo il primo fastidio ci pensa il Frontal. Nel giro di pochi giorni, il cocktail shakerato dalla dottoressa porta il protagonista dritto dritto nel reparto di psichiatria, dopo notti passate a sudare e tremare, giornate di deconcentrazione e inconcludenza sul lavoro, attacchi di panico e un’accresciuta determinazione a farla finita. Quel che lo salva, in questo caso, è un istinto di sopravvivenza che si stacca da lui e che, sordo al suo ripetergli «ma fatti i cazzi tuoi!», lo induce a telefonare a un’amica e a chiedere aiuto.
La vita vivente, intorno all’io di Brentani, prende così a ricostituirsi, ad assomigliare al luogo in cui ci si può incontrare e ci si può amare, pur tra gli alti e bassi dovuti alla consapevolezza di quel che si è e all’abbandono di una terapia farmacologica bislacca.
Qui il moralismo originario del protagonista, di per sé quasi senza oggetto, e perciò incline ad aggrapparsi ad ogni fantasma dell’esperienza e dell’immaginazione dell’esperienza, inizia a circoscrivere il proprio campo applicativo. D’ora in poi, si ripromette l’io narrante, nessun venale medico privato del cervello, ma solo medici del servizio pubblico, e soprattutto nessuna assunzione di Efexor, o di qualche altro psicofarmaco, a meno che il professionista della psiche sia ippocratico fino in fondo, e informi il paziente in piena trasparenza.
L’appendice diaristico-documentaria, nello spirito di un’inchiesta sugli interessi delle multinazionali del pharmakon, s’innesta su questo esatto punto di ricomposizione della realtà e delle sue proporzioni. L’io che ha così a lungo fronteggiato l’angoscia di un moralismo tanto severo da apparire comico e irreale, scopre che è possibile non essere vittima della propria sensibilità, e che quest’ultima può essere valorizzata – non solo patita – dalla responsabilità di stare al mondo, in una società con cui non si va d’accordo. Vulnerabilità, fragilità e precarietà – quali indici veritieri dell’esistenza stessa – cessano d’essere i motivi d’una integrale obiezione di coscienza alla vita, e divengono i tratti di un’identità – per altro oggi sempre più condivisa – con diritto e dovere d’espressione. In altri termini: l’anima bella dal cuore duro, intransigente, e l’ironista morale, incapace d’ancorarsi ad alcun criterio esterno di giudizio, si perdonano reciprocamente nell’angosciato campo di tensioni strutturato intorno al protagonista di Per oggi non mi tolgo la vita, e giungono a una sopportabile integrazione del sé.
V’è ora un trauma concreto – un pensiero incarnato – da cui ripartire, con il linguaggio, con l’intelligenza, con la pulsione di vita.



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