Magazine Architettura e Design

L’architettura, un mestiere da uomo. Speciale – Gae Aulenti

Creato il 22 febbraio 2011 da Urdesign

L’architettura, un mestiere da uomo. Speciale – Gae Aulenti

“L’articolo che vi stiamo per proporre si basa su un’intervista all’architetto udinese Gae Aulenti mandata in onda su Rai 5 e ripresa in questi giorni sulle pagine del Corriere della Sera.”

Siamo in una antica palazzina d’angolo in zona Brera. Qui Verdi compose la sua Messa da Requiem, qui una volta i barconi arrivavano carichi sul Naviglio. Bisogna salire per una scaletta in ferro arancione, per raggiungere lo studio di Gae Aulenti. Un tavolo quadrato su cui sono distesi ampi fogli di progetti, vecchi modelli in legno alle pareti, alle spalle un altro tavolo bianco colmo di fogli, libri, matite, penne, forbici. Libreria fitta di cataloghi, fascicoli, classificatori. Idea di ordine e geometria. La stessa che emana dalla figura severa dell’architetto della Gare d’Orsay di Parigi, del Museo d’arte catalana di Barcellona, di Palazzo Grassi, delle ex Scuderie del Quirinale. Sigaretta tra le dita, capelli bianchi cortissimi, e calma, molta calma, gesti ampi delle braccia nel ricordare la sua lunga carriera. «Gli anni che passano? Uffah, che domanda… Io sono difesa dal mio lavoro e dalla mia passione». A difenderla è anche la timidezza.

Gae nasce in provincia di Udine, a Biella la famiglia si era stabilita per ragioni di lavoro, ma in origine c’è molto Sud. Un papà commercialista, figlio di un magistrato della scuola di Trani e una madre napoletana il cui padre era un medico che insegnava a Palermo: «Avevamo una casa di campagna in Calabria e finché la guerra ce l’ha concesso andavamo lì per le vacanze. Ero a Napoli nel ’44 e vidi l’ultima eruzione del Vesuvio». Gae Aulenti comincia a studiare al Liceo artistico di Firenze, ma con la guerra è costretta a tornare al Nord: sul collegio di Torino, dove si è stabilita, cadono le bombe, dunque torna a Biella, dove studia privatamente. «Prestavo dei piccoli servizi alla resistenza, si fidavano di me e qualche volta portavo fuori dai blocchi le missioni inglesi fingendo di andare in camporella. A Biella ero amica di due sorelle ebree che sparirono da un giorno all’altro. La coscienza civile nacque lì».

Milano arriva nel 1948, con il Politecnico, e diventa la sua città. «Ai corsi eravamo una cinquantina in tutto, oggi gli studenti saranno cinquemila… Allora c’era Visconti a teatro, c’erano le gallerie d’arte, c’era il cinema neorealista, la libreria Einaudi… Conobbi Vittorini grazie all’architetto De Carlo: era un uomo bellissimo, in preda a timidezze furiose non dissi una parola». Milano città aperta: «Era una città europea in grande fermento e noi eravamo molto battaglieri, si guardava in grande: più che a Gio Ponti eravamo interessati al razionalismo internazionale, a Gropius, Le Corbusier, Wright…».

L’educazione all’arte viene dai genitori? «I miei genitori mi hanno insegnato a formarmi una personalità autonoma: lo stacco dal Sud al Nord, per loro, è stato importantissimo. Io avevo delle visioni artistiche, tra virgolette, però c’era l’Italia distrutta e l’architettura era il settore in cui si poteva intervenire. Sa, vedere le macerie ancora oggi mi è insopportabile». Il primo progetto di Gae Aulenti è legato al nome di Adriano Olivetti: «Morì mio padre e nel ’60 avevo bisogno di lavorare. Luciana Nissim Momigliano, moglie dell’economista Franco, mi procurò un colloquio con Olivetti e mi presentai un giorno con la mia tesina di urbanistica. Una vergogna… Fu un colloquio senza parole, muti tutti e due. Cominciai impaginando la rivista Tecnica e organizzazione. Conobbi Giorgio Soavi e Renzo Zorzi e il primo lavoro fu uno showroom Olivetti a Parigi e subito dopo a Buenos Aires. Così cominciò la mia vita di andata e ritorno con Milano, che dura ancora». I due primi plastici sono quelli appesi alla parete.

Da allora Gae Aulenti si sposta in tutta Europa, in America, in Giappone, in Cina… Andata e ritorno. Mai avuta la tentazione di fuggire da Milano? «Solo adesso ho cominciato a pensarci, avrei la voglia ma non lo farò. Milano è fatta dagli immigrati, c’è uno scambio diretto e indiretto, è come stare qui e altrove nello stesso tempo. Sa quanti anni ho? 83, oh!» sorriso «tengo ancora duro, con la possibilità di un pensiero attivo». E con il ricordo degli incontri che misero a frutto la sua giovanile passione teatrale. Con Luca Ronconi, per cui allestisce il primo progetto scenico a Napoli nel ’74: «Lavorando per il teatro ho capito il valore dell’azione per l’architettura: anche nell’allestimento del Museo d’Orsay entra il concetto di azione, nei percorsi, nei passaggi da uno spazio all’altro, nei viali. Un’idea di tempo, oltre che di spazio». Con Paolo Grassi, il deus ex machina del Piccolo: «Stava zitto o parlava moltissimo, senza via di mezzo. Riusciva a essere molto gentile oppure molto villano, con scatti imprevedibili. Mi chiamava l’Atacchica, perché non ho mai portato i tacchi». E poi, Giangiacomo Feltrinelli: «Un tipo taciturno. Lo conobbi in una cellula comunista in piazza Duomo, dove stava allestendo un banchetto di libri. Ha sempre ammirato la forza di Inge…». E ancora: Tadini, Sottsass, Eco: «Amici? Io non mi confido con nessuno. Questione di carattere. Per dichiararsi amici bisogna essere in due, non ci si può pigliare la responsabilità da una sola parte». Gianni Agnelli, il lavoro a Venezia e quello a Villar Perosa, per la scuola materna in memoria di Edoardo: «Ricordo che c’erano da mettere dei pannelli solari e io volevo che fossero grandi farfalle. Dissi che era una spesa in più e Agnelli rispose: “Non fa niente, è più pedagogico, facciamolo”. Non si imponeva, però si interessava a tutto».

Non fu forse una vera amicizia, c’era troppo distanza d’anni tra la giovane Gae Aulenti e il maestro dell’architettura Ernesto Nathan Rogers, nel ’55, quando la neolaureata entrò nel giro di «Casabella»: «Rogers mi ha insegnato che l’architetto è in primo luogo un intellettuale. E poi mi ha trasmesso l’importanza di uno sguardo internazionale: per me era fondamentale partire per Buenos Aires e prendermi il tempo per passare dalla Bolivia di Che Guevara, conoscere Parigi significava conoscere l’Europa eccetera… Non mi sono mai fermata».

Negli anni 80, la relazione con Carlo Ripa di Meana la avvicina a «ambienti politici che non mi piacevano, cioè il craxismo deleterio». Per la città di Milano, Gae Aulenti lavora poco: lo Spazio Oberdan nel ’99 e la Stazione Nord nel 2000, oltre naturalmente a tanti progetti privati. Sfoglia un libro con la sua cronologia ed esclama sorpresa: «Ma che vita che ho fatto! Eh già, ho lavorato anche a Medellín…». Barcellona è un ricordo più nitido: «Decisero di fare il Museo dell’arte catalana ma non avevano i soldi. Ci abbiamo messo 18 anni, dal 1985, cambiando sindaci e amministrazioni politiche, ma si continuò come nulla fosse. Qui cambia un assessore e salta tutto!». La Gare d’Orsay venne ancora prima: «Un lavoro durissimo. Collaboravo con i conservatori e interveniva anche Mitterrand, visitava i cantieri e diceva la sua. Una volta accennai al rivestimento di pietra grigia e lui guardò i campioni e disse: “No, Madame Aulenti, c’est jaune”, è giallo. E io: “No, Monsieur le Président, c’est gris”. Veniva per lavorare, non per fare visite di circostanza. A lavoro finito, ci fu una divisione netta tra chi lo apprezzava e chi no. È l’ideale. Quando tutti sono d’accordo c’è qualcosa che non funziona».

Se chiedete a Gae Aulenti come definirebbe il suo stile, vi risponderà senza etichette: «Non si può fare la stessa cosa a San Francisco o a Parigi. Quel che conta è il contesto fisico e concettuale, per questo mi serve un lavoro analitico molto attento, prima di progettare: studiare la storia, la letteratura, la geografia, persino la poesia e la filosofia… Bisogna inventarsi le soluzioni volta per volta e i libri aiutano. Poi viene la sintesi, infine la parte profetica: la capacità di costruire cose che durino nel futuro. Se l’architettura si butta via, diventa un cumulo di macerie».

Un mestiere per uomini, l’architettura. O no? «Lo so, ma io ho sempre fatto finta di niente». Quanto ha sacrificato alla famiglia per il suo lavoro? «Sacrificio è una parola che non conosco». Allora mettiamola così: quanto ha sofferto la famiglia per il suo lavoro? «Alle donne è sempre associato il sacrificio… Mia figlia è andata presto ad abitare a Roma, forse per sfuggire alla mia presenza un po’ forte. Io ho divorziato e oggi abbiamo delle famiglie un po’ fuori dal costume: forse per questo siamo più unite di chiunque altro. Boh!».

fonte: corriere.it


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :