Lo sviluppo è davvero così disastroso come lo dipingono Zygmunt Bauman, Serge Latouche e gli altri critici radicali del consumismo? L’anno scorso Laterza ha ripubblicato un breve saggio di Bauman del 2009 sul Capitalismo parassitario. Secondo Bauman, il capitalismo (a cui dobbiamo lo sviluppo) è un sistema parassitario, che va alla ricerca di “specie ospitanti nuove”. Ai tempi di Rosa Luxemburg esso conquistava le economie esterne per appropriarsi della loro ricchezza (vedi L’accumulazione del capitale, del 1913). Adesso sfrutta i risparmiatori attraverso i prestiti bancari e facendo contrarre mutui immobiliari che non saranno onorati. Il sistema è sorretto e legittimato dallo Stato (Bauman rispolvera un famoso libro di Habermas degli anni Settanta; titolo in italiano: La crisi della razionalità nel capitalismo maturo). Soprattutto, il capitalismo sfrutta i consumatori; li spinge a indebitarsi sempre più per i loro consumi inutili, moltiplicando le carte di credito, e pagando interessi sugli interessi. Oggi si è passati dalla società solida dei produttori alla società liquida dei consumatori; e “la fonte primaria di accumulazione capitalistica” si trasferisce “dall’industria al mercato dei consumi”.
Sul piano economico, le analisi di Bauman – che hanno tanto successo – sono un guazzabuglio senza senso. Secondo Rosa Luxemburg il capitalismo si espande in altre aree non per parassitismo, ma per investire produttivamente i profitti. Esso sfrutta i produttori di ricchezza (i lavoratori); non ha senso dire che sfrutta i consumatori della ricchezza. Inoltre se il capitalismo è parassita, chi produce la ricchezza di cui si appropria? Ancora, “l’esercito industriale di riserva” (concetto di Marx) non c’entra niente col “mantenere i riservisti in buona forma”; anzi, è proprio il contrario. E così via. Però sul piano culturale il senso di quelle tesi è chiaro: la spinta del capitalismo a consumare sempre più disumanizza le persone; le impoverisce e le rende succubi dei pochi privilegiati, che si arricchiscono alle loro spalle.
La stessa cosa sostiene Latouche nei suoi innumerevoli libri. Nel 2008 Bollati Boringhieri ha ristampato il suo libro del 1995 La megamacchina. Essa è la macchina “infernale” del progresso capitalistico, che mette la tecnica al posto dei rapporti umani, distrugge i rapporti sociali e le differenze culturali. La verità dello sviluppo, scrive Latouche, non è altro che il PIL. Lo sviluppo si riduce all’aumento del benessere (che sarebbe meglio chiamare ben-avere); o almeno, il benessere ne è parte essenziale. Egli aggiunge: “Siamo seri. Si può sostenere la tesi di un progresso dell’uomo e dell’umanità?”. Abbiamo forse superato “la coscienza morale di Buddha o di Socrate? L’intelligenza di Platone? La raffinatezza della Cina antica?”.[1]
Ecco il punto. L’argomento di Latouche è illogico. La ricchezza economica non crea la coscienza morale o l’intelligenza di singole grandi personalità, ma migliora enormemente il livello medio dei costumi, delle conoscenze, dell’intelligenza di una società. Non solo. La stessa grande filosofia greca o la grande arte italiana e fiamminga del Rinascimento furono dovute all’arricchimento di quelle società, che consentì di usare parte della ricchezza per scopi non immediatamente produttivi. Questo dovrebbe essere risaputo. Già gli illuministi sapevano che lo sviluppo delle tecniche produttive (dell’odiata tecnica) nell’agricoltura intorno al Mille permise di destinare una parte del sovrappiù a lavori non agricoli. Fiorirono nuovi mestieri, che aumentarono ancora la produzione di ricchezza. Ma fiorirono anche le grandi riflessioni della Scolastica, poi le grandi cattedrali, ecc.
Che cosa vogliono dire Bauman, Latouche e i loro seguaci? Che saremmo più civili e staremmo meglio senza i prodotti della crescente ricchezza? Dovremmo condannare i nuovi prodotti? Lo aveva già detto Aristotele. Seguito da quasi tutta la cultura pre-moderna, ostile alla ricerca dell’arricchimento, egli contrappose i consumi “naturali”, positivi, a quelli “artificiali”, che sono inutili e frutto di bisogni immaginari. E da quale punto dovremmo cominciare a parlare di beni artificiali inutili? Dall’introduzione della carne cotta e delle scarpe nella preistoria? O dai panni di lana colorata del medioevo? O dal telefono, il frigorifero, la carta igienica, il computer, o il cellulare …?
Già nel Settecento Genovesi ha spiegato che i consumi sono tutti naturali e, allo stesso tempo, tutti artificiali; perché sono frutto della cultura e della sua evoluzione. Se si vuole criticare efficacemente l’attuale degenerazione del capitalismo e cercare una via d’uscita, quella di Bauman e Latouche non è la via giusta.
[1] A p. 168.
L’aumento dei consumi non è consumismo di Cosimo Perrotta