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L’arte bizantina a Napoli nei secoli del ducato.

Da Leucosia

 

 L‘arte bizantina a Napoli nei secoli del ducato. 

L’arte bizantina a Napoli nei secoli del ducato.

1. Cenni storici.

Durante il lungo arco di tempo considerato, Napoli fu dapprima dominio bizantino (VI – VII d.C.) poi ducato autonomo (763-1139) ed infine sotto la dinastia normanno-sveva. L’intero periodo risulta ricco di vicende storiche  determinate dal succedersi di accadimenti di enorme portata, come la fine dell’Impero Romano d’Occidente, il sorgere della religione cristiana, la minaccia delle invasioni barbariche. La città partenopea venne direttamente coinvolta nella guerra greco-gotica (526-535): contesa tra Goti e Bizantini la città fu conquistata nel 536 da Belisario, ma non senza difficoltà e stratagemmi[1].  In seguito, Napoli venne riconquistata da Totila nel 542, per poi passare definitivamente sotto la dominazione bizantina nel 553. in quest’epoca la città era sede di un giudice  – magistrato civile dipendente dal prefetto d’Italia – e di un duca o magister militum – dipendente dall’esarca ; dopo il 661 , scomparso il giudice , il duca che intanto aveva assunto anche ruolo civile, cominciò ad essere napoletano, sottoposto allo stratego di Sicilia.

Per secoli il ducato dovette combattere su due fronti: contro i Longobardi che l’insidiavano dall’interno, e contro i Saraceni, che lo minacciavano dal mare; furono i Normanni a sconfiggerlo , verso la metà dell’XI secolo, e ad annettere Napoli ed il suo retroterra al territorio della monarchia normanna.

2. Le testimonianze artistiche.

Nell’Alto Medioevo Napoli non fu influenzata dall’area longobarda, ma rimase a lungo una città in cui  era ancora presente la tradizione artistica tardoromana, associata ad un’influenza diretta della cultura bizantina; in questo modo la città partenopea si distingueva dagli altri centri campani; le arti accolsero la maniera bizantineggiante, che fu mantenuta viva fino all’XI secolo. Nei secoli del ducato numerose furono le opere monumentali e minori eseguite a Napoli, di cui però è rimasto ben poco a causa delle distruzioni operate sia da calamità naturali che dalla mano dell’uomo.

Le testimonianze in alzato fino all’epoca della dinastia angioina sono quasi del tutto assenti nel capoluogo partenopeo, spesso limitate ad episodi superstiti, inglobati in strutture posteriori. Tra questi citiamo le arcate absidali della chiesa di San Giorgio Maggiore[2], che recano, già nel V secolo, un elemento caratteristico dell’architettura grecoorientale: il pulvino con funzione intermediaria tra capitello e archivolto. Questo elemento architettonico, preceduto dagli esemplari ornati dal monograma cristologico – di incerta datazione – della chiesa di San Giorgio Maggiore, è decorato da una corona includente il monogramma del vescovo fondatore, fiancheggiata da schematiche forme vegetali.

Se questo episodio induce a riferimenti con l’ambito culturale greco-egeo, accenti più specificatamente asiatico-siriaci rivela la tipologia planimetrica della basilica di San Lorenzo Maggiore: l’abside non estradossata e fiancheggiata da due ambienti di servizioed i mosaici che li pavimentano concordano, per la loro tipologia, con l’epoca riferita dalle fonti per questa chiesa, ossia il periodo dell’episcopato di Giovanni II.  I mosaici in particolare, al pari di altri documenti musivi campani, mostrano la predilezione per i forti contrasti cromatici e per la superficie movimentata da intrecci, secondo un modo di comporre che trova riscontro con i mosaici pavimentali dell’Oriente cristiano.

In età mediobizantina, in Campania, ad eccezione delle significative testimonianze offerte dalle chiese di San Costanzo a Capri, a croce inscritta, e San Giovanni a Mare a Gaeta, edifici che rivelano similitudini, al pari di alcune chiese sarde (San Giovanni di Assemini, San Giovanni di Sinis) con le innovazioni architettoniche bizantina, non abbiamo altri documenti architettonici.

Un panorama ben più articolato è offerto in Campania, dalla scultura locale, che presenta anche degli elementi in comune con quella sarda. A partire dall’VIII e poi dal IX-X secolo, all’epoca dell’episcopato di Leone III, gli esemplari di Napoli, Cimitile, Sorrento e Capua rivelano uno sviluppo artistico unitario. I numerosi piastrini di Cimitile hanno i loro precedenti tematici e stilistici nella decorazione a girali che incornicia due lastre provenienti dalla chiesa napoletana di Santa Maria in Piazza, datate al tardo VII: questi ultimi elementi scultorei spiccano inoltre per la loro resa accurata, rispetto ad altre realizzazioni meno colte, coma appunto quelle di Cimatile. Questi piastrini presentano anche delle analogie con i rilievi degli architravi e degli stipiti di Scripou in Beozia e della chiesa di S. Gregorio a Tebe. Un’altra caratteristica non locale, ma di provenienza orientale è presente nei plutei della cappella napoletana di S. Aspreno al porto, la cui decorazione indica una dipendenza dai modelli sasanidi.

Concludendo questa breve introduzione, possiamo dire che, anche se i documenti campani sono numericamente limitati, nella loro qualificazione tipologica e stilistica assicurano il carattere internazionale dei centri campani.

I mosaici. 

Le decorazioni musive della cupola del Battistero di San Giovanni in Fonte.

I mosaici del battistero di San Giovanni in Fonte furono messi in luce alla fine dell’800, quando furono rimosse le pitture del XVII secolo che li ricoprivano. Situato in fondo alla navata destra della basilica di Santa Restituta, il battistero è generalmente attribuito al vescovo Severo (363-412), anche se le fonti presentano discordanze in proposito. Il Liber Pontificalis ci informa brevemente che il vescovo Sotere (465) fece costruire un battistero. La carenza di dettagli, l’assoluta mancanza di ulteriori scritti inerenti la presenza di due battisteri all’interno dell’area nonché l’assenza di resti[3] fa pensare che deve trattarsi di un rimaneggiamento dello stesso edificio. Inoltre nel corso di recenti restauri è emerso che nel V secolo si consolidarono la struttura muraria, si ridussero le dimensioni delle finestre, si ampliarono e vennero decorati tre dei quattro pennacchi a cuffia in cui sono raffigurati i simboli degli evangelisti, si restaurarono i mosaici nella fascia inferiore della cupola. La struttura architettonica del monumento e l’analisi stilistica della decorazione musiva fanno datare con certezza alla fine del IV secolo la costruzione del battistero. San Severo (364-410) costruì il battistero, San Sotere (465) ne curò una ristrutturazione con l’aggiunta di nuove decorazioni musive. San Giovanni in Fonte è senza ombra di dubbio il battistero più antico della Cristianità occidentale: anteriore di oltre trenta anni al battistero lateranense fatto erigere da Sisto III (432-440).

Evoluzione nei secoli. Originariamente l’edificio, che si presenta a pianta quadrata, era isolato, dotato di un ingresso che si apriva nella parete occidentale[4]. La struttura di base è raccordata al tamburo ottagonale mediante quattro nicchie angolari, mentre la copertura della volta è costituita da una piccola cupola a calotta. Costruito in tufo, prendeva luce da quattro bifore collocate nel tamburo; queste furono modificate in seguito, forse durante la ristrutturazione del vescovo Sotere, e furono eseguiti mosaici raffiguranti santi martiri sopra la nuova muratura. Entrando, sulla parete di sinistra si scorgono i due ingressi originari, oggi collocati a ridosso dell’abside della basilica costantiniana. Al centro è posta la vasca battesimale di forma circolare realizzata in coccio pesto: ha un diametro di 2 metri e una profondità di 61 centimetri; da tracce persistenti si può evincere che originariamente il bordo fosse circondato da transenne. Presenta un foro per la fuoriuscita dell’acqua ma è mancante di una condotta di adduzione. L’acqua veniva versata con recipienti, prassi comune documentata dagli antichi testi liturgici dei primi secoli. Il lato settentrionale dell’edificio fu modificato con l’aggiunta di un piccolo portico in occasione dei lavori di apertura della porta che collegava direttamente la cattedrale al palazzo arcivescovile, durante l’episcopato del Cardinale Filomarino (1644); le colonne e i capitelli appartengono a un restauro successivo datato alla fine del XIX secolo. In concomitanza con la conclusione della costruzione del duomo, nel XIV secolo, i mosaici subirono un restauro. Le zone mancanti delle tessere musive furono integrate con affreschi che raffiguravano un’Annunciazione e la Cena di Emmaus con pittura imitante il mosaico. Inoltre furono chiuse e affrescate le due finestre sulle pareti di sinistra e di destra; queste raffigurazioni si ispirano agli stilemi di Pietro Cavallini, con le figure del Cristo e della Madonna. Oggi, a causa della riapertura delle finestre, questi due affreschi sono stati distaccati e collocati al di sotto delle stesse. Nel 1576 la confraternita di Santa Restituta dei Neri ricevette il battistero in uso temporaneo. L’antica cisterna della vasca battesimale fu adattata a sepoltura per i confratelli: la copertura marmorea del sepolcro è ancora visibile. Il Cardinale Filomarino trasferì la confraternita nel 1647 nell’attuale sede del Tesoro Vecchio. Da allora il monumento, perduta qualsiasi utilità pratica, andò lentamente degradandosi, ridotto quasi a semplice corridoio di passaggio. Solo sul finire del XIX secolo si effettuò un radicale intervento di consolidamento e restauro per la valorizzazione dell’edificio, attraverso l’eliminazione delle scene spurie della volta e il restauro dei mosaici più danneggiati.

Descrizione dei mosaici. Sulla volta sono rappresentati i temi dei sacramenti inerenti l’iniziazione cristiana della Chiesa dei primi secoli. Questi mosaici costituiscono un bellissimo esempio di arte musiva romana, con temi e raffigurazioni presenti anche nelle catacombe napoletane. I mosaici del battistero di San Giovanni in Fonte sono una delle rare decorazioni musive parietali superstiti dell’Italia meridionale.

La volta del battistero è divisa in otto spicchi trapezoidali, delimitati da fasce trasversali che partono da un fregio posto intorno alla base. Queste fasce sono dorate e vengono raccordate al fregio tramite un vaso ansato, da cui si dipartono festoni ricchi di frutta, di fiori e di uccelli. Ogni riquadro è diviso in due parti raffiguranti scene evangeliche.Il centro della cupola contiene è la zona musiva più intatta. Una fascia anulare cinge un cielo azzurro trapunto di stelle d’oro, tra le quali campeggia una croce monogrammatica simbolo del Cristo glorioso, con le lettere AW pendenti dalle braccia. La croce è sormontata dalla mano del Padre Eterno, che stringe una corona d’alloro e un filatterio. All’altezza della mano, ritta sopra una piccola altura, spicca una fenice posta fra due palme e due uccelli simmetrici.La raffigurazione rappresentava ciò che attendeva il neofita dopo aver preso il sacramento: il cielo stellato e la vegetazione lussureggiante indicano il regno del Cristo glorioso, in cui il neofita ha diritto di cittadinanza in virtù del sacramento del battesimo ricevuto, che gli faceva sperare anche nella risurrezione a vita nuova, di cui era simbolo la fenice.Nei quattro pennacchi sono poste le raffigurazioni simboliche degli evangelisti: l’uomo alato (San Matteo), il leone alato (San Marco), il bue alato (San Luca) e l’aquila alata (San Giovanni), ormai quest’ultima è totalmente scomparsa. Sui pennacchi, scene pastorali con richiami a temi dei Salmi: il pastore tra due pecore e il pastore tra due cervi che si dissetano a sorgenti d’acqua. Di grande suggestione scenografica nonché di profondo contenuto religioso sono le scene bibliche. Nella zona di nord est sono abbinati i due episodi evangelici della Samaritana al pozzo e delle Nozze di Cana, con evidente riferimento simbolico al battesimo e all’eucaristia. Sulla parete orientale è rimasto il frammento di una scena che doveva rappresentare il Battesimo di Gesù al Giordano: resta la parte inferiore di un personaggio, di cui si scorgono il lembo della tunica e le gambe nude. A sud est, inquadrata tra due palme, è la scena della Traditio legis: il Cristo in piedi sull’universo raffigurato da un globo celeste consegna all’apostolo Pietro, posto alla sua sinistra, il rotolo della legge. Sulla parete meridionale, al di sopra dell’ingresso che porta alla basilica di Santa Restituta, sono poste due scene frammentarie: sopra Cristo che cammina sulle acque; sotto la pesca. A sud ovest, al margine estremo della zona coperta da mosaici, si intravede un personaggio vestito di tunica, coperto di pallio e con un piede calzato di sandalo, seduto su una pietra presso un’edicola monumentale, senz’altro una tomba; nella sinistra stringe un rotolo. Tutti i dettagli lasciano intendere che si tratti dell’Annunzio della risurrezione da parte dell’Angelo alle donne, secondo i canoni rappresentati­vi della risurrezione di Gesù nell’antichità cristiana.

Dal punto di vista stilistico, i mosaici del battistero presentano degli accenti ellenistici nella resa delle figure, con astrazioni formali di derivazione orientale; inoltre c’è un cromatismo – da notare la cupola realizzata nei toni del blu, del bianco e dell’oro –  che riporta ai mosaici ravennati come quelli del mausoleo di Galla Falcidia e del Battistero degli Ortodossi.

Analisi iconografica . il  programma iconografico della decorazione musiva del battistero si basa su tre gruppi distinti. Se si osservano le parti conservate, si può constatare come il tipo di iconografia  non corrisponda ad un ciclo narrativo, e che si tratta di scene legate da un significato che sembra legato ad un simbolismo unitario. Una parte del programma, che comprende la maggior parte delle scene della cupola (il battesimo di Gesù, le nozze di Cana, Gesù e la Samaritana, le donne al Sepolcro, la pesca miracolosa, Gesù che cammina sulle acque)sono tratte da episodi biblici specifici, spesso rappresentati anche sui sarcofagi e nelle pitture catacombali. Le rappresentazioni scelte spartiscono un’unità tematica ed evocano dei miracoli, dove si manifesta la potenza salvatrice di Cristo, potenza che si manifesta nel battesimo mediante l’elemento dell’acqua. Queste raffigurazioni, nelle quali è sottolineata l’efficacia del bagno battesimale, esprimono simbolicamente la speranza nella salvezza attraverso il battesimo.la seconda parte del programma iconografico è formata dalla rappresentazione della Traditio legis, situata in uno degli otto compartimenti della cupola, e dalle scene pastorali situate sugli archi che sormontano le quattro nicchie del tamburo – due scene con un pastore al centro, con ai lati due cervi che si abbeverano, e due scene con un pastore accompagnato da pecore.  Queste allegorie si collegano all’iconografia funeraria anche se non appartengono esclusivamente a questo genere; esse raffigurano un mondo oltremondano, un quadro paradisiaco accessibile unicamente col battesimo.  La terza parte del programma, che interessa il settore della cupola col medaglione contenente la croce monogrammatica, insieme alle figure degli apostoli, è puramente simbolica. Questo tema iconografico è utilizzato anche per la decorazione dei sarcofagi e dei mausolei: mette in rilievo il trionfo di Cristo ed in questo caso, sottolinea il valore del battesimo, sia come reiterazione del suo trionfo sulla morte,  sia come omaggio verso il Salvatore vittorioso. Gli apostoli, che sono annunciatori e testimoni della rivelazione di Cristo, continuano la missione salvatrice, esortando i fedeli all’imitatio Christi.

In questa decorazione è sottolineato il sacramento del battesimo, legato ai concetti di rigenerazione, di pace e vittoria. La tematica della resurrezione culmina con la presenza del simbolo stesso della rinascita: la fenice.

Numerose analogie iconografiche possono essere trovate con le decorazioni di altri edifici di uguale destinazione, nonostante la distanza geografica e cronologica, e che consentono di affermare che probabilmente esisteva un serbatoio iconografico proprio dei battisteri. Il battistero di Napoli può essere perciò situato tra quello di Dura Europos, dove si è preferito rappresentare temi biblici, e quello rivenante degli Ortodossi, dov’è presente una decorazione a sfondo teologico, basata sulla liturgia dell’Apocalisse. Malgrado queste varianti, il riferimento di fondo resta quello della salvezza futura, ottenuta solo mediante l’acqua.  

I mosaici pavimentali della basilica paleocristiana di San Lorenzo Maggiore.

La basilica. Le tracce di quest’edificio sacro, mirabilmente decantato nell’840 da Paolo Diacono nel “Chronicon Episcporum S. Neapolitanae Ecclesiae[5], erano andate perdute nel corso dei secoli, fino agli anni ’50 del XX secolo, quando durante dei lavori di sistemazione del pavimento e del transetto dell’attuale chiesa, ne riemersero alcune strutture.

La pianta[6] della basilica presenta i caratteri fondamentali delle basiliche romane e delle chiese bizantine, consistenti in una larga e vasta aula a pianta rettangolare, suddivisa in più navate da file di colonne. La basilica paleocristiana era formata da: un nartece – molto ampio , di circa 8m di profondità – posto sul davanti; un’aula grande, divisa in tre navate da nove archi di colonne, poggianti su otto colonne[7]; l’abside, alle spalle della quale erano altri due ambienti – la protesi e il diakonikon – detti pastofori. L’utilizzazione di tali ambienti[8], nati per esigenze liturgiche, è documentata sia nella liturgia siro-bizantina, sia in quella occidentale.

I mosaici. Sia nella protesi che nel diakonicon sono venuti alla luce i mosaici pavimentali che li decoravano. Nella protesi era un mosaico, conservato quasi interamente, che presenta lungo le pareti, una fascia nella quale bocci di loto espanso si alternano entro i seni di un nastro ondulato; il campo interno, a fondo bianco, è scompartito da ottagoni a doppia cornice, una nera, una rossa,che toccandosi negli angoli alterni, danno luogo a stelle a quattro punte. In queste ultime sono dei riquadri – in rosso e nero – con un piccolo fiore quadripetalo al centro; all’interno degli ottagoni vi sono nodi gordiani a croce, motivi geometrici, fiori, volatili terrestri e acquatici, serpentelli immagini simboliche diverse, come:

-   cesto di pane: segno della moltiplicazione dei pani (chiaro riferimento eucaristico);

-   melograno, segno della Chiesa ( si riferisce all’unità di tutti i cristiani).

Delineate con eleganza,  queste figure sono realizzate anche con una calda cromia, dalle diverse tonalità di azzurro, arancione, giallo e verde che, oltre a dare loro risalto, animano il tessuto geometrico del tappeto.

Nel diakonicon invece era un mosaico, purtroppo danneggiato, con un complesso schema geometrico; vi è infatti una prima cornice ornata da tralci stilizzati, una seconda costituita da una larga fascia nera sulla quale elementi di greca a tessere nere si alternano a quadrati con un grosso fiore quadripetalo e quattro stami lanceolati sovrapposti in croce. Nel mezzo, su fondo bianco,  nastri multicolori ornati da colombe affrontate ad un cantaro, nei triangoli tralci di vite, mei tonfi piccoli fiori a quattro petali, mentre nei due rombi e nei due rettangoli superstiti figurano rispettivamente un vaso e un gallo, un pesce e un delfino.

In questo caso notiamo una composizione più libera, eseguita con un disegno raffinato e con una smagliante policromia.

I mosaici superstiti della basilica paleocristiana di San Lorenzo testimoniano  almeno in parte, lo splendore della decorazione musiva dell’edificio sacro; si tratta dell’espressione di un’arte che, in parallelo con quella del mosaico parietale, dovette avere un’ampia diffusione in Campania, come fanno intuire i frammenti dei pavimenti musivi della cattedrale dell’antica Capua, molto vicini a quelli del diakonicon di San Lorenzo, e gli altri scoperti nella basilica di Mirabella Eclano, del VI secolo.

 

La pittura.

 In fondo alla basilica di Santa Restituta, nel catino absidale, è situato un affresco raffigurante Cristo in deesis. A lungo il dipinto è stato considerato dagli esperti, un pastiche neobizantino; solo in tempi recenti, grazie all’esecuzione di un accurato restauro[9], sono riemersi gli elementi originali dell’affresco, precedentemente coperti da pitture ottocentesche.

Uno dei principali risultati di questo intervento  conservativo è stato quello di determinare con chiarezza l’estensione delle parti originali sopravvissute della decorazione medievale.

Nel palinsesto le parti originali dell’affresco comprendono la grande e abrasa figura del Salvatore in mandorla, l’area adiacente con un unico angelo adorante, sullo sfondo di un cielo azzurro cosparso di nuvole, mentre nelle cuffie di imposta del catino sono affrescate a coppia i simboli degli Evangelisti (il toro di Luca con l’aquila di Giovanni, il leone di Marco e l’angelo di Matteo). Questi ultimi due affreschi presentano un motivo di particolare interesse tecnico: l’assenza delle teste di tutti e quattro i simboli evangelici. Se nel caso dell’angelo e del leone si tratta di lacune vere e proprie, nel caso dell’aquila e del toro invece la parte mancante riguarda l’area circolare in cui era compresa la testa. Ciò conferma che non solo la testa del Salvatore, conservata, era eseguita su tavola, ma verosimilmente tutte le altre presenti nell’affresco.

In effetti, in Campania tra l’XI e il XII secolo, esisteva una tradizione pittorica, in cui erano realizzate con tecnica mista delle decorazioni dove all’affresco venivano inserite in applique teste su tavola. A Napoli abbiamo sia l’esempio della Madonna con Bambino e santi, proveniente dalla cappella dell’Idria in San Gregorio Armeno (probabilmente anch’esso un guasto palinsesto il cui strato più antico può essere datato all’XI secolo), sia le due teste tardo-duecentesche  della Vergine e del Bambino ora al Museo di Capodimonte ma in origine pertinenti ad un’immagine ad affresco presente nella chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli; ad Amalfi invece esiste un’intera cappella nel chiostro del Paradiso, decorata da affreschi del XIII secolo, in cui le figure degli angeli e dei santi sono lacunose proprio al posto delle teste; un ultimo esempio di questo genere decorativo , anche se più tardo (datato al 1419) è a Caivano, nell’abside affrescata del Santuario di Santa Maria di Campiglione.

L’affresco all’interno dell’abside di Santa Restituta rinvia, all’interno della pittura medievale campana, alla decorazione della basilica di Sant’Angelo in Formis, il ciclo di gran lunga più celebre ed importante, commissionato dall’abate Desiderio negli anni settanta ed ottanta dell’XI secolo:la composizione generale e la figura stante del Salvatore benedicente sul ricco trono di bosso gemmato, di cui resta un bel frammento  in cui si leggono anche il ricco panneggio del manto ed un piede calzato posto su un cuscino, a confronto con quella citata dell’abside e specie del Giudizio della controfacciata; l’angelo chino, dalle tipiche larghe e ageminate ali e dalle vesti listate e splendenti di colori chiari, marcate da un panneggio rigido e preciso, con quelli che ancora li assistono al Giudizio; le fasce decorative riccamente policrome con decori simili ai sottarchi della stesa basilica.

Per quanto frammentari, gli affreschi della basilica di Santa Restituta mostrano – rispetto al vasto ciclo della chiesa tifatina[10], realizzato, secondo gli studiosi da maestri locali, e dal linguaggio icastico e corrivo – caratteri di più iconica e astratta stilizzazione; si tratta quindi di pitture di altissima qualità, come ad esempio si può notare nell’esecuzione delle nuvole coloratissime, fittamente addensate nel cielo, che sembra puntare con decisione verso Bisanzio. Tuttavia l’elemento schiettamente bizantino-costantinopolitano non manca nelle scelte culturali ed artistiche di Desiderio, dove sia nella chiesa madre a Montecassino e sicuramente in quella di Sant’Angelo in Formis, dovevano lavorare maestranze non locali, ma metropolitani, cioè bizantini.

 I rapporti artistici tra Napoli e Bisanzio non dovevano mancare, come attesta il caso della Testa di Cristo gigante, dipinta su tavola, che le fonti ricordano inviata in dono nel 999 dall’imperatore Basilio II all’arcivescovo di Napoli e poi finita miracolosamente nel locale convento dei Santi Marcellino e Festo; d’altra parte non mancavano nemmeno i contatti diretti con l’altro centro di importazione diretta , Montecassino, se nel 1094 un monaco cassinese, Pietro, compagno di Alfano e Desiderio, divenne arcivescovo di Napoli.

Il raffronto dei frammentari affreschi di Santa Restituta, specialmente della testa su legno del Cristo, conil panorama della pittura bizantina di età comnena (1081-1185) – in particolare con lo stile ascetico e severo di quella del tardo XI – è anzi in tal senso un importante elemento di prova, mentre i panneggi rigidi dell’angelo chino si ritrovano  nelle miniature delle Omelie di San Giovanni Crisostomo (1078-81), oggi conservate a Parigi.

Una datazione dell’importante episodio della basilica di Santa Restituta alla fine dell’XI è ancora da confermare, ma collocherebbe Napoli, purtroppo priva di testimonianze pittoriche di età tardo-ducale,  come centro primario di una cultura aulica, in stretto contatto con la Montecassino di Desiderio e capace di fornire modelli di stampo bizantino sia all’attenzione  degli artisti locali che a quelli dell’intera Italia meridionale.

La scultura.

 La decorazione architettonica  della Santa Restituta.

La costruzione della nuova cattedrale angioina provocò uno stravolgimento del precedente complesso episcopale, il quale comprendeva almeno due chiese, Santa Restituta e la Stefania, il battistero ed ovviamente la residenza vescovile[11].

Al momento della fondazione del duomo angioino (intorno al1294 )la Santa Restituta si salvò in parte, adeguata ed inglobata nel progetto gotico, mentre la Stefania fu praticamente cancellata.

Le fonti testimoniano l’esistenza di due distinte aule di culto e anche di due battisteri; restano però delle divergenze critiche circa l’identificazione della basilica costantiniana dedicata al Salvatore, con quella di Santa Restituta, anziché con l’altra che dal vescovo fondatore o ricostruttore- Stefano I – prese il nome appunto di Stefania.

Se la Stefania era dedicata al Salvatore, la fondazione di Santa Restituta si agglomera intorno al nucleo più mitologico della storia religiosa napoletana: la questione dell’arrivo di San Pietro a Pozzuoli e a Napoli, sulla strada per Roma. Dunque Pietro porta il Cristianesimo prima a Napoli e qui incontra i due personaggi che fungono da fondatori della Chiesa napoletana: la vecchia Candida ed Aspreno, il primo vescovo della città, da lui battezzato.

La basilica di Santa Restituta, risalente al IV secolo, si estendeva verso sud, probabilmente con tre o quattro campate in più ed un atrio, andando ad occupare una buona parte dell’area dell’attuale corpo longitudinale della fabbrica angioina. Il battistero era sul lato orientale della basilica,adiacente l’abside, con una porta che si apriva sulla strada greco-romana in direzione nord-sud.  Ad est della suddetta strada c’era la Stefania, che si affacciava sulla platea mediana della città, su via dei Tribunali e piazza Riario Sforza; è stato supposto  che questa chiesa avesse dodici colonne. Nel corso dell’VIII secolo sulla strada greco-romana situata tra le due basiliche, fu edificata una torre.

La basilica. La basilica di Santa Restituta è accessibile dalla navata sinistra della cattedrale da una porta che corrisponde alla terza cappella. Fondata dall’imperatore Costantino I nella prima metà del IV secolo, per via di numerosi rimaneggiamenti stilistici mostra pochi elementi della originaria struttura paleocristiana[12] . Fu costruita a cinque navate seguendo lo stile in voga al tempo; era molto più lunga dell’attuale estensione, prolungandosi per tutta la larghezza della navata centrale della cattedrale di epoca angioina[13] . All’interno delle navate vi sono 27 colonne di cipollazzo e granito con capitelli corinzi di diverso disegno e misura, sovrapposti a rozzi pulvini, sicuramente elementi di spoglio forse provenienti dal tempio di Apollo sulle cui rovine pare sorgesse la basilica costantiniana; le basi delle colonne sono fittizie e rappresentano un espediente a cui ricorse Arcangelo Guglielmelli, poiché  le vere basi furono interrate nella realizzazione del nuovo pavimento. I capitelli marmorei in situ nei setti divisori forniscono dei dati molto interessanti: di questi, ventisette sono di tipo corinzio, prodotti tra il I e il V d.C.,  tre di II-III d.C. , quattro invece databili al IV – V d.C. e di tipo “teodosiano”. Fra i quattro esemplari succitati, è da segnalare il capitello a sinistra, sulla colonna scanalata che insieme all’analogo e simmetrico sostegno, configura la zona presbiteriale, secondo una particolare soluzione.

L’originario arco absidale si imposta in corrispondenza di due mensole-architrave, allineate al diametro della concavità ed infisse nel muro a un’estremità: il tutto si data all’età post-costantiniana, cioè all’ultimo terzo del IV d.C.  È da sottolineare l’analogia della decorazione architettonica di  Santa Restituta con l’ambiente nord-africano, in particolare la configurazione dell’abside, la sopraelevazione del piano absidale rispetto all’aula, che richiama l’organizzazione della chiesa africana di Sabrata. La stessa disposizione si può osservare anche a San Giovanni Maggiore: nell’invaso absidale infatti si staccano dalle due estremità due mensole-architrave che vanno a poggiarsi su capitelli di colonne lisce. Tra due foglie d’acanto (realizzate in modo piatto e schematico) è inserito un monogramma clipeato che data le mensole-architrave all’epoca del vescovo Vincenzo (555-560). Nelle mensole di Santa Restituta tuttavia è rappresentata soltanto una foglia d’acanto a doppia pagina, che ripiega la sua cima sotto un rocchetto ionico con legatura frontale, mentre di profilo si disegna la voluta il cui andamento segue quello dell’elemento fitomorfo: è probabile che si tratti di un elemento più tardo, inserito nel corso di un restauro avvenuta in coincidenza con l’esecuzione del mosaico nell’arco absidale, datato al V secolo. La copia mensole-architrave di Santa Restituta funzionò da prototipo nel corso dell’Alto Medioevo bizantino a Napoli e nel suo entroterra. Analoghe mensole-architrave ad esempio  nell’ambiente a cui ora si accede all’oratorio, ora ipogeico, della cappella napoletana di Sant’Aspreno al porto.  sono nel protiro della basilica dei SS. Martiri a Cimitile[14] (891-896); una coppia di mensole architrave marmoree tipologicamente simili e pressochè coeva (metà X secolo) a quella di Cimitile proviene dal territorio fra Villasor e Decimoputzu, oggi custodita presso il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari. In base all’affinità strutturale con gli elementi del protiro di Cimitile, è verosimile l’ipotesi che restituisce i due marmi paralleli, infissi nel muro ai fianchi della porta architravata, a creare una sorta di breve ambulacro forse voltato, con  pilastri e capitelli a sostegno di “mensole” Anche nella chiesa di San Gavino a Porto Torres[15] in Sardegna ritroviamo l’identica ripartizione delle mensole-architrave di Santa Restituta, dove l’ornato interessa l’estremità riquadrata dalla cornice a listello che ripiega ad angolo retto. Si riconfermano le relazioni culturali tra la costa campana e l’isola, rinnovate e particolarmente evidenti in età mediobizantina; queste affinità sono spiegabili con i flussi di scambio commerciale e culturale che fin dall’età romana tardorepubblicana vedono da un lato l’instaurarsi di traffici tra la Campania e la Sardegna meridionale, dall’altro  la triangolazione degli stessi rispetto al fulcro rappresentato dai prodotti africani.

Della produzione plastica napoletana, tra IX e X secolo, la cattedrale conserva alcuni frammenti significativi, tuttavia solo ipoteticamente restituibili al suo arredo liturgico, quando non documentati in altra chiesa e solo successivamente trasferiti in Santa Restituta.

È il caso degli elementi marmorei già in Santa Maria in Piazza: l’iscrizione funeraria del duca Bono, un frammento di pluteo a maglie intrecciate, il cosiddetto “paliotto” di Santa Restituta. Quest’ultimo si trova in uno degli ambienti di servizio della sacrestia, insieme ad altri frammenti scultorei – tre frammenti di pluteo (due a griglia geometrica, uno con teste di grifo) e un piastrino con doppio nastro intrecciato – rinvenuti occasionalmente nell’area della cattedrale. Il frammento di pluteo e l’iscrizione di Bono sono murati nell’ultima navatella destra di Santa Restituta.  Il “paliotto” di Santa Restituta , caratterizzato dal campo interno liscio con cornice di sagome classiche e clipeo centrale descritto da un nastro intrecciato, che inscrive una croce greca con ai lati le rosette, è da identificare come pluteo, in base a prototipi di età paleobizantina, quali il pluteo  con cornice a doppio listello, croce greca e trifogli desinenti agli angoli, proveniente dalla chiesa di ed-Deir (oggi conservato al Museo di Madaba).

Alla scultura mediobizantina campana e sarda in un momento cronologico leggermente più tardo (primi decenni dell’XI) rimanda l’ultimo degli elementi marmorei della sacrestia della cattedrale: una striscia superstite da un pluteo con cornice a motivi geometrici e campo figurativo ospitante, con ogni probabilità, una coppia di grifi in schema araldico, affrontati all’albero della vita. Sotto il profilo iconografico i riscontri più stringenti vanno al pluteo del Museo Correale di Sorrento, per la particolare conformazione della testa, dell’occhio e del becco del quadrupede. Il nuovo dato formale che in quest’ambito scultoreo propone il frammento napoletano, è costituito dalla cornice ad alveoli, probabilmente destinati ad accogliere tarsie in stucco o in pasta vitrea. La tecnica è attestata sia in Campania che in Sardegna in età mediobizantina,  si collega alle opere eseguite in oriente e in occidente in età tardoantica e paloebizantina: ne è un esempio significativo il pluteo di S. Eufemia  a Costantinopoli (550 circa) .

Nel complesso, i frammenti marmorei della cattedrale sono  collocabili tra il IX e il X secolo e documentano l’inserimento delle botteghe napoletane nel quadro culturale di età mediobizantina, dove erano realizzate opere di chiara adesione ai modelli iconografici di derivazione orientale.

La decorazione architettonica  di Sant’Aspreno al Porto.

La chiesetta di Sant’Aspreno detta anche “dei Mercanti” o “dei Tintori”, dove secondo la leggenda San Pietro avrebbe battezzato Aspreno, è documentata dalla fine del XVI secolo, quando era dedicata a San Giovanni ad Corpus, e solo dal Seicento la si trova menzionata come Sant’Aspreno.
Evoluzione nei secoli. La storia edilizia dell’edificio di culto è particolarmente travagliata: edificata verso la fine del VI secolo,inizialmente si componeva di due locali, di cui l’oratorio inferiore era stato ricavato da un complesso termale di età romana[16]. In origine l’ingresso era da Via Sedile di Porto, attraverso un cortile, preceduto da un arco: l’interno della cappella era a T rovesciata, con un altare su ogni braccio e cupoletta centrale[17], mentre il vano inferiore presenta un sacello paleocristiano in muratura, circondato da un rustico recinto presbiteriale. L’accresciuto livello del suolo, in seguito all’espansione della città verso il mare, rese cripta il sacello, che in origine era affacciato sulla spiaggia, a devozione dei pescatori. Nell’800 la cappella fu completamente alterata: la pianta fu dotata di un nuovo atrio dove furono collocate le colonne cinquecentesche del distrutto chiostro di San Pietro ad Aram; l’edificio sacro venne inoltre inglobato nel Palazzo della Borsa di Napoli[18].

Descrizione degli elementi decorativi. All’interno della cappella, l’altare superstite si data all’VIII secolo, mentre degli affreschi che in origine la decoravano, restano oggi scarse tracce: sul primitivo altare in muratura è un’immagine raffigurante il vescovo Aspreno . Le lastre marmoree scolpite, invece sono collocate nella chiesetta superiore. Le transenne in realtà non sono state sistemate come erano in origine: con un lato infisso nel muro e l’altro nel piastrino terminale, ornato di rami e coronato da una cuspide, le due lastre di forma rettangolare, sono suddivise internamente in losanghe, da fasce ornate  da intrecci, mentre agli incroci sono dei fiorellini a quattro petali.. Le transenne recano motivi decorativi d’ispirazione bizantina e tardo-romana e motivi figurati[19] tratti da tessuti alessandrini, a ribadire il complesso intreccio culturale tra Napoli e l’Oriente esistente per tutto il periodo in cui il ducato napoletano fu, anche se solo nominalmente, parte dell’Impero bizantino. Nella decorazione si avverte una piena unità stilistica, poiché all’interno della solida ossatura geometrica, si inseriscono le figura degli animali, estremamente semplificate ma animate da un motivo quasi sempre sfrenato. Lo stesso ritmo caratterizza la decorazione dei pilastri lungo i quali , entro una semplice cornice a doppio listello, un tralcio di vite avvolge armonicamente foglie o grappoli d’uva.  Le transenne, in base ai caratteri paleografici dell’iscrizione greca[20] che corre lungo il listello superiore di incorniciatura, risalgono al IX-X secolo.
Lo stesso repertorio, svolto però in maniera più corrente, lo ritroviamo nelle decorazioni architettoniche del protiro della basilica dei SS. Martiri a Cimitile.

***

Sono questi dunque i motivi della scultura napoletana, la cui diffusione è molto ampia, poiché le sue caratteristiche peculiari si riscontrano   a Capua e a Benevento. Tuttavia è nei centri vicini, come  Cimitile e Sorrento, direttamente o indirettamente collegati a Napoli, che la scultura è accolta e forse rielaborata.

È il caso dei  frammenti lapidei appartenenti alla chiesa di Santa Maria Assunta a Pernosano (Pago del Vallo di Lauro): si tratta di pilastrini, transenne, plutei e capitelli, stilisticamente vicini alla produzione figurativa diffusa in Campania fra IX e X secolo.
I frammenti di pilastrini esibiscono un repertorio figurativo familiare ai lapicidi altomedievali[21]: tralci di vite con andamento sinusoidale e con decorazioni vegetali centrali, combinate talvolta con uccelli.
Significativi il pluteo con ippogrifi che affrontano un toro, conservato presso il Seminario Vescovile di Nola, e quello conservato nel Castello di Lauro, la cui provenienza è attribuita al sito di Pernosano, raffigurante l’albero della vita con ai lati due cervi.

 

L’oreficeria.

Sono poche le testimonianze giunte fino a noi delle opere di oreficeria napoletana realizzata nei secoli del ducato. Tra queste  è la Stauroteca del vescovo Leonzio(648-653), un reliquiario custodito attualmente nel Tesoro della Cattedrale di Napoli, che rappresenta uno dei più pregevoli prodotti dell’oreficeria bizantina. Date le piccole dimensioni della croce, è stato ipotizzato che fungesse da pettorale; realizzata in oro filigranato e gemme preziose, faceva parte del “gazophilacio” dei vescovi napoletani, di cui la gran parte andò dispersa durante l’assalto che il duca Sergio II, in lotta contro suo zio, il vescovo Atanasio I, condusse contro l’episcopio. I caratteri dell’oreficeria bizantina sono evidenti nell’esecuzione degli evangelisti, i quali sono raffigurati nelle parti terminali della croce – in recto e in verso – con la statica ieraticità dell’iconografia bizantina.

Altre notizie sull’oreficeria bizantina sono ricavate dai documenti del periodo, nei quali si riferisce che Atanasio I fece eseguire, per la Stefania, oltre a varia suppellettile liturgica in argento, anche una grande patena sul cui piano dorato era il busto del Cristo tra gli angeli. Nei documenti, inoltre, sono ricordati gioielli muliebri, bracciali e orecchini: non è possibile sapere se si tratti di opere originarie o eseguite a Napoli. Invece certamente dall’Oriente provengono le paste lapidee figurate che sono conservate al Museo Nazionale di Napoli; tra queste citiamo la placchetta con al centro la Vergine ed il Bambino tra gli angeli con intorno, in quattordici scomparti, le storie evangeliche; il disco in pietra rossastra che ha nel centro la Madonna in pasta dura; un’altra tavoletta in pasta dura che presenta, sullo sfondo una basilica bizantina, e in primo piano le figure di tre santi nimbati. Si tratta di oggetti devozionali, che hanno una scarsa importanza artistica, ma che sono un tramite di idee e di forme orientali.

§-Riferimenti bibliografici.

Coroneo, R. “Il complesso episcopale di Napoli: elementi di decoro architettonico e  di arredo liturgico altomedievale”, Il Duomo di Napoli dal paleocristiano all’età angioina, Electa 2002, pp.35- 43.

De Castris, P.L. “Un laborioso restauro di un raro affresco bizantino a Napoli: il palinsesto dell’abside di Santa Restituta”, Il Duomo di Napoli dal palecristiano all’età angiona, Electa 2002, pp.107-118.

Gandolfi K. “Les mosaiques du batipstere de Naples: programme, iconographique et liturgie”, Il Duomo di Napoli dal palecristiano all’età angiona, Electa 2002, pp.21-34.

Gleijeses, V. “La storia di Napoli dalle origini ai nostri giorni” società Editrice Napoletana 1977, pp.93-181.

Maier, J.L. “Le baptistere de Naple et ses mosaiques: etude historique et iconographique” Fribourg, 1964.

Napoli, M. “La città” in Storia di Napoli vol. II.

Pariset, P. “I mosaici del battistero di San Giovanni in fonte nello sviluppo della pittura paleocristiana a Napoli” Cahiers archeologiques XX (1970), pp. 1-33.

Petito , L. “Guida del Duomo di Napoli” 1982.

Rotili, M. “Arti figurative e arti minori” in Storia di Napoli, vol. II.2. alto Meriodevo, Cava dei Tirreni 1969, pp.879-901.

Id, “L’arte a Napoli dal VI al XIII secolo”, Napoli 1978.

Venditti, A. “Architettura bizantina in Italia meridionale” vol. II Campania – Calabria – Lucania. Napoli 1987.


[1] Napoli, come ci è raccontato da Procopio, era protetta da 800 soldati goti, sostenuti dai mercanti ebrei, mentre fuori dalle mura stava l’esercito romano e nel porto la flotta dell’imperatore di Bisanzio. La città era divisa in due fazioni, l’una a favore dei bizantini, l’altra a sfavore: i partigiani dell’impero avevano a capo un certo Stefano che era affiancato da un mercante siriano di nome Antioco, mentre la fazione filogota era capeggiata da due retori, Pastore e Asclepiodoto. La fazione bizantina inviò una delegazione a Belisario, con la richiesta di non cingere d’assedio la città: il generale bizantino, volendo venire incontro alla richiesta napoletana, concesse loro la resa onorevole, ma la fazione avversa diede notizia al popolo degli accordi presi, mandando le trattative a monte. I Bizantini penetrarono nella città dopo aver scoperto un passaggio attraverso un acquedotto: passarono oltre le mura e misero a ferro e fuoco la città, saccheggiandola.

[2]Dell’antica basilica,  fondata dal vescovo Vincenzo dopo l’occupazione bizantina della città, i resti dell’abside,costituiscono l’ingresso della nuova chiesa, con colonne corinzie provenienti da edifici romani.

L’ edificio sacro, originariamente era dedicato a San Michele, essendovi state trasportate le spoglie del santo nel IX secolo; solo in un secondo tempo assunse la denominazione attuale, che dapprima indicava soltanto una cappella, oggetto di particolare devozione. Nel 1640  un incendio distrusse l’edificio completamente e la ricostruzione venne affidata a Cosimo Fanzago. Il progetto iniziale, che prevedeva la realizzazione di due chiese non venne attuato, a causa delle difficoltà intercorse e della peste, e nell’esecuzione finale fu invertito l’orientamento della chiesa. Fu nuovamente ristrutturata dopo il terremoto del 1694. l’apertura di via Duomo nel 1880 provocò l’abbattimento della campata di destra, della facciata e del campanile; di conseguenza l’attuale disposizione interna è alquanto anomala, con pianta a navata unica e cappelle solo sul lato sinistro.

[3] Tuttavia, agli inizi del XIX secolo per volere del cardinale Luigi Ruffo Scilla, venne creato il conditorium, un luogo di sepoltura degli arcivescovi di Napoli. La realizzazione dell’ipogeo comportò la distruzione di preziosi materiali archeologici, i quali, stando alle ottocentesche notizie fornite da Lorenzo Loreto, che fu testimone dello scavo, avrebbero consentito di individuare il cosiddetto battistero vincenziano o ad fontes minores, ricordato nelle fonti letterarie, fatto erigere dal vescovo Vincenzo, nella seconda metà del VI secolo, insieme all’accubitum, ossia all’ambiente in cui si riposava e rifocillava il clero durante le liturgie solenni.

[4] Nel Mezzogiorno d’Italia il numero di battisteri presenti è molto esiguo; in generale, non vi sono regole fisse circa la sua ubicazione, comunque autonma rispetto all’edificio di culto, mentre la forma delle vasche e quella dell’edificio sono varie. Tra le recenti scoperte in Campania si segnala il battistero della basilica costantiniana di Capua, a pianta quadrata con cuffie angolari di raccordo, molto simile al battistero di Marcelianum e a quello di Napoli.

[5] Paolo Diacono tramanda questa preziosa testimonianza storica quando parla del vescovo Giovanni II , detto il Mediocre (535-557): egli fece costruire la Basilica del beato Lorenzo, diacono e martire, disposta con mirabili costruzioni; in essa si può vedere la tessitura del pavimento ordinata con maestria e le mura per intero incrostate di marmi”.

[6] La pianta può essere riconosciuta attraverso delle lastre di ottone inserite nel pavimentoo della chiesa odierna, poicjè le antiche mura sono situate a circa 70 cm di profondità.

[7] Le suddette colonne sono state riutilizzate nella costruzione della basilica trecentesca.

[8] Sono luoghi in cuii diaconi preparano le offerte o ripongono le particole consacrate dopo la comunione dei fedeli.

[9] Nel 1981, in occasione del restauro della chiesa reso necessario dal terremoto dell’80, avvenne un primo sondaggio dell’affresco, alla ricerca del sostrato medievale. I saggi  effettuati diedero risultati sorprendenti, poiché rivelarono parti conservate in alto a destra , nelle cuffie d’imposta dell’abside, fino a quel momento ricoperte di uno strato uniforme color grigiastro. Nel 1990 è stato realizzato il restauro completo dell’affresco.

[10] Esterni o locali i maestri, il ciclo di Sant’Angelo in Formis può presentarsi come il punto di partenza della pittura romanica nel meridione pur conservando due caratteristiche del Bizantinismo tradizionale: la non compenetrazione dei soggetti nella stessa scena e la non profondità della prospettiva.

Pur non completi e menomati da un maldestro restauro fatto intorno al 1928 gli affreschi danno ancora la possibilità di individuare “mani” di vari pittori tra i quali alcuni emergevano senza, però raggiungere vette eccelse. Così si parla del maestro della Maiestas Domini del catino absidale, di quello del Giudizio della contro-facciata, di quello delle scene del portico, di quello delle navate. Essi operarono con numerosi aiuti. Di questi uno si sarebbe occupato della rappresentazione delle parabole, un altro avrebbe lavorato alla realizzazione delle scene di Zaccheo, della samaritana, dell’adultera, della guarigione del cieco nato, della risurrezione di Lazzaro, della madre dei figli di Zebedeo, della cena in casa di Simone; un altro avrebbe lavorato per l’ingresso a Gerusalemme, per l’ultima cena e la lavanda dei piedi, per l’agonia di Gesù ed il bacio di Giuda.

Gli affreschi si sviluppavano secondo un programma meditato,coerente, sintetico, cristologico e coprivano tutte le pareti; su quelle laterali on episodi del Vecchio Testamento disposti su due registri sovrapposti, suddivisi in riquadri istinti da alberi flessuosi, e su quelle centrali con episodi del Nuovo Testamento (miracoli,parabole, passione e risurrezione di Gesù ) disposti su tre registri sovrapposti e suddivisi in riquadri distinti da colonnine di varia forma. Episodi più “forti” o para-bole più sentite” occupano più riquadri come la parabola del buon samaritano e la crocifissione. Una didascalia in esametri ne sfoglia sinteticamente il significato posto sotto l’abside centrale, quasi una cripta, che conserva piccoli frammenti di intonaco affrescato. Parte del ciclo pittorico è andato perduto. Quello che rimane racconta ampiamente il linguaggio dell’arte romanica nel meridione d’ Italia. Anche per la realizzazione della decorazione ritornano i nomi di Riccardo I e di Desiderio: il primo, ancora una volta, come finanziatore, il secondo come programmatore dottrinale in sintonia con la rinascita culturale e religiosa diffusa da Montecassino e voluta da Gregorio VII. Il tutto realizzato in pochi anni; tra il 1072 (data della donazione) ed il 1078 anno della morte di Riccardo I) o tra il 1072ed il 1087 (anno della morte di Desiderio.).Molti studiosi vorrebbero posticipare, anche di qualche secolo, la data di inizio e di termine delle decorazioni. In genere si parla della contemporaneità della costruzione della chiesa e della composizione del ciclo pittorico e della breve durata dell’ esecuzione

[11]Il complesso episcopale occupa nel tessuto urbano della Napoli greca, l’estrema porzione orientale, che, fin dalla fondazione, fu preferibilmente destinata ad usi religiosi, come lascerebbe intendere la tradizione antiquaria che descrive un edificio sacro dedicato in età romana, ad Apollo. Nel periodo repubblicano tale zona fu sicuramente interessata da un’intensa urbanizzazione, seguita, in epoca imperiale, da una serie di ristrutturazioni a completamento del quartiere urbano, indicato allora come Regio Herculanensis.

[12] Probabilmente anche Santa Restituta, al pari della Stefania , doveva essere completamente demolita, secondo l’originario programma angioino. Poi la morte del beato Nicolò e la sua sepoltura all’interno della basilica, furono l’occasione per preservare l’antica fabbrica costantiniana, tramutandola in un’ala della nuova cattedrale, sotto la giurisdizione dei canonici.

[13] Questa parte oggi mancante fu demolita per cedere spazio alla nuova costruzione medievale. É ipotizzabile che avesse all’origine cinque ingressi corrispondenti alle altrettante navate, ma i due più estremi dovettero essere murati precedentemente al rafforzamento dell’edificio dopo il terremoto del 1456, quando le navate estreme furono adattate a cappelle. Una epigrafe posta nel frontespizio del portale ci informa che fu ridimensionato come lo vediamo ancora oggi nel 1742, quando il Cardinale Spinelli murò i due ingressi laterali per consolidare le pareti sistemando nella navata sinistra i monumenti funerari dei suoi predecessori Alfonso Carafa e Alfonso Gesualdo.

[14] Nel fianco nord della basilica l’ingresso si pratica per una porta architravata, preceduta da un protiro a breve ambulacro con volta a botte impostata su mensole-architrave, infisse al muro e affacciate con sguscio che genera l’effetto visivo del pulvino; nella faccia frontale di ogni mensola-architrave si adagia una foglia d’acanto carnosa, la cui cima si incurva in alto sotto il rocchetto, delimitato in alto da uno stretto listello.

[15] Si tratta di un elemento erratico nella cripta della basilica romanica.

[16] V. Spinazzola ,durante gli ottocenteschi lavori di ristrutturazione che interessarono l’area in questione nel periodo del Risanamento, notò che il vano inferiore della cappella era coperto da una volta a botte.

[17] La pianta della cappella superiore, di cui è stato invertito l’orientamento, è stata descritta da M. Schipa.

[18] Il  palazzo, sede della Camera di Commercio, venne costruito nel 1895 dall’architetto Alfonso Guerra con i fondi donati nel 1861 dal generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II. Al già cospicuo lascito del Cialdini, si aggiunsero nel tempo altri finanziamenti della Provincia, del Comune e del Banco di Napoli. Molto ardua risultò la ricerca del sito sul quale erigere il palazzo. Non fu possibile trovare un lotto nella zona di piazza del Municipio, la cui ristrutturazione, in opera proprio in quegli anni, era stata affidata alla Società Immobiliare. Si decise quindi di optare per un terreno poco distante, sul quale sorgeva la chiesa di Sant’Aspreno, che doveva essere preservata integra, come previsto dalla direttiva della Commissione Municipale per la Conservazione dei Monumenti. Dopo lunghe trattative, la soluzione adottata fu quella di spostare di qualche metro, rispetto al progetto originario, l’edificio della Borsa, restringendo così via degli Acquari, ma salvando la chiesa.

[19] Vi figurano, nelle losanghe: due ippogrifi in corsa, un cavallo ed un cinghiale, pavoni affrontati, un gallo con al collo la tavola della Scrittura, anatre ai lati dell’albero della vita. Sono tutti elementi di richiamo biblico, tra i quali però non è presente alcun nesso logico e sono ormai ridotti ad essere dei semplici motivi ornamentali, come nelle stoffe preziose dai quali sono desunti.

[20] Sono riportati i nomi dei coniugi Campiulo e Costanza, costruttori della chiesa o, forse, promotori di un suo restauro.

[21] Da confrontare con l’arredo scultoreo di Santa Restituta, Sant’Aspreno e Cimitile.

(nella foto in apertura: particolare delle transenne marmoree della chiesetta di Sant’Aspreno al Porto, Napoli).



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