Grazie, Covacich, per avermi spiegato in parole umane cosa ci fa un orinatoio in un museo di arte contemporanea (Duchamp). Perché deve considerarsi arte il gesto di un ragazzo che si fa riprendere mentre il suo amico gli spara al braccio (Burden), o una mozzarella fresca sopra una carrozza d’epoca (De Dominicis) o una donna che cerca di pulire dal sangue ossa bovine (Abramovic).
Hai parlato in modo abbordabile, Covacich, ho capito perfino io che non ho alcuna base artistica.
Sappi comunque che non sono riuscita a coinvolgere mio marito:
A questo punto digli pure che Mark Rothko, dopo una lunga depressione, si è suicidato nel 1970. Se sghignazza dicendo “ovvio”, mi sa che ti conviene rinunciare.
Il mio, di marito, non ha detto “ovvio”. Ha detto “e te pareva”. Devo rinunciare lo stesso?
A parte questo, e riconoscendo l’utilità di questo breve saggio, mi restano in piedi due domande a cui mi piacerebbe Covacic rispondesse qualcosa:
1) capisco l’arte che non cerca più la bellezza ma la verità. Capisco che nella nostra epoca la riproducibilità tecnica è un dato di fatto, e che si può chiamare artista anche uno che produce in serie o fa costruire gli oggetti dal suo staff. Ma cosa ne resta della perizia tecnica? L’arte moderna può ridursi solo all’idea? Basta che io abbia un’idea originale che sveli qualcosa, costruisca un oggettino (o lo faccia costruire da altri), e posso dirmi Artista? Allora non servono più le scuole di pittura, né le accademie. Non ci serve imparare a tenere un pennello in mano?
2) ora che ho letto questo libro, ho capito i significati di alcune opere d’arte. Ma… se mi fossi trovata da sola davanti a una venere che rovista in un mucchio di stracci, io, col mio background medio, cosa avrei capito? Magari con l’ausilio di targhette scritte da curatori che scrivono con l’aria fritta? Voglio dire: l’arte contemporanea è troppo elitaria e quello che ne coglie la gente comune si riduce a una nuvola di fumo nero. Magari l’arrosto c’è, sotto, ma nessuno lo vede.