La scrittrice Flannery O’Connor indagò a fondo l’azione della grazia «nel territorio del diavolo». E affrontò una vita assediata dalla malattia con la fede marziale di una Giovanna d’Arco: «Sono sola a presidiare la fortezza…».
di Paolo Pegoraro
Negli Stati Uniti è un’autrice di culto. «La più grande scrittrice di racconti della mia generazione», secondo Kurt Vonnegut, ma l’adorano anche cantanti e registi: Nick Cave e Quentin Tarantino, tanto per fare due nomi. Il critico Harold Bloom l’ha inclusa tra i cento più grandi autori della letteratura mondiale di ogni epoca, dichiarandola sorella di Dante, Cervantes, Shakespeare e Dostoevskij. Perché la lettura di Flannery O’Connor non lascia uguali a prima. Semplicemente non può. Il primo incontro con le sue opere è in genere traumatizzante. La prosa, di una densità intollerabile, tiene incollato il lettore alla pagina costringendolo a vedere ciò che non vorrebbe. Profeti fanatici, bambini impiccati, figure androgine o cupamente scimmiesche, disabili annegati, vecchi rabbiosi, corpi deformi e arti amputati, mostri di rispettabilità e ragazzini molestati, seduttori e ladri e assassini ovunque… un repertorio da far impallidire Bret Easton Ellis. Eppure a offrircelo è una signorina cresciuta nel bel mezzo della Georgia puritana d’inizio Novecento, la quale amava affermare: «Scrivo come scrivo perché sono (non sebbene sia) cattolica». Una signorina che non si compiace mai dell’orrore e tanto meno lo compatisce: lo descrive con l’implacabile comicità della vita, come una storiella che fa ridere chiunque meno il suo permaloso protagonista.
Nel nostro Paese gli ammiratori di Flannery O’Connor sono una cerchia ristretta, ma qualcosa si muove. Elena Buia Rutt ha da poco firmato la sua prima monografia italiana (Flannery O’Connor. Il mistero e la scrittura, Àncora), nonché tradotto un’importante raccolta di saggi, lettere e recensioni ancora inedite nel nostro Paese (Il volto incompiuto, in uscita per Rizzoli). Una prima selezione di testi – significativamente intitolata Nel territorio del diavolo (Minimum fax) – era apparsa qualche anno fa in una versione inspiegabilmente monca. Infastidivano forse le pagine dove la O’Connor sostiene che il credere nella creazione o nel caso, nel libero arbitrio o nel determinismo, nell’essere fatti a immagine di Dio o viceversa ha conseguenze dirette su come lo scrittore concepisce ed elabora la propria narrativa? O piuttosto quelle dove asserisce che lo scrittore cattolico può perfino non essere cattolico, ma deve in ogni caso essere uno scrittore autentico o produrrà soltanto «spazzatura devota»? E soprattutto: da dove sbuca questa pretenziosa signorina che piglia per il bavero vita, arte e fede?
Sulla vita, è presto detto. Mary Flannery O’Connor nasce a Savannah, Georgia, il 25 marzo 1925. Da ragazzina si appassiona ad allevare ogni genere di gallinaceo dal piumaggio bizzarro e colorato – crestati polesi, fagiani, quaglie, tacchini, oche, anatre, bantam giapponesi – e confeziona loro perfino degli abiti. Negli anni successivi scopre di possedere due doni parimenti irrifiutabili, la vocazione letteraria e il lupus erythematosus, una disfunzione che scatena le difese immunitarie contro il proprio stesso corpo. La stessa malattia che aveva portato suo padre alla morte. «Non sono mai stata altrove che malata – scriverà anni dopo alla sua amica più cara. – In un certo senso è un luogo, più istruttivo di un lungo viaggio in Europa […] chi non ci passa perde una benedizione del Signore». Il suo unico viaggio di rilievo sarà proprio in Europa, per un’udienza in Vaticano e un pellegrinaggio a Lourdes. Lo sfacelo del corpo, intanto, l’aveva già costretta da anni alle stampelle: «una struttura ad archi rampanti», si autodefiniva con inaffondabile buonumore, lasciando però intendere che quello stesso corpo non era meno sacro di una cattedrale gotica. Il secondo tumore riesce a ucciderla nel 1964, senza averle però strappato un solo lamento in quattordici anni di malattia. Mary Flannery aveva continuato a scrivere fino a poco prima di entrare in coma, mentre gli oltre quaranta pavoni che aveva cresciuto presidiavano il giardino della sua casa a Milledgeville. In vita pubblicò solo due romanzi (La saggezza del sangue e Il cielo è dei violenti) e ventisette racconti, mentre la raccolta delle sue ormai leggendarie conferenze sulla scrittura uscì postuma. Ciò nonostante Flannery O’Connor raggiunse quello a cui, come sosteneva, dovrebbe mirare ogni scrittore serio: scambiare cento lettori di oggi con dieci fra dieci anni, e quei dieci per un solo lettore a distanza di un secolo.
Per la O’Connor la vocazione all’arte, come ogni altra vocazione d’altronde, è una questione serissima. Compito proprio di ogni scrittore – ella scrive – è rendere credibile «il mistero universale dell’incompletezza». Pertanto confinare la sua narrativa nello scaffale del grottesco perché colma di individui fisicamente sgradevoli o di ancor più agghiaccianti persone perbene amputate nello spirito, significa depotenziarne la forza di fuoco. Magari come estrema difesa. Addentrandosi nelle sue pagine, infatti, si rischia di vedere la propria anima deformemente riflessa in una galleria di specchi da Luna Park nient’affatto deformi. «Quando le nostre vite diventano necessariamente più grottesche – ha notato Harold Bloom – è probabile che la sua narrativa appaia ancora più adeguata». I protagonisti dei racconti o’connoriani sono spesso persone rinchiuse nella convinzione di dominare la propria vita. Le barriere che hanno eretto attorno a sé sono talmente inscalfibili che solo un intervento violento può sperare di incrinarle. La grazia si manifesta con la potenza delle trombe di Gerico, piuttosto che in una carezza di conforto. Grande ammiratrice di san Giovanni della Croce e di Gustave Flaubert («Non c’è frase di Madame Bovary che, esaminata, non desti meraviglia»), la O’Connor è allergica a quel sentimentalismo dozzinale che conduce all’accecamento interiore, tanto più mistificatorio quando si ammanta con le sembianze della religione. Il protagonista di Il cielo è dei violenti, ad esempio, obbedisce a una serie d’intuizioni interiori del tutto legittime, fino a quando l’esito estremo non ne smaschera l’origine diabolica. Il drammatico risveglio alla realtà, per quanto brutale, è il momento di grazia che si può accogliere oppure molto più semplicemente rifiutare. L’happy end è improbabile, o comunque non appare come tale, e ogni spiraglio di luce si fa strada come la grazia secondo Bonhoeffer: a caro prezzo… Nulla è scontato, nel nudo dramma della libertà incamminata «nel territorio del diavolo» e del divino costretto a conquistarsi ogni palmo intervenendo nelle modalità più imprevedibili. Per spiegare il suo credo narrativo la O’Connor cita un passo di san Cirillo di Gerusalemme: «Noi andiamo al Padre delle Anime, ma bisogna passare accanto al drago». La scrittrice prosegue: «Quale forma il drago possa assumere, è questo misterioso trascorrergli davanti, o finirgli tra le fauci, che le storie di qualsiasi profondità terranno sempre a raccontare». Quando la narrativa vi riesce, il lettore viene restituito alla propria realtà con una visione del mondo talmente intensificata che «ci vuole un coraggio notevole, in qualsiasi momento, in qualsiasi terra, per non voltare le spalle al narratore». In altre parole, il lettore abituato a una letteratura di svago – o anche intellettualmente impegnata, ma sostanzialmente rassicurante – rischia di trovarsi del tutto spaesato. A questo proposito la O’Connor puntualizza: «L’arte non acconsente mai al desiderio di farsi democratica; non è per tutti; è solo per coloro che sono disposti a sottoporsi al necessario sforzo di comprenderla. Sentiamo parlare molto dell’umiltà che serve per abbassarsi, ma elevarsi e raggiungere una qualità superiore, lavorando duramente, richiede la stessa dose di umiltà e un vero amore per la verità. E questo è sicuramente l’obbligo del cattolico».
Secondo la O’Connor la letteratura ha una funzione eminentemente conoscitiva, quello di rendere visibile e credibile «il mistero incarnato nella vita umana», ma secondo le forme proprie della narrativa: ogni cosa va resa «nel modo più tangibile, concreto, e specifico possibile». Lo spirituale deve manifestarsi attraverso il sensibile. Mistery and manners, s’intitola la raccolta originale dei suoi saggi, cioè il mistero e i modi per renderlo percepibile. Tanto più ciò di cui si parla è lontano dall’esperienza immediata del lettore – come nel caso della letteratura fantastica – tanto più lo scrittore dovrà sforzarsi di essere circostanziato e concreto, svestendosi delle astrazioni e riattivando i cinque sensi. Ma non basta. Descrivere la scorza della società senza farvi pulsare all’interno il dramma dell’esserci, come aveva fatto il positivismo letterario, sarebbe un’operazione altrettanto artisticamente monca. La scrittura della O’Connor addita al modello sacramentale dei gesti efficaci. Quanto avviene ai suoi protagonisti non è una metafora. Se una ragazza viene sedotta e abbandonata sopra un fienile dopo che le hanno rubato la sua gamba di legno, restiamo con il legittimo dubbio sul se e come riuscirà a scendere. Eppure in queste stesse azioni trabocca un’eccedenza di senso. Indicano che è accaduto ben altro. Alla ragazza non è stato sottratto solo un arto artificiale, ma la sua pretesa di autosufficienza, e proprio questo umiliante impatto con la propria incompletezza è il bruciante passaggio della grazia. Accettata o rinnegata: sarà l’azione conclusiva a proiettare la sua luce sull’intera vicenda, decidendone il significato ultimo. Ogni finale narrativo è pertanto un piccolo giudizio escatologico. Lo conferma Antonio Spadaro nell’introduzione al saggio di Elena Buia: «Sono le conseguenze estreme che generano le premesse e articolano le storie narrate, non viceversa».
Il finale della storia terrena di Flannery O’Connor è un giardino schiamazzante di pavoni, le code simili a una «mappa spiegata dell’universo» spalancate a mostrare «una galassia di soli cinti da aureole» e di «piccoli pianeti [...] bronzini». Quaranta pavoni. Cosa significava quell’inquietante epifania di bellezza per lo sguardo allenato della scrittrice? Gli antichi ritenevano che la carne di pavone fosse incorruttibile; e l’iconografia cristiana ne fece il simbolo della resurrezione. «L’ultima parola è dei pavoni» conclude la O’Connor: un prodigioso “Alleluja!” alzato al cielo da un coro di voci sgraziate.