di Giuseppe Dentice
Da anni le regioni sciite orientali sono al centro di un scontro violento di tipo religioso con le autorità sunnite di Riyadh. Le cause della proteste in corso sono da ricercare principalmente nella struttura di potere dello Stato saudita e nello scarso rispetto dei diritti umani nel Regno.
L’establishment politico-clericale saudita
L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta basata su una rigida applicazione della shari’a (la legge islamica e tribale), della Legge Fondamentale del 1992 e su una interpretazione della religione islamica tradizionalista (wahhabita di rito hanbalita) trasposta nella vita pubblica dei cittadini che garantisce alla monarchia poteri assoluti contro tutti i suoi oppositori politici. I 20.000 membri della famiglia al-Saud dominano la vita politica con un’accorta condivisione del potere fra i gruppi in cui è suddivisa. La formazione di partiti politici è vietata, così come qualsiasi altra forma di dissenso, di manifestazione e di associazionismo politico e sindacale. Le manifestazioni politiche sono punite con la flagellazione e l’incarcerazione. A causa di questa forte censura interna, perpetuata grazie l’ausilio della polizia religiosa (Muttawa’in) e al controllo completo dei media nazionali da parte della famiglia reale, è difficile quantificare l’effettivo seguito delle manifestazioni di questi giorni, ma erano anni che non accadevano nel Regno proteste così vibranti.
Il Re Abdullah circa un anno fa ha promesso un miglioramento delle condizioni di vita medie dei cittadini del Paese, attraverso un innalzamento dei sussidi per i lavoratori, la concessione di maggiori incentivi economici e l’apertura a qualche libertà politica e civile in più nei confronti della popolazione. L’unica riforma sociale apparentemente attuata è stata la concessione alle donne del diritto di guidare, anche se molte di loro continuano ad essere arrestate.
La monarchia saudita, non si regge tanto sul petrolio come si è solito credere in tutto il mondo, bensì, dunque, su un delicatissimo equilibrio interno tra il clero wahabbita e la famiglia reale. Questo equilibrio garantisce alla famiglia reale il potere in cambio di un controllo religioso totale sul Paese e dell’impegno ad esportare dove possibile questa particolare concezione ortodossa di Islam. Inoltre, da un punto di vista non solo simbolico, al regno dei Saud spetta il ruolo di guida politica e spirituale del mondo musulmano, essendo considerato custode dei luoghi sacri delle città sante di Medina e della Mecca.
Dal punto di vista religioso, però, l’Arabia Saudita non è un gruppo monolite. Tra i sunniti, infatti, esistono diverse componenti di sunniti non-wahabbiti, così come esiste una minoranza sciita sempre più irrequieta che si considera doppiamente oppressa, come minoranza in generale e come sciiti in particolare. A manifestare sono sunniti, sciiti, laici, liberali e attivisti per i diritti umani. Le motivazioni delle proteste sono dettate dalla necessità di ammodernare una macchina statale poco funzionale e vicina alle richieste politiche e sociali di una parte consistente della popolazione, non solo sciita, che chiede modernità e maggiore democrazia.
Lo scarso rispetto dei Diritti Umani
Le leggi saudite non sono rinomate per gli alti standard di rispetto e tutela dei diritti umani fondamentali. Il Governo pone limiti molto rigidi alla libertà di associazione, di assemblea e di espressione. La costituzione di partiti politici è vietata. L’Arabia Saudita ha firmato con riserva solo 19 dei 53 strumenti internazionali che riguardano i diritti umani e non ha firmato affatto i due Patti internazionali fondamentali del 1966. Solo recentemente ha firmato la Convenzione che abolisce tutte le forme di discriminazione contro le donne.
Secondo gli indicatori di Transparency International, il regime saudita è alla 57esima posizione per quel che riguarda gli indici di “democrazia” e di “corruzione” nella gestione della res publica all’interno della classifica dei Paesi MENA. I rappresentanti delle associazioni per i diritti umani sono oggetto di persecuzioni e spesso vengono arrestati. Secondo fonti non ufficiali, negli ultimi anni, oltre 2.000 tra accademici, attivisti per i diritti umani e liberi professionisti sauditi, per lo più sunniti, hanno firmato diverse petizioni in cui si chiede una profonda riforma della Costituzione del Regno, dove non esiste un potere legislativo eletto e dove i partiti, i sindacati e le manifestazioni pubbliche sono fuorilegge. Tutte queste persone solo per aver chiesto riforme sono state minacciate o addirittura arrestate con l’accusa di essere dei congiuranti.
Inoltre, nel Regno saudita, né le minoranze musulmane, né le altre religioni possono professare pubblicamente la propria fede. A questo riguardo le numerose manifestazioni nel Qatif, bollate da Riyadh come una congiura ordita da “iracheni e iraniani”, nascondono un’altra verità: la provincia sciita è un territorio ricco di giacimenti di greggio, vicina ai terminal petroliferi sul Golfo, che si affaccia di fronte alle coste del Bahrain e dell’Iran. La popolazione di fede sciita – circa il 15% della popolazione totale – ha invocato la fine della loro “discriminazione” in tutti i rami della vita pubblica nazionale: dal Consiglio Consultivo Nazionale (Majlis as-Shura), agli organi di sicurezza e alle istituzioni.
In evidenza la regione orientale del Qatif - Fonte: al-Jazeera
I cittadini del Qatif, come del resto tutti gli sciiti sauditi, vengono guardati con sospetto dai Saud perché considerati come “agenti iraniani” in territorio saudita in funzione destabilizzatrice. L’unica risposta del governo di Riyadh alle proteste delle minoranze sciite è stata quella di inviare 10.000 agenti di sicurezza nelle sue province orientali per reprimere le rivolte. Ma gli sciiti del Qatif, accusati dal governo centrale di volere la secessione della regione dal Paese, desiderano, piuttosto, libertà e dignità.
Un futuro settario anche in Arabia Saudita?
Più di due anni fa un imam delle Eastern Province minacciò la creazione di un’entità statale sciita separata e indipendente da Riyadh, qualora le autorità saudite non avessero fatto nulla per venire incontro alle esigenze degli abitanti del Qatif. Allora, l’unica risposta del governo saudita fu di reprimere con forza le manifestazioni e accusare Teheran di esser l’oscuro regista della destabilizzazione del Regno. Oggi, a distanza di due anni, l’establishment ha fatto promesse finora mia mantenute, ma quanto possa durare la pazienza dei cittadini del Qatif, del Dammam e di tutte le altre province sciite prima che anche nella penisola saudita possa emergere una nuova sponda dello scontro settario regionale è difficile da ipotizzare.
* Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)