“Black out dell’immagine”, di Ricccardo Panattoni, Bruno Mondadori, 2013. Saggio sulla fotografia e gli anacronismi dello sguardo. Il libro di Riccardo Panattoni, Black out dell’immagine. Saggio sulla fotografia e gli anacronismi dello sguardo Bruno Mondadori, 2013) “[…] indaga in profondità e con un inatteso sguardo filosofico il significato della fotografia, al di là del suo valore documentario […]”.
Certamente questo è ciò che si riscontra durante la lettura, nel corso della quale ci si imbatte in un’ampia costellazione di begli accostamenti visivi di natura eterogenea: cinematografici, fotografici, di video arte posti accanto a spunti tratti da autori contemporanei: scrittori, filosofi, psicanalisti in un movimento che tiene insieme – quale doppio risvolto dell’immagine – esterno ed interno, materiale e psichico.
Ed è così che, ad esempio, il catalogo della mostra Volti attraverso Tokio 1996 del fotografo Paolo Gioli è posto accanto, come per affinità elettiva, al video di Ange Leccia Perfect day, ai quali – poche pagine avanti – verrà affiancato Walter Benjamin a cui Panattoni non cessa mai di riferirsi, ed a cui rimanda, citando alcune importanti intuizioni del pensatore tedesco, estrapolate dal “cantiere aperto” delle riflessioni benjaminiane.
Riccardo Panattoni
Ciò che costantemente si ritrova leggendo il saggio, è l’immagine quale medium materiale e mentale, ovvero come le immagini cinematografiche e fotografiche possano riguardare le nostre immagini interiori (sogni, allucinazioni, ricordi, emozioni).
La struttura del testo, pur non essendo di immediata comprensione per la complessità e ricchezza dei riferimenti riportati, nonché per il linguaggio molto spesso spiccatamente poetico, si rivela – una volta superata l’iniziale resistenza – generosa di rimandi affascinanti su cui soffermarsi a pensare.
Rimane deluso chi si aspetta un contributo tecnico sulla fotografia, infatti, come si legge nelle prime battute del libro – dal sapore decisamente benjaminiano – : “E’ nel momento in cui uno strumento perde il suo uso che si rivela fino in fondo per essere l’oggetto che è. Raggiunto quello stadio di totale abbandono a se stesso si dona completamente al suo farsi sola immagine per i nostri occhi. A quel punto il nostro sguardo, posandosi su quella forma inerme, si carica di un tempo del tutto particolare, perchè anche se non sappiamo definire con precisione quando, su quell’oggetto sentiamo come si sia sedimentata una storia”.
Benjamin qui fa capolino: infatti, nel passo sopracitato è in filigrana il suo pensiero secondo cui gli oggetti hanno una vita, una storia una memoria. E sono al pari degli esseri umani delle sopravvivenze. Come sopravvivono i fantasmi di cose e persone care, di eventi importanti del passato. Apparizioni, che riappaiono e scompaiono, transitando nell’intermondo dell’affettività singolare e comune al contempo. Come riappare e scompare l’aura benjaminiana: “l’apparizione unica di una lontananza per quanto possa essere vicina” (W. Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” cit., p. 70). Ma, su questo bagliore di poesia visiva, mi fermo, rinviando al libro.
Black out dell’immagine. Saggio sulla fotografia e gli anacronismi dello sguardo, Bruno Mondadori Ricerca, Milano 2013.