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L’economia che verrà – Introduzione

Creato il 28 novembre 2013 da Sviluppofelice @sviluppofelice

L’economia che verrà – IntroduzioneQuesto libro immagina l'economia che verrà. Quella che potrebbe essere verosimile una volta che riuscissimo ad emanciparci dall'egemonia del vivere per consumare, e quindi del lavorare per consumare, anziché del vivere bene. Un cambio di paradigma reso necessario dalla consapevolezza di vivere in un mondo finito, in un ambito malthusiano mitigato dalle innovazioni di processo[1] , e dove l'umanità interagisce con l'ambiente.

Solo immaginando che i bisogni umani siano infiniti, e le risorse naturali siano anch'esse illimitate, possiamo concepire la possibilità di una crescita senza fine della produzione. In un mondo finito come il nostro vale il secondo principio della termodinamica e quindi, anche se la tecnologia aumentasse indefinitamente, presto o tardi si cozzerebbe contro i limiti delle dotazioni non riproducibili.

C'è di più. Pur ammettendo che progressi tecnologici risparmiatori di energia e di risorse riescano a spostare il PIL possibile (inteso come quel livello di prodotto che non comprometta la riproducibilità), occorre interrogarsi sul ruolo dell'economia come funzionale all'uomo e non viceversa, dove si lavori per vivere (bene) e non viceversa.

Si tratta di una scelta obbligata. Da un lato, occorre considerare che se lo stile di vita statunitense venisse applicato all'intera popolazione mondiale avremmo bisogno delle risorse di altri 5 pianeti. Dall'altro, se ipotizzassimo un'equa distribuzione (per cui ogni abitante riceverebbe la stessa quota del PIL mondiale), avremmo un reddito mensile pro-capite (a parità di potere d'acquisto) di 400 $, ad oggi. Occorrerebbe dunque intervenire sui consumi riqualificandoli come prodotti a basso impatto ambientale, immateriali ed energy-saving; e nello stesso tempo intervenire sull'offerta (il reddito prodotto non sarebbe sufficiente per tutti). Non si tratta di avere una decrescita felice (i paesi emergenti e quelli ancora poveri, non possono certo proporsi di decrescere), ma uno sviluppo felice [grassetto della Redazione]. È difficile, ma appare chiaro che il sentiero sul quale siamo incamminati è insostenibile, a meno di sfociare in conflitti generazionali, tra paesi, o compromettendo l'ambiente che ci consente di vivere.

È un messaggio di ottimismo e disperazione allo stesso tempo.

Di ottimismo, perché in economia, a differenza delle scienze non sociali, si può scegliere. La prospettiva di morte termica dell'universo ci può spaventare, ma non ci spinge al suicidio immediato. Ci sono alternative, sta a noi sceglierle. In fisica non possiamo modificare la velocità della luce, se non dovesse piacerci, in economia sì: le leggi si possono cambiare. Possiamo perseguire la via di un aumento quantitativo del PIL, come si è fatto, ma non si potrà farlo pacificamente, per via dei limiti allo sviluppo che derivano dalla finitezza delle risorse e dalle differenti velocità delle innovazioni e della demografia. Oppure, perseguire un sogno che può apparire quasi utopico, ora, ma al quale non si può non pensare: asservire il progresso tecnologico all'uomo. Poiché l'innovazione genera profitti, ciò equivale a dire che l'umanità dovrebbe dominare il denaro, e non viceversa, riducendo, ad esempio, il tempo dedicato al lavoro.

Il pensiero corre ovviamente al Keynes delle Prospettive economiche per i nostri nipoti. Nel 1930, infatti, Keynes immaginò come potesse essere l'economia del 2010: piena di tempo libero e bisogni soddisfatti dall'aumento della produttività. Ciò che immaginava è che il limite fosse dato dai bisogni, senza distinguere però tra bisogni primari ed indotti. I primi sono certo limitati, ma i bisogni indotti no. Abbiamo scoperto che i bisogni si possono creare e quindi, se ipotizziamo che il PIL li soddisfi, allora aumentare il prodotto equivale a soddisfare nuovi bisogni e più cresce il PIL più bisogni siamo in grado di esaudire.

Di seguito immagino come l'economia potrà cambiare, e la nostra vita con essa. Da più parti si sostiene ormai che il PIL è una misura sbagliata della nostra vita: se lo abbandonassimo come unico indicatore e stella polare del nostro viaggio, magari integrandolo con altre misure, potremmo ottenere quel cambiamento del modo di vivere che auspico. La stazionarietà del PIL non implica la fine dell'economia tout court: implica la fine dell'economia capitalistica come accumulazione di merci, non del progresso tecnico o dell'aumento del benessere. Anzi, è proprio l'innovazione che ci libererà dal lavoro, rendendolo , e dai bisogni primari, lasciando intravedere agli abitanti della Terra la possibilità di incamminarsi lungo un sentiero di benessere. [...]

Tag: bisogni, crescita e decrescita, decrescità, economia, Lafargue, Marx, Mauro Gallegati, Pallante, Rifkin, risorse limitate e illimitate, Serge Latouche


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