Massimo Gezzi(1976) è saggista e traduttore, docente di Italianistica all’Università di Berna e, per Edizioni Atelier, ha già pubblicato nel 2004 “Il mare a destra”.
Questa nuova silloge comprende un lasso temporale di 5 anni ( 2004-2009) ed è divisa in 5 sezioni. La prima eponima, mentre l’ultima è intitolata “Poco prima”. Così si snoda, nel flusso circolare di questi 5 tempi, un paradosso temporale che sfocia nelle forme di un congedo che non termina, di un nuovo inizio in exitu, insomma di un finale che non chiude, ma piuttosto spalanca la porta a nuove ipotesi e soluzioni che sembrano già preannunciate, con una specie di inchiostro simpatico, nelle liriche che compongono questa raccolta.
Ma in che cosa consiste essenzialmente la compiuta bellezza di questo “L’attimo dopo” di Massimo Gezzi? Innanzitutto, nella cadenza ritmico-sintattica che l’autore imprime al suo dettato poetico: i suoi versi hanno un empito, un respiro che si direbbe ‘classico’, frutto anche della notevole padronanza ritmico-formale che viene esibita quasi sommessamente dal poeta; eppure, al tempo stesso, queste liriche paiono tanto sincroniche ai tempi nostri, come se fossero incrostate da una fulgida patina di contemporaneità. Gezzi ostenta senza timore il suo debito di riconoscenza verso grandi nomi della lirica del ‘900 la cui importante lezione sembra tanto nitidamente rivista e riletta in queste liriche: mi riferisco a nomi come quelli di Sereni e Montale, di Fortini e di Giudici. Ma Gezzi non si accontenta di cifrati richiami o di vaghe citazioni, ma arriva addirittura all’omaggio esplicito che diventa quasi un calco dichiarato, un prestito esibito. Due esempi fra tutti: “Ho sceso le scale del condominio” ( da la poesia “Una parola non detta”) che recupera l’incipit di un celebre xenia montaliano “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale”; oppure nella poesia “Sul molo di Civitanova” l’allitterrante enjambement “la fede/ nel frenetico farsi delle foglie” che non può non riportare la memoria al D’Annunzio de “La sera fiesolana”: “Fresche le mie parole ne la sera ti sien come il fruscío che fan le foglie”. Ma questo attraversamento della tradizione non è inerte o sterile: Gezzi infatti, ribadendo i suoi legami con essa, ne attesta quasi la demolizione, la distruzione, lo sbriciolamento perché le contaminazioni e le combinazioni che subiscono questi innesti all’interno del suo dettato poetico conducono le sue liriche verso un luogo irrimediabilmente altro, differente, radicalmente diverso dalla tradizione del nostro 900: un sorta di oltraggio, di parricidio(poetico, beninteso) che nasce però da un atto di riconoscenza.
Tutte le liriche del resto sembrano nascere come testimonianza di una dinamica di spaesamento, di sradicamento, di disorientamento culturale, spaziale e temporale provocato dallo scontro tra vecchio e nuovo, tra dopo e prima, tra qui ed altrove. E questo è poi lo stesso senso di estraniamento che scaturisce da una poesia che si sposta velocemente da un luogo ad un altro in un vagabondaggio incessante di luoghi descritti per frammenti ed ellissi, per scarti e squarci, ma sempre illuminati da una sorta di felicità prospettica: il molo di Civitanova, per l’appunto,o S. Maria in Trastevere, un bosco o Grottamare, Berna ei quadri di Piero alla Galleria nazionale di Urbino,… Microcosmi ( un termine di magrisiana memoria che campeggiava in exergo ai contributi critici di Gezzi in ‘Porta Marina’), microcosmi dove si muove e si dipana una storia privata, cifrata, allusiva, eppure universale.
Ma la poesia di Gezzi è poesia anche eminentemente corporale e materica: corporale pensando all’attenzione quasi ossessiva che il poeta riserva a ciò che viene cancellato, abraso via dal corpo umano, gli scarti e le deiezioni la cui esistenza caduca ed effimera sussume quasi una valenza allegorica ( i capelli sul cuscino o nello scarico del bagno, la puzza d’aglio che non si riesce a mandar via dalle mani, un taglio sulla pancia, il bolo che scende nella rete fognaria,…)
Ma anche materica ( nisi materies aeterna teneret -se non le tenesse insieme una materia eterna-come recita il frammento lucreziano espressamente citato dall’autore) . Del resto è lo stesso Gezzi ad annunciarlo esplicitamente quando nella poesia “Venere davanti al sole” afferma: “la materialità dell’esistenza è cosa certa”. Una materialità che s’incista ed insiste ostinata anche in oggetti spuri o banali, del tutto inosservati e precari, ma che, trattati e riscattati dalla sensibilità del poeta, assumono una straordinaria incisività, un sovrasenso morale, una dimensione quasi epifanica.
Ma questo accade anche in una poesia programmaticamente intitolata “Reperti” ( e che ci piacrebbe vedere in qualche antologia scolastica per il modo con cui l’autore sa declinare profondità e semplicità) in cui Gezzi spiega la potenza quasi numinosa che agisce in normali ‘reperti’ rinvenuti per l’appunto in una passeggiata lungo un sentiero di campagna: un tronco tagliato fino alle radici, coriandoli di carta, una vecchia macchina da cucire e poi, nel giardino di casa, il luogo dove riposano le carcasse dei suoi vecchi amatissimi cani lì seppelliti da suo padre. Ma è il finale di questa lirica, impreziosito da una folgorante analogia, che non si lascia facilmente dimenticare:
“Chissà cosa resiste, adesso,
di quei corpi, se i lunghi filamenti
del pelo o le zanne dei canini, oppure se è come
se non fossero affatto transitati
in quella terra, stinti del tutto, divorati da insetti
che magari avrò schiacciato senza troppa
attenzione, non capendo che nel cric
di quegli scheletri echeggiava il guaito
familiare dei miei cani, la saliva che lasciava
minuscoli globi più scuri sul cemento,
brevi costellazioni evaporate
in un secondo, subito sparite in altre forme
anche loro.”
Sorprende poi in questa raccolta la puntuale trasposizione semantica che subiscono gli oggetti, provocata essenzialmente dalla presenza trasformatrice del tempo che ne muta aspetto e significato, assegnando loro un’orbita imprevista, una destinazione bizzarra, inattesa: i fari di una vecchia auto reclamata dalle radici del convolvolo, che ospitano nidi di vespe, i cancelli dell’università, che diventano passaggio e dimora di lumache. Questa vertigine metamorfica investe tutti questi oggetti di una altro significato, li scaraventa in una specie di universo altro e parallelo, che ne prefigura il destino, la paziente attesa di un disegno imperscrutabile e necessario a cui essi sembrano condotti. Oggetti spesso minimi e quasi impercebili quelli che calamitano l’interesse del poeta, tanto trasparente ed eterea, fino ai limiti dell’inconsistenza, la loro natura. In realtà, proprio questa precarietà fenomenologica, li rende depositari di un mistero quasi ineffabile. Penso ad una poesia come “Il seme del tiglio” che è una luminosa dichiarazione di poetica, un apologo di sobria bellezza sul rapporto che esiste fra Caso e Poesia.
“Il seme del tiglio
Mentre aspettavo l’autobus guardavo
le ondate di semi dei tigli
piovere sull’asfalto dopo un volo
di pochi metri: non attecchiranno,
le ruote delle auto li schiacceranno
in polvere finissima che la terra
assorbirà, con le piogge di settembre.
Mi stupivo del loro ingegno, del piccolo
velivolo naturale che li sovrasta
e li accompagna, nella discesa verso un tempo
che non vedranno mai.
La sera rincasando in automobile
ho sentito qualcosa scivolarmi
dai capelli: e su un braccio mi è atterrato
uno di questi semi, con le ali
acciaccate e il peduncolo piegato.
Peccato che non fossi
un bisonte di prateria, o un’antilope
che a balzi attraversa le montagne:
in uno scatto della corsa avrei deposto
il seme annidato nel mio pelo
in terra fertile. Invece sono un uomo
di città, e a poco è servita
la sua breve traversata, se adesso
abbandono quel chicco sul terrazzo,
sperando in qualcosa di più utile
di me, in un vento.”
Questa stessa visione lenticolare, analitica, quasi estenuata viene poi riservata poi anche alle figure ed alle presenze che si muovono in questi versi, evocate con dettagli in apparenza evanescenti e labili, ma che enucleano con potenza figurale il fulcro di una personalità scolpita per istantanee e fugaci accenni: un indice teso parallelo ad una forchetta, due occhi che lampeggiano dietro una veletta, il sorriso di una donna all’autogrill, la grana di una voce: schizzi rapidi e fugaci che dettagliano però compiutamente un carattere, una persona, una storia individuale.
Non so se esiste la ‘nostalgia del lettore’ ma questa sindrome colpisce chi si avvicina a questo libro di Massimo Gezzi: chi lo legge sente infatti il bisogno di ritornare più volte su questi versi per risolvere un enigma, per accertarsi di una descrizione, per riflettere su di un passaggio particolarmente felice. Questo di Gezzi è un libro di poesia che chiede di essere letto e riletto perché, ad ogni lettura, ci rivela una situazione inattesa, una sorpresa conoscitiva, uno scarto imprevisto dalla percezione abitudinaria del reale. Un libro denso ed enigmatico, che più lo si legge più diventa cifrato e misterioso, a dispetto della enunciazione netta e calibrata del dettato poetico.
(testo letto il 18 giugno 2010 a Portonovo(An), in occasione della V edizione de La Punta della Lingua 2010 Poesia Festival, durante la serata dedicata alla poesia di Massimo Gezzi e Adelelmo Ruggieri)