Insoddisfatta della vita che le ha garantito il marito, verso la sorte del quale mostra un’indifferenza raggelante, Lorraine vorrebbe partire con la prima corriera, ma Tatum la riporta bruscamente alla realtà della messa in scena, in cui lei deve assolutamente recitare il ruolo della moglie preoccupata. Tra i due si instaura un rapporto complesso: per Lorraine, Tatum è l’uomo dei miracoli, uno con cui rifarsi una vita; il cronista ha un’attrazione fisica verso la donna, ma tende a respingerla violentemente, perché nel cinismo così spontaneo e senza remore della donna, vede il suo stesso cinismo, uno specchio che risveglia pericolosamente la sua coscienza. Nel giro di poco tempo, la località diventa meta di gitanti con tende e roulotte e il fior fiore della stampa statunitense si precipita su quella che ormai è diventata una notizia da prima pagina. Ma l’unico giornalista ad avere accesso alla tomba è Tatum, mentre agli altri viene proibito dallo sceriffo per ragioni di sicurezza. Così, il cronista decaduto può indire un’asta tra i migliori quotidiani della costa orientale per vendere i suoi racconti esclusivi. Alla fine si accorda col quotidiano di New York, da cui era stato cacciato, ottenendo come contropartita, oltre alla paga, il reintegro in redazione.
Ma le cose precipitano: Leo Minosa inizia ad avere problemi con la respirazione e peggiora vistosamente ogni giorno. In Tatum inizia a farsi strada l’idea che la sua titanica messa in scena possa avere un finale diverso dall’happy end da lui scritto, indispensabile perchè la storia funzioni. La situazione ormai gli sfugge dalle mani: Lorraine vorrebbe andare con lui a New York e Tatum, completamente fuori di sé, finisce quasi per strangolarla, pensando di mettere a tacere la propria coscienza. La donna, per liberarsi dalla presa, afferra delle forbici e lo pugnala all’addome. Ferito e con tutto il mondo che gli frana addosso, Tatum passa la notte cercando di tenere alto il morale di Leo, ma alle prime luci dell’alba, quando ormai la perforatrice è giunta a tre metri, l’uomo muore. Il giornalista, dopo aver dato l’annuncio alla folla, invitandola ad andare via, si gioca un ultimo asso nella manica: vendere la storia di un cronista che per la sua ambizione e la sua voglia di rivalsa ha causato la morte di un uomo che poteva tranquillamente essere salvato. Ma New York gli chiude il telefono in faccia e quando arriva davanti all’anziano direttore di Albuquerque cade ai suoi piedi, forse morto per la ferita, forse soltanto stremato.
Uscito nel 1951, un anno dopo Viale del tramonto, L’asso nella manica non ebbe la fortuna del precedente, tanto che il suo insuccesso contribuì nella scelta di Wilder di occuparsi quasi esclusivamente di commedia per il resto della sua carriera. Sulla sua sorte gravò non poco il risentimento della stampa per l’affresco spietato che ne aveva fatto il regista. Partendo da un fatto realmente accaduto nel 1925, Wilder sviluppò una narrazione che apparve eccessiva per quei tempi non ancora del tutto inghiottiti dall’impazzimento della comunicazione, ma che oggi, a distanza di oltre sessant’anni, assume un rilievo profetico come pochi altri capolavori cinematografici. Il regista austro-americano scarnifica la retorica fintamente solidale verso il dramma individuale, per mostrare tutta la morbosa fascinazione dell’uomo moderno nei confronti della disgrazia altrui e la subdola strumentalizzazione del pathos da parte dei mass-media. Un film cupo che costringe lo spettatore a specchiarsi e riconoscere le miserie proprie e del sistema, oggi più di ieri, in cui anche la proverbiale ironia di Wilder non riesce a manifestarsi che sotto forma di sardonico cinismo. Impeccabile la fotografia di Charles Lang; perfetta la colonna sonora di Hugo Friedhofer, sempre in equilibrio tra il dramma reale e il macabro e surrealista carnevale del circo mediatico.