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A questo punto qualcuno potrebbe sorprendersi che il processo si sia poi concluso con una sentenza che riconosce gli imputati colpevoli, sì, di associazione sovversiva (articolo 270 del codice penale), ma non di terrorismo (articolo 270-bis). Ma chi è addentro nelle cose della giustizia italiana si è sorpreso un po’ meno di questo esito. È plausibile, infatti, che con questa decisione la Corte d’Assise d’Appello abbia inteso conformarsi alla sentenza con cui il 2 aprile scorso la Cassazione aveva annullato la prima decisione, del 2010, della stessa Corte d’Assise, nello stesso processo, nella quale invece le finalità di terrorismo erano state riconosciute. In sostanza, la Cassazione imputava alla Corte milanese di non avere sufficientemente individuato e dimostrato, nel comportamento dei questi brigatisti, “il proposito di intimidire indiscriminatamente la popolazione, l’intenzione di esercitare costrizione sui pubblici poteri”, oppure “la volontà di destabilizzare” o addirittura “distruggere gli assetti istituzionali del Paese”. Dunque, progettare un attentato alla sede di un grande quotidiano nazionale e un agguato mirato a ferire o uccidere una persona qualsiasi, assunta quale “rappresentante del capitalismo”, secondo questa nuova giurisprudenza, non è di per sé “terrorismo”. Resta il problema di capire che cosa, allora, secondo la Corte di Cassazione, sia “terrorismo”.
Se non è “terroristico” quel progetto dei nuovi brigatisti, ancor meno può qualificarsi come tale quello degli anarchici che a Genova hanno ferito il dirigente dell’Ansaldo di Genova Roberto Adinolfi. Questi ultimi infatti confessano di non credere nel valore politico della loro azione violenta, ma di farlo soltanto per motivi esistenziali e di auto-gratificazione: “impugnando la pistola abbiamo solo fatto un passo in più per uscire dall’alienazione”; “con una certa gradevolezza abbiamo armato le nostre mani, con piacere abbiamo riempito il caricatore [...] scegliere e seguire l’obiettivo, coordinare mente e mano sono stati un passaggio obbligato, la logica conseguenza di un’idea di giustizia, il rischio di una scelta e nello stesso tempo un confluire di sensazioni piacevoli”; “non cerchiamo consenso, ma complicità”. Qui c’è principalmente la soddisfazione di una qualche pulsione sadica, ma con un’esplicita rinuncia a perseguire concretamente e credibilmente effetti politici generali. Gli attentatori di Genova mostrano una piena consapevolezza della propria incapacità di “esercitare costrizione sui pubblici poteri” o, tanto meno, di “destabilizzare o addirittura distruggere gli assetti istituzionali del Paese”.
Ancor meno, probabilmente, potrà ravvisarsi un siffatto intendimento politico nell’attentato di Brindisi contro un istituto scolastico, dal momento che chi l’ha compiuto non lo ha in alcun modo esplicitato: come potrebbe “destabilizzare o distruggere gli assetti istituzionali del Paese” un attentatore che neppure fa conoscere all’opinione pubblica tale suo preciso intendimento? Neppure lì, dunque, può essersi trattato di terrorismo.
A ben vedere, questo è un bene per il Paese: tra le tante piaghe da curare, almeno questa del terrorismo non ce l’abbiamo più.
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