Se penso a Wladimiro Panizza me lo immagino sempre con la divisa della Brooklyn: strisce verticali rosse e bianche che, secondo mio papà, facevano di quella maglietta una delle più belle di sempre. E forse ha ragione. Me lo immagino così: a braccia alzate sul traguardo della centesima Milano – Torino.
Ma la storia di Panizza non inizia con la divisa Brooklyn. Comincia molto prima, nel rigido inverno del 1944, quando, sulle montagne, il partigiano Angelo Panizza, pensando al figlio che doveva nascere, decide di chiamarlo Wladimiro, in onore a Lenin. E quel figlio che vede solo per pochi anni, forse, del partigiano, aveva la tempra. Enzo Negrelli che si accorge del suo talento capisce subito che quel ragazzo di un metro e sessanta non è fatto per le volate: Miro, come viene soprannominato, è uno scalatore. Infatti, nel 1967, al suo primo Giro d’Italia, nella tappa di Lavaredo, mentre tutti salgono a forza di spinte, lui, con le sue forze, conquista il traguardo. Ma la gioia della prima vittoria da professionista viene subito demolita da Zavoli che chiede a Torriani di annullare la tappa per le numerose irregolarità. Wladimiro piange di rabbia e chiede giustizia. Piange, sì, perché è un ragazzo buono e onesto. E le ingiustizie, ai buoni, fanno più male.
Non sarà l’ultimo dolore, quello lassù, alle Tre Cime: il ciclismo è uno sport che a volte ti vuole bene e altre ti maledice. L’anno dopo, durante un allenamento, un camion lo butta a terra e la sua ammiraglia lo investe. Il povero Miro non ci crede quando gli dicono che ha subito una lacerazione dei legamenti del perone, la frattura del malleolo e molte lesioni al bacino. Ma, oltre che buono, Panizza è anche paziente con il suo destino: “La vita a volte è dura” dice, “ma c’è sempre qualcosa di peggio. E allora ho imparato ad accettare serenamente il bene e il male.”
Così nel 1969 torna in sella, a lavorare per Gimondi. E così lo scalatore diventa gregario? No, forse Miro non è né l’uno, né l’altro. Perché sa dare l’anima per il capitano fino allo sfinimento, sa tirare sulle montagne e ricucire gli strappi. Ma è capace anche di capolavori improvvisati come quello del Giro 1980 dove, in maglia Scic, era designato scudiero di Beppe Saronni, nella conquista alla rosa. Ma Saronni vince solo in volata e a Miro, quando inizia la salita, ribolle il sangue, l’altra faccia della sua anima chiede la strada, chiede di alzarsi sui pedali e andare via. Via dal gruppo, via dal gregariato. Tra le montagne abruzzesi è l’unico capace di stare a ruota di Bernard Hinault e, sul traguardo, grazie ai secondi accumulati qua e là, si ritrova in maglia rosa. Un sogno che dura sei giorni, bruscamente interrotto da una fuga di Hinault che ritorna leader della classifica e si porterà la maglia fino alla fine e lascerà Miro sul secondo gradino del podio.
Wladimiro Panizza appese la bici al chiodo nel 1985, quando le candeline da spegnere erano quaranta. E’ ancora suo il record di ben sedici Giri d’Italia portati a termine su diciotto. Non era campione né gregario eppure aveva un’anima punk che gli imponeva di non rivestire mai un ruolo definito, di ritagliarsi sempre qualche cosa di nuovo. Un’anima divisa tra il desiderio di andarsene dal gruppo, di scattare, di stare solo e il senso del dovere e della fatica. Un perenne contrasto che, forse, non ha mai subìto ma che gli è stato di aiuto per diventare quel Wladimiro tenace che voleva suo padre: capace di servire tranquillamente il capitano ma anche di seguire coraggiosamente l’istinto, di andarsi a prendere quello che voleva. E forse il destino non è poi così clemente con queste anime libere. Ma questa è un’altra storia.