di Alessandro Tinti
Le estenuanti e rovinose campagne statunitensi nei teatri mediorientali hanno segnalato il progressivo affidamento del Dipartimento della Difesa ai servizi offerti da imprese private. Malgrado i tagli apportati alla componente discrezionale del bilancio per la Difesa, l’esternalizzazione delle funzioni di sicurezza a “contractor” assunti all’occorrenza dalle agenzie governative è infatti divenuta un elemento essenziale per la piena operatività ed efficienza sia delle attività di combattimento che di stabilizzazione e ricostruzione condotte dalle Forze Armate, secondo una tendenza che dalle guerre nei Balcani ad oggi ha assunto una rilevanza critica per la protezione degli interessi strategici degli Stati Uniti negli scenari di conflitto. In altri termini, la supremazia militare della prima potenza mondiale richiede l’integrazione di capacità esterne nella struttura bellica.Per cogliere la dimensione del fenomeno basti tenere presente che dall’esplosione dei primi colpi in Iraq e in Afghanistan il numero dei contractor alle dipendenze del governo statunitense è stato mediamente superiore a quello dei “boots on the ground”, ossia della forza militare attiva, toccando la massima densità nel secondo semestre del 2008 con oltre 260mila unità impiegate nell’area di responsabilità del Comando Centrale (U.S. CENTCOM). La privatizzazione della politica di sicurezza dipende in larga misura dall’abbandono degli eserciti di massa e dalla conseguente specializzazione delle carriere militari avviata con la dissoluzione della simmetria bipolare della Guerra Fredda, ma sono in primo luogo l’emersione di un panorama strategico contraddistinto da minacce eterodosse (quali quelle sollevate dai soggetti sub-nazionali e trans-nazionali della violenza organizzata) ed il mutamento qualitativo dell’arte della guerra intervenuto con il tramonto della società industriale ad aver ingrossato la domanda di professionisti operanti a titolo privato. Data la generale contrazione della forza lavoro del settore pubblico, l’acquisizione di competenze esterne costituisce uno strumento cui ricorrono regolarmente i principali dicasteri dell’amministrazione statunitense.
Il Congressional Budget Office stima che tra il 2003 ed il 2007 siano stati impegnati complessivamente 85 mld del bilancio federale per il pagamento di contratti di collaborazione nell’ambito di Iraqi Freedom; a testimonianza dell’andamento crescente della spesa a ciò dedicata, il Congressional Research Service riporta che nel quinquennio successivo (2007-2012) il solo Pentagono ha allocato ben 160 mld per il supporto ad entrambe le “overseas contingency operations” combattute nel Grande Medio Oriente, esborso al quale devono aggiungersi i versamenti altrettanto imponenti corrisposti dagli altri dipartimenti. In questo senso i contractor sono risorse necessarie per la politica estera degli Stati Uniti poiché ne sostengono le ambizioni di proiezione globale ricucendo il divario tra i consistenti obiettivi geopolitici ed i limitati mezzi pubblici predisposti per il loro conseguimento.
Per questa ragione è legittimo ritenere che con l’esaurimento della missione ISAF in Afghanistan e l’accidentata transizione nel fronte iracheno, i contractor siano destinati non solo a svolgere funzioni tattiche di supporto alle forze convenzionali entro i teatri operativi in questione, ma anche a mediare strategicamente gli stessi interessi americani nel Grande Medio Oriente con il ritiro dei contingenti. Pertanto, la traiettoria del loro impiego negli anni di Obama può fornire degli elementi utili per leggere i tratti del futuro coinvolgimento della superpotenza nella regione.
Scarica gratuitamente il Research Paper N°21/giugno 2014: ”L’ascesa dei security contractor nella politica mediorientale degli USA: verso un nuovo paradigma di intervento?“
Photo credits: AP
Share on Tumblr